Aleksandr Solzenicyn “Una giornata di Ivan Denisovic” Einaudi Milano 1995
Il freddo, la fame, le angherie patite in un campo di concentramento staliniano, e le strenue difese escogitate ogni giorno dai prigionieri per sopravvivere.
Solzenicyn (che visse in prima persona questa terribile esperienza dal 1945 al 1956) ci racconta
- con asciutta scrittura – la durissima esistenza dei detenuti, il logorarsi di ogni loro speranza, le loro stesse dispute per garantirsi il misero cibo quotidiano, le gerarchie ufficiali e spontanee vigenti in quel gelido inferno.
A proposito di:
(1) Valore emblematico del titolo(2)Memoria
(3)Annientamento della dignità umana
(4)Torture fisiche e psicologiche
(1) "So che la cosa più semplice è scrivere di se stesso, ma ho creduto che fosse più importante e più interessante descrivere i destini della Russia. Di tutte le tragedie che ha dovuto sopportare, la più profonda quella degli Ivan Denisovic. (...) Mentre mi ci trovavo (nel Lager) decisi di scriverne una giornata. Tolstoy diceva che tutta la vita europea di secoli può servire da canovaccio per un romanzo ma anche una sola giornata nella vita di qualsiasi contadino." Il racconto di una <> vissuta da un <> detenuto sarebbe stato dunque sufficiente, senza bisogno di spiegazioni e commenti, ma per la forza stessa delle cose, a rivelare una verità drammatica, che era sotto gli occhi di molti, ma di cui nessuno parlava.
(3) Non appena si sentì la sua voce, tutta particolare, come strozzata, nella baracca semibuia, dove non tutte le lampadine erano accese e duecento persone dormivano dentro cinquanta <> infestati di cimici (…)
(4) un inverno erano andati senza valenti, un altro neppure le scarpe avevano ricevuto, soltanto lapti e calosce (…)
(3) Se non si conta il sonno, il deportato ha per sé soltanto i dieci minuti della colazione, i cinque del pranzo e i cinque della cena.
(4) Ci sono guardie che vanno attorno come ciechi, e non gliene importa niente; altre, invece, ci prendono gusto.
(2)Quanta gente è andata in cella per via del berretto!
(3)Poi tirò fuori il pane, avvolto in uno straccetto bianco, e, tenendo lo straccetto teso all’altezza del petto, perché non una sola briciola cadesse a terra, prese a mordicchiarlo e a masticare.
Il freddo, la fame, le angherie patite in un campo di concentramento staliniano, e le strenue difese escogitate ogni giorno dai prigionieri per sopravvivere.
Solzenicyn (che visse in prima persona questa terribile esperienza dal 1945 al 1956) ci racconta
- con asciutta scrittura – la durissima esistenza dei detenuti, il logorarsi di ogni loro speranza, le loro stesse dispute per garantirsi il misero cibo quotidiano, le gerarchie ufficiali e spontanee vigenti in quel gelido inferno.
A proposito di:
(1) Valore emblematico del titolo(2)Memoria
(3)Annientamento della dignità umana
(4)Torture fisiche e psicologiche
(1) "So che la cosa più semplice è scrivere di se stesso, ma ho creduto che fosse più importante e più interessante descrivere i destini della Russia. Di tutte le tragedie che ha dovuto sopportare, la più profonda quella degli Ivan Denisovic. (...) Mentre mi ci trovavo (nel Lager) decisi di scriverne una giornata. Tolstoy diceva che tutta la vita europea di secoli può servire da canovaccio per un romanzo ma anche una sola giornata nella vita di qualsiasi contadino." Il racconto di una <
(3) Non appena si sentì la sua voce, tutta particolare, come strozzata, nella baracca semibuia, dove non tutte le lampadine erano accese e duecento persone dormivano dentro cinquanta <
(4) un inverno erano andati senza valenti, un altro neppure le scarpe avevano ricevuto, soltanto lapti e calosce (…)
(3) Se non si conta il sonno, il deportato ha per sé soltanto i dieci minuti della colazione, i cinque del pranzo e i cinque della cena.
(4) Ci sono guardie che vanno attorno come ciechi, e non gliene importa niente; altre, invece, ci prendono gusto.
(2)Quanta gente è andata in cella per via del berretto!
(3)Poi tirò fuori il pane, avvolto in uno straccetto bianco, e, tenendo lo straccetto teso all’altezza del petto, perché non una sola briciola cadesse a terra, prese a mordicchiarlo e a masticare.
Qual è il peggior nemico di un prigioniero? Un altro prigioniero. Se fra loro non si sbranassero come cani, infatti sarebbe tutta un'altra solfa!...
