di Franco Arminio
Si dice che partire è un po’ morire, ma qui sappiamo bene che restare è un po’ morire. L’estate è finita. Magari a settembre avremo ancora delle belle giornate, ma ormai il tempo della libera uscita è consumato. Si torna nelle caserme domestiche, si torna alla televisione. Nelle piazze dei paesi restano gli scapoli, i malati di mente, i cani. E questi sono i giorni più difficili. Si è davanti al tunnel, ci sentiamo come una mucca che va al macello. Poi, una volta dentro il tunnel, subentra l’abitudine, e le nuvole e le inerzie dell’inverno diventano il costume della nostra convalescenza. Guardiamo il paese dal nostro letto di degenza come si guarda la mela e la bottiglia d’acqua sul comodino.
Qualche giorno fa è venuto a trovarmi un ragazzo di Ariano. Un trentenne in gamba, con un occhio ben aperto sul futuro e l’altra proteso a raccogliere la forza del passato. Insomma, uno che sa coniugare il computer e il pero selvatico, il rumore delle spighe e quello delle stampanti. Gli ho fatto fare il solito giro per Bisaccia, gli ho fatto vedere le frane che tagliano il paese e di cui nessuno si cura. La regione stanzia un sacco di soldi per grandi eventi che di grande hanno solo il narcisismo degli organizzatori. Un grande evento sicuro sarà la frana che prima o poi porterà giù a valle il mio paese.
Sentivo una certa stanchezza nel parlare col mio interlocutore. Lui ha entusiasmo, è tornato da poco in Irpinia, non è ancora piegato, piagato dalla sequele dei lunghi inverni in cui quel che doveva accadere non è accaduto ed è accaduto quel che non doveva accadere. Parlavamo del bellissimo Ariano folk festival, delle tante persone che collaborano alla riuscita di una delle poche feste in cui si sente veramente l’aria di festa. L’amico arianese aveva letto il mio recente articolo sugli stregoni del turismo. Voleva capire meglio cosa intendo per “città dei paesi”. Gli rispondevo in modo piuttosto evasivo. Ultimamente le conversazioni mi stancano e questo è un paradosso di cui sono vittima. Mi lamento, mi lamento di essere uno dei pochi a combattere contro la politica sfinita che ci sta sfinendo e poi quando trovo qualche compagnia ecco che mi sento a disagio.
Un certo disagio l’ho provato anche leggendo l’articolo di Paolo Saggese che riprendeva il discorso della “città dei paesi”. Lì si prospettano futuri forum per organizzare la politica culturale nella nostra provincia. Saggese è attivissimo, dà attenzione, a volte persino eccessiva, ad ogni produzione intellettuale made in Irpinia. Sarei felice se gli riuscisse di avviare, utilizzando il suo ruolo di assessore, un proficuo rapporto tra politica e cultura. Io sono disponibilissimo, ma bisogna ben capire chi è che oggi veramente fa politica e fa cultura. Penso alla politica come a una bicicletta senza ruote, come un groviglio di rami senza tronco. Penso alla cultura come alla testimonianza e alla protezione della verità, fatta a qualunque costo. Per me un esempio di intellettuale degno di tale parola era Mimì Tartaglia. Lui non faceva discorsi in nome del popolo come fanno i politici che pensano solo ai fatti loro, lui lavorava insieme alla gente più umile e insieme a questa gente ha costruito un bellissimo museo, forse la sola attrazione turistica costruita in Irpinia in questi anni. Delle bellezze naturali come il Terminio non possiamo dar merito a nessuno. Anzi, dovremmo lamentarci del fatto che le nostre montagne non godono delle cure che godono le montagne trentine.
Saggese mi invita a essere più clemente coi vari amministratori. Ha ragione e capisco anche che molti sindaci sono alle prese con quotidiani problemi legati alle scarsissime risorse economiche (spero che i nostri parlamentari si impegnino perché sia fatta una buona legge a sostegno dei piccoli comuni).
So benissimo, come diceva Calvino, che nell’inferno bisogna distinguere ciò che inferno non è e farlo notare. Ma in questi anni ne ho viste troppe di occasioni sprecate. Un solo piccolo esempio: qualche anno fa a Carife durante i lavori per fare il campo di calcio venne alla luce una grande fornace di epoca romana. Era la prova ulteriore dell’importanza di quel sito. Gli amministratori non ci pensarono nemmeno di andare a fare il campo di calcio altrove e ora chi va a Carife non ha nulla da vedere. La Baronia è cosparsa di cartelli turistici, ma la bella chiesa di Trevico è sempre chiusa e il castello di Zungoli è di proprietà privata.
Per me la “città dei paesi”, non può essere solo uno slogan per il cartellone estivo. Non credo molto alla cultura prodotta dalle istituzioni in assenza di un movimento reale della società. Il festival di Ariano funziona perché è portato avanti da un’associazioni di volontari. I paesi hanno bisogno di medici che abbiamo voglia di curare i tanti anziani che ci sono. Di giovani che chiedano conto ai loro sindaci di quanto fanno in cambio del lauto stipendio mensile. Il turismo non può essere l’ennesima palestra per esercizi accademici. I paesi hanno bisogno di attenzioni quotidiane e non di episodici esibizionismi.
Tra Milano e Brescia un inferno di macchine. Tra Bisaccia e Monteverde il vuoto. L’Italia dovrebbe essere orgogliosa dei suoi paesi, non solo di quelli ameni, ma soprattutto dei paesi più sperduti. Da lì può venire quel patrimonio di “identità e differenze” che nelle città è oscurato dalla morsa del consumo.
Ci sono giorni in cui sono sopraffatto dall’amarezza e mi vengono alla mente domande inutili. Quale grande cantante chiamerà Rosetta D’Amelio l’anno prossimo nella sua Lioni coi soldi che dovrebbero essere destinati alla politiche sociali? E con chi discutiamo se l’assessorato alla cultura del nostro capoluogo è vacante? Che dobbiamo dire ai sindaci che dicono di non avere soldi per abbonarsi a una bella rivista come l’Irpinia illustrata e poi li spendono per allestire siti internet che non aggiornano mai, vere e proprie rovine del mondo virtuale? Che senso ha importare spettacoli ed esportare persone? A che serve una bella serata di musica in un centro storico dove ognuno mette gli infissi e i colori che vuole alla sua casa? Siamo sicuri che per la prossima estate sarà risolto il problema dei rifiuti o dovremmo ancora vedere i nostri paesi arredati da bidoni stracolmi d’immondizia?
C’è qualche sindaco, qualche politico che ha voglia di rispondere a queste oziose domande? Ovviamente penso a risposte concrete, non alle sterili chiacchiere sul partito democratico, figlie di una cultura parolaia che ha le sue radici in certa sinistra e che ora sta inquinando quelle che furono le maldestre ma operose schiere democristiane.
Nessuno dice cosa vuole fare. Il motivo è semplice: non è facile avere un’idea di cosa bisogna fare. I discorsi che sento in giro sono tutti uguali, tutti fatti delle stesse frasi generiche e intercambiabili. Che significa scrivere che si vuole combattere la disoccupazione o valorizzare il territorio? La prova che un programma non è un programma è quando nessuno si può dichiarare in disaccordo con quanto diciamo. C’è qualcuno che possa dirsi contro la lotta alla disoccupazione o contro l’impegno a valorizzare il territorio? Allora vediamo chi riesce a dire qualcosa di preciso. Per esempio: abbattere un brutto monumento o non dare incentivi agli impiegati comunali per fare di pomeriggio quello che non fanno di mattina? Vediamo quale sindaco riesce a dire che destina in beneficenza almeno la metà del proprio stipendio. Vediamo quale assessore s’impegna a dare un rendiconto semestrale della propria attività.
Una volta c’erano i sarti che sapevano cucire e i calzolai che sapevano fare le scarpe. Adesso ci sono quelli che sanno parlare di politica. Quando si fanno le assemblee quasi tutti sono in grado di fare il loro discorsetto. I più coraggiosi osano mandare qualche nota ai giornali locali. Vivo in un paese in cui quelli che si vedono in giro, più o meno una cinquantina di persone, sempre le stesse, parlano costantemente di politica. Da questo punto di vista la democrazia si è compiuta: siamo al governo della chiacchiera e la chiacchiera per definizione è patrimonio popolare. In questa attività non c’è distinzione tra amministratori e amministrati, tra reazionari e rivoluzionari, tra fiduciosi e rassegnati.
Al nord si lavora. A sud si discute del problema del lavoro. Al nord ci sono ospedali che funzionano. A sud si discute del problema degli ospedali. A nord si riciclano i rifiuti. A sud si discute del problema dei rifiuti. Il sud è vario e accadono varie cose, ma una è sicuramente presente in ogni luogo: siamo i dannati della chiacchiera. Non quella piacevole che si fa sulle panchine, dove c’è sempre chi la conta cotta e chi la conta cruda, ma è chiaro che si sta lì per passare il tempo. Io penso alla chiacchiera estenuante delle riunioni “politiche”.
Riunioni, sempre riunioni. Documenti che vanno e che vengono. Chi voglia coltivare una qualche passione civile è costretto a passare nelle forche caudine delle chiacchiere. E devi sprecare tesori di energie non a individuare come si possa risolvere un problema, ma a combattere quelli che sono affezionati al problema e alla sua non soluzione.
Per me fare la città dei paesi significa smetterla di considerarci abitanti di un luogo minore. Il senso della lotta è tutto qui: affermare la residua possibilità di stare in un luogo. Se tutti si muovono, se tutti bramano di arricchirsi, diventa difficili starsene tranquilli e a proprio agio in un posto. Facilmente ci si sente prigionieri e si sprigiona in ognuno un vittimismo isterico, uno stare qui senza crederci, chiedendo agli altri di tenerci in vita. Occorre abituarsi a svolgere una serena, ma radicale obiezione a chi vuole confonderci, privarci della nostra storia e dei nostri luoghi per farci cittadini dell’universale impostura. Battersi per restaurare un castello, un sentiero di campagna. Battersi per il proprio paese e per quelli vicini considerandosi figli della stessa storia, dello stesso territorio. La posta in palio è molto più alta dell’arrivo di qualche pullman di turisti. Chi comanda vuole tenerci lontano dai conflitti che ci riguardano. Chi nel passato li alimentava oggi li smorza. E così tutto diventa confuso, impalpabile. La vera politica ci aiuta a scegliere e a distinguere e a lottare. Il resto è miseria.
Qualche giorno fa è venuto a trovarmi un ragazzo di Ariano. Un trentenne in gamba, con un occhio ben aperto sul futuro e l’altra proteso a raccogliere la forza del passato. Insomma, uno che sa coniugare il computer e il pero selvatico, il rumore delle spighe e quello delle stampanti. Gli ho fatto fare il solito giro per Bisaccia, gli ho fatto vedere le frane che tagliano il paese e di cui nessuno si cura. La regione stanzia un sacco di soldi per grandi eventi che di grande hanno solo il narcisismo degli organizzatori. Un grande evento sicuro sarà la frana che prima o poi porterà giù a valle il mio paese.
Sentivo una certa stanchezza nel parlare col mio interlocutore. Lui ha entusiasmo, è tornato da poco in Irpinia, non è ancora piegato, piagato dalla sequele dei lunghi inverni in cui quel che doveva accadere non è accaduto ed è accaduto quel che non doveva accadere. Parlavamo del bellissimo Ariano folk festival, delle tante persone che collaborano alla riuscita di una delle poche feste in cui si sente veramente l’aria di festa. L’amico arianese aveva letto il mio recente articolo sugli stregoni del turismo. Voleva capire meglio cosa intendo per “città dei paesi”. Gli rispondevo in modo piuttosto evasivo. Ultimamente le conversazioni mi stancano e questo è un paradosso di cui sono vittima. Mi lamento, mi lamento di essere uno dei pochi a combattere contro la politica sfinita che ci sta sfinendo e poi quando trovo qualche compagnia ecco che mi sento a disagio.
Un certo disagio l’ho provato anche leggendo l’articolo di Paolo Saggese che riprendeva il discorso della “città dei paesi”. Lì si prospettano futuri forum per organizzare la politica culturale nella nostra provincia. Saggese è attivissimo, dà attenzione, a volte persino eccessiva, ad ogni produzione intellettuale made in Irpinia. Sarei felice se gli riuscisse di avviare, utilizzando il suo ruolo di assessore, un proficuo rapporto tra politica e cultura. Io sono disponibilissimo, ma bisogna ben capire chi è che oggi veramente fa politica e fa cultura. Penso alla politica come a una bicicletta senza ruote, come un groviglio di rami senza tronco. Penso alla cultura come alla testimonianza e alla protezione della verità, fatta a qualunque costo. Per me un esempio di intellettuale degno di tale parola era Mimì Tartaglia. Lui non faceva discorsi in nome del popolo come fanno i politici che pensano solo ai fatti loro, lui lavorava insieme alla gente più umile e insieme a questa gente ha costruito un bellissimo museo, forse la sola attrazione turistica costruita in Irpinia in questi anni. Delle bellezze naturali come il Terminio non possiamo dar merito a nessuno. Anzi, dovremmo lamentarci del fatto che le nostre montagne non godono delle cure che godono le montagne trentine.
Saggese mi invita a essere più clemente coi vari amministratori. Ha ragione e capisco anche che molti sindaci sono alle prese con quotidiani problemi legati alle scarsissime risorse economiche (spero che i nostri parlamentari si impegnino perché sia fatta una buona legge a sostegno dei piccoli comuni).
So benissimo, come diceva Calvino, che nell’inferno bisogna distinguere ciò che inferno non è e farlo notare. Ma in questi anni ne ho viste troppe di occasioni sprecate. Un solo piccolo esempio: qualche anno fa a Carife durante i lavori per fare il campo di calcio venne alla luce una grande fornace di epoca romana. Era la prova ulteriore dell’importanza di quel sito. Gli amministratori non ci pensarono nemmeno di andare a fare il campo di calcio altrove e ora chi va a Carife non ha nulla da vedere. La Baronia è cosparsa di cartelli turistici, ma la bella chiesa di Trevico è sempre chiusa e il castello di Zungoli è di proprietà privata.
Per me la “città dei paesi”, non può essere solo uno slogan per il cartellone estivo. Non credo molto alla cultura prodotta dalle istituzioni in assenza di un movimento reale della società. Il festival di Ariano funziona perché è portato avanti da un’associazioni di volontari. I paesi hanno bisogno di medici che abbiamo voglia di curare i tanti anziani che ci sono. Di giovani che chiedano conto ai loro sindaci di quanto fanno in cambio del lauto stipendio mensile. Il turismo non può essere l’ennesima palestra per esercizi accademici. I paesi hanno bisogno di attenzioni quotidiane e non di episodici esibizionismi.
Tra Milano e Brescia un inferno di macchine. Tra Bisaccia e Monteverde il vuoto. L’Italia dovrebbe essere orgogliosa dei suoi paesi, non solo di quelli ameni, ma soprattutto dei paesi più sperduti. Da lì può venire quel patrimonio di “identità e differenze” che nelle città è oscurato dalla morsa del consumo.
Ci sono giorni in cui sono sopraffatto dall’amarezza e mi vengono alla mente domande inutili. Quale grande cantante chiamerà Rosetta D’Amelio l’anno prossimo nella sua Lioni coi soldi che dovrebbero essere destinati alla politiche sociali? E con chi discutiamo se l’assessorato alla cultura del nostro capoluogo è vacante? Che dobbiamo dire ai sindaci che dicono di non avere soldi per abbonarsi a una bella rivista come l’Irpinia illustrata e poi li spendono per allestire siti internet che non aggiornano mai, vere e proprie rovine del mondo virtuale? Che senso ha importare spettacoli ed esportare persone? A che serve una bella serata di musica in un centro storico dove ognuno mette gli infissi e i colori che vuole alla sua casa? Siamo sicuri che per la prossima estate sarà risolto il problema dei rifiuti o dovremmo ancora vedere i nostri paesi arredati da bidoni stracolmi d’immondizia?
C’è qualche sindaco, qualche politico che ha voglia di rispondere a queste oziose domande? Ovviamente penso a risposte concrete, non alle sterili chiacchiere sul partito democratico, figlie di una cultura parolaia che ha le sue radici in certa sinistra e che ora sta inquinando quelle che furono le maldestre ma operose schiere democristiane.
Nessuno dice cosa vuole fare. Il motivo è semplice: non è facile avere un’idea di cosa bisogna fare. I discorsi che sento in giro sono tutti uguali, tutti fatti delle stesse frasi generiche e intercambiabili. Che significa scrivere che si vuole combattere la disoccupazione o valorizzare il territorio? La prova che un programma non è un programma è quando nessuno si può dichiarare in disaccordo con quanto diciamo. C’è qualcuno che possa dirsi contro la lotta alla disoccupazione o contro l’impegno a valorizzare il territorio? Allora vediamo chi riesce a dire qualcosa di preciso. Per esempio: abbattere un brutto monumento o non dare incentivi agli impiegati comunali per fare di pomeriggio quello che non fanno di mattina? Vediamo quale sindaco riesce a dire che destina in beneficenza almeno la metà del proprio stipendio. Vediamo quale assessore s’impegna a dare un rendiconto semestrale della propria attività.
Una volta c’erano i sarti che sapevano cucire e i calzolai che sapevano fare le scarpe. Adesso ci sono quelli che sanno parlare di politica. Quando si fanno le assemblee quasi tutti sono in grado di fare il loro discorsetto. I più coraggiosi osano mandare qualche nota ai giornali locali. Vivo in un paese in cui quelli che si vedono in giro, più o meno una cinquantina di persone, sempre le stesse, parlano costantemente di politica. Da questo punto di vista la democrazia si è compiuta: siamo al governo della chiacchiera e la chiacchiera per definizione è patrimonio popolare. In questa attività non c’è distinzione tra amministratori e amministrati, tra reazionari e rivoluzionari, tra fiduciosi e rassegnati.
Al nord si lavora. A sud si discute del problema del lavoro. Al nord ci sono ospedali che funzionano. A sud si discute del problema degli ospedali. A nord si riciclano i rifiuti. A sud si discute del problema dei rifiuti. Il sud è vario e accadono varie cose, ma una è sicuramente presente in ogni luogo: siamo i dannati della chiacchiera. Non quella piacevole che si fa sulle panchine, dove c’è sempre chi la conta cotta e chi la conta cruda, ma è chiaro che si sta lì per passare il tempo. Io penso alla chiacchiera estenuante delle riunioni “politiche”.
Riunioni, sempre riunioni. Documenti che vanno e che vengono. Chi voglia coltivare una qualche passione civile è costretto a passare nelle forche caudine delle chiacchiere. E devi sprecare tesori di energie non a individuare come si possa risolvere un problema, ma a combattere quelli che sono affezionati al problema e alla sua non soluzione.
Per me fare la città dei paesi significa smetterla di considerarci abitanti di un luogo minore. Il senso della lotta è tutto qui: affermare la residua possibilità di stare in un luogo. Se tutti si muovono, se tutti bramano di arricchirsi, diventa difficili starsene tranquilli e a proprio agio in un posto. Facilmente ci si sente prigionieri e si sprigiona in ognuno un vittimismo isterico, uno stare qui senza crederci, chiedendo agli altri di tenerci in vita. Occorre abituarsi a svolgere una serena, ma radicale obiezione a chi vuole confonderci, privarci della nostra storia e dei nostri luoghi per farci cittadini dell’universale impostura. Battersi per restaurare un castello, un sentiero di campagna. Battersi per il proprio paese e per quelli vicini considerandosi figli della stessa storia, dello stesso territorio. La posta in palio è molto più alta dell’arrivo di qualche pullman di turisti. Chi comanda vuole tenerci lontano dai conflitti che ci riguardano. Chi nel passato li alimentava oggi li smorza. E così tutto diventa confuso, impalpabile. La vera politica ci aiuta a scegliere e a distinguere e a lottare. Il resto è miseria.
Nessun commento:
Posta un commento