di Pier Paolo Pasolini
Ho fatto un culto di Penna: e, come tutti i culti, esso mi dà il rimorso di non essere così forte e fedele da praticarlo degnamente. Ciò lo dico come se ambedue, Penna e io, fossimo morti, e la vita non ci toccasse dunque più con la sua miseria, che giorno per giorno, ora per ora, contraddice ciò che Penna è e ciò che io penso egli sia. È la vita nella sua totalità, come se noi l’avessimo del tutto adempiuta (e di fatto è quasi così), che ora io guardo. In questa vita lui si è tenuto in disparte, a contemplarla, come un animale buono, che qualche volta deve pur nutrirsi, e allora è costretto a predare, non potendo vivere di pura contemplazione, di "gioia e dolore di esserci". Avrà dunque compiuto anche lui i suoi peccati, e anche la sua coscienza avrà laboriosamente lottato per giustificarsene. E ciò l’avrà teso patetico come il personaggio di una grande opera, che quasi non canta. Questa tenerezza della miseria umana lo circonda come una aureola terrestre intorno a un capo celeste. Non dico che queste parole lo rappresentino del tutto fedelmente, e che non possano prestarsi a qualche equivoco, per un estraneo che legga questa nota: sì, infatti oltre che miseramente patetico, è anche un po’ buffo. E ciò contraddice alla sua immagine santa che sto delineando. Contraddice, intendo, nei termini usuali con cui si discorre: in realtà tutti i santi sono patetici e buffi. In cosa consiste la sua santità? Nel silenzio con cui ha rinunciato alla vita e al suo godimento così come è inteso nella nostra parte di storia in cui siamo apparsi su questa terra. Ripeto, ha cercato il suo godimento altrove, in cose considerate da tutti futili, remote, incomprensibili, infantili e sconvenienti. Anche Penna è stato, ripeto, un po’ predone di quella realtà che forse dovrebbe essere unicamente contemplata. Ma è proprio da questi suoi momenti di peccato - in cui è venuto meno alla regola della rinuncia e della umile, silenziosa, monastica protesta contro il mondo, così sublime e così inaccogliente - che ha trovato le ispirazioni per la sua poesia. Essa consiste nell’osservazione lieta e priva di ogni speranza delle cose (per Penna pochissime, anzi forse una sola) che si possono avere nel mondo per sopravviverci: ma questa osservazione è compiuta nel silenzio di quel luogo dove non si vive più ma, appunto, si contempla soltanto. Questa sua esclusione di se stesso da un mondo che del resto lo escludeva, è stata una lunga ascesi, fatta di notti e di giorni senza regola, in cui si ride e si piange, come ingenui personaggi di opere romantiche senza principio né fine, con le loro croci e le loro delizie: una lunga ascesi in cui, anziché pregare, egli ha cantato le forme del mondo lontano.Che ciò abbia fatto di lui - oltre che un santo anarchico e un precursore di ogni contestazione passiva e assoluta - anche forse il più grande, e il più lieto, poeta italiano vivente - è un discorso che si svolge su un piano molto più basso di quello di questa nota timida e aggressiva, che riguarda:da più la sua poesia vissuta che la sua poesia scritta. È la prima infatti a contare veramente, per chi - appunto perché educato e come tolto a se stesso da un lungo amore per la poesia - riesce a intravedere in essa ciò che vale al di fuori di ogni valore: la santità del nulla.
Il mio amore è furtivo
come quello di un povero.
Ognuno può rubarlo.
Ed io dovrò lasciarlo.
Per ciò, fiume silente,
per ciò, mio dolce colle,
io non posso chiamarlo
amor semplicemente.
Ma tu, colle dorato,
e tu, mio fiume molle,
sapete che il mio amore
davvero è un grande amore.
Il pericolo odiato
per adesso non c’è?
Ma voi sapete, amici,
che nel mio cuore è.
Piangere mi vedrete,
o voi sempre felici,
non come piango già,
non di felicità.
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