G.Oliva , Foibe . Le stragi negate degli italiani della Venezia Giulia e dell'Istria , Mondadori , Milano 2004.
Con questo libro G. Oliva ricostruisce le tragiche vicende del periodo tra il maggio e il giugno 1945 in tutte le loro articolazioni politiche e militari facendo luce su queste " stragi negate " e proponendole come patrimonio collettivo della storia nazionale. Migliaia di Italiani della Venezia Giulia , dell' Istria e della Dalmazia vengono uccisi dall' esercito jugoslavo del maresciallo Tito : molti di loro vengono gettati nelle foibe. Per oltre mezzo secolo su questi eccidi di oltre duecentomila persone è gravato un pesante silenzio. I maggiori argomenti trattati da G. Oliva sono : I quaranta giorni di Trieste, L' invasione della Jugoslavia e la politica di snazzionalizzazione del regime , Le foibe Istriane dell' autunno 1943 , La foiba come rovesciamento dei valori , La rottura dell' unità antifascista a Trieste.
Dal libro :
“Foibe e infoibati restano ancora una "strage negata" esclusa dalla coscienza collettiva della nazione”.
“1945, migliaia di italiani vengono uccisi dall' sercito jugoslavo del maresciallo Tito: molti di loro sono gettati nelle "foibe", che si trasformano in grandi fosse comuni, molti altri deportati nei campi della Slovenia e della Croazia,dove muoiono di stenti e malattie.”
Le immagini dei ritrovamenti scattate dai fotografi sono raccapriccianti: corpi mezzi nudi e decomposti sdraiati per terra, parenti con gli occhi pieni di orrore che cercano un particolare per riconoscere il congiunto,soccorritori col fazzoletto alla bocca per ripararsi dal fetore, sullo sfondo il profilo delle strutture di legno servite per il sollevamento.
" Il modo migliore per non capire il passato è non volerlo conoscere".
“La storia anche nei suoi momenti più drammatici e tumultuosi,anche quando l' irrazionalità sembra prendere il sopravvento,segue dei percorsi che vanno prima di tutto individuati e compresi:è solo così che la conoscenza e del passato si trasforma in conoscenza del presente.”
“Se nella venezia giulia le ferite sono rimaste aperte nel resto del paese non si è mai pensato di affrontare il problema con la ferma volontà di fare chiarezza.”
" l'esecuzione sommaria e l'infoibamento sono dunque il destino di una parte degli arrestati.A piccoli gruppi vengono portati dal carcere fino all'orlo degli inghiottitoi carsici e scaraventati nel baratro con una raffica di fucile: qualcuno cade ancora vivo trascinato dal peso dei compagni a cui è legato, e si sfracella sulle rocce."
" Basovizza,Opicina, Prosecco, Volci, Cruscevizza, Aurisina, Ternovizza: le località del Carso dove si aprono le voragini delle foibe, segnano un percorso di morte che procede a ritmi serrati.”
" Non tutte le vittime vengono gettate nelle foibe dopo la fucilazione: alcuni vengono infoibati ancora vivi perchè i proiettili li hanno soltanto feriti, altri perchè i giustizieri vengono rendere ancora più drammatica e feroce l'eliminazione."
Con questo libro G. Oliva ricostruisce le tragiche vicende del periodo tra il maggio e il giugno 1945 in tutte le loro articolazioni politiche e militari facendo luce su queste " stragi negate " e proponendole come patrimonio collettivo della storia nazionale. Migliaia di Italiani della Venezia Giulia , dell' Istria e della Dalmazia vengono uccisi dall' esercito jugoslavo del maresciallo Tito : molti di loro vengono gettati nelle foibe. Per oltre mezzo secolo su questi eccidi di oltre duecentomila persone è gravato un pesante silenzio. I maggiori argomenti trattati da G. Oliva sono : I quaranta giorni di Trieste, L' invasione della Jugoslavia e la politica di snazzionalizzazione del regime , Le foibe Istriane dell' autunno 1943 , La foiba come rovesciamento dei valori , La rottura dell' unità antifascista a Trieste.
Dal libro :
“Foibe e infoibati restano ancora una "strage negata" esclusa dalla coscienza collettiva della nazione”.
“1945, migliaia di italiani vengono uccisi dall' sercito jugoslavo del maresciallo Tito: molti di loro sono gettati nelle "foibe", che si trasformano in grandi fosse comuni, molti altri deportati nei campi della Slovenia e della Croazia,dove muoiono di stenti e malattie.”
Le immagini dei ritrovamenti scattate dai fotografi sono raccapriccianti: corpi mezzi nudi e decomposti sdraiati per terra, parenti con gli occhi pieni di orrore che cercano un particolare per riconoscere il congiunto,soccorritori col fazzoletto alla bocca per ripararsi dal fetore, sullo sfondo il profilo delle strutture di legno servite per il sollevamento.
" Il modo migliore per non capire il passato è non volerlo conoscere".
“La storia anche nei suoi momenti più drammatici e tumultuosi,anche quando l' irrazionalità sembra prendere il sopravvento,segue dei percorsi che vanno prima di tutto individuati e compresi:è solo così che la conoscenza e del passato si trasforma in conoscenza del presente.”
“Se nella venezia giulia le ferite sono rimaste aperte nel resto del paese non si è mai pensato di affrontare il problema con la ferma volontà di fare chiarezza.”
" l'esecuzione sommaria e l'infoibamento sono dunque il destino di una parte degli arrestati.A piccoli gruppi vengono portati dal carcere fino all'orlo degli inghiottitoi carsici e scaraventati nel baratro con una raffica di fucile: qualcuno cade ancora vivo trascinato dal peso dei compagni a cui è legato, e si sfracella sulle rocce."
" Basovizza,Opicina, Prosecco, Volci, Cruscevizza, Aurisina, Ternovizza: le località del Carso dove si aprono le voragini delle foibe, segnano un percorso di morte che procede a ritmi serrati.”
" Non tutte le vittime vengono gettate nelle foibe dopo la fucilazione: alcuni vengono infoibati ancora vivi perchè i proiettili li hanno soltanto feriti, altri perchè i giustizieri vengono rendere ancora più drammatica e feroce l'eliminazione."
Primo Levi, La Tregua, Enaudi,Torino 1987
L’autore racconta e descrive i sentimenti, i desideri e le emozioni di coloro che furono deportati nei campi di concentramento nazisti.Levi fa riflettere soprattutto sui traumi psicologici che permangono nelle menti di coloro che riuscirono a sopravvivere fisicamente a quel genocidio.
I mesi or ora trascorsi pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà,ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino.
Resta comunque indelebile la paura che un domani tutto possa ricominciare.
La vergogna che i tedeschi non conobbero ,quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui.
Così anche per noi anche l'ora della libertà suonò grave e chiusa,e ci riempì gli animi,ad un tempo,di gioia e di un doloroso senso di pudore,per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie dalla bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell'offesa sarebbero rimasti in noi per sempre e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne,e nei racconti che ne avremmo fatto.
Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri era agevole ravvisare, dietro l'aspetto concreto e letterale una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte delle nuove autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio.
Ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo.
La volontà di comunicare quel dolore e quella sofferenza ...
Non c’ è alcun bisogno di parole nell’osservare questa foto , nella quale tre corpicini privati di ogni cosa comunicano il loro dolore attraverso l’unico linguaggio che non gli è stato negato: quello del corpo.
Il kapò: Il lager, trappola mortale, "mulino da ossa" per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro, pronto, sagace, feroce e prudente.
Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino. se ti piace è così; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico.
L'uomo è gregario,e ricerca più o meno consapevolmente la vicinanza non già del suo prossimo generico, ma solo di chi condivide le sue convinzioni profonde.
Bisogna sempre evitare di essere "qualunque".Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la più insulsa.
L’autore racconta e descrive i sentimenti, i desideri e le emozioni di coloro che furono deportati nei campi di concentramento nazisti.Levi fa riflettere soprattutto sui traumi psicologici che permangono nelle menti di coloro che riuscirono a sopravvivere fisicamente a quel genocidio.
I mesi or ora trascorsi pur duri, di vagabondaggio ai margini della civiltà,ci apparivano adesso come una tregua, una parentesi di illimitata disponibilità, un dono provvidenziale ma irripetibile del destino.
Resta comunque indelebile la paura che un domani tutto possa ricominciare.
La vergogna che i tedeschi non conobbero ,quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui.
Così anche per noi anche l'ora della libertà suonò grave e chiusa,e ci riempì gli animi,ad un tempo,di gioia e di un doloroso senso di pudore,per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie dalla bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell'offesa sarebbero rimasti in noi per sempre e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne,e nei racconti che ne avremmo fatto.
Non intendo già mettere in dubbio che un bagno, per noi in quelle condizioni, fosse opportuno: era anzi necessario, e non sgradito. Ma in esso, ed in ciascuno di quei tre memorabili lavacri era agevole ravvisare, dietro l'aspetto concreto e letterale una grande ombra simbolica, il desiderio inconsapevole, da parte delle nuove autorità che volta a volta ci assorbiva nella sua sfera di spogliarci delle vestigia della nostra vita di prima, di fare di noi degli uomini nuovi, conformi ai loro modelli, di imporci il loro marchio.
Ma i suoi occhi, persi nel viso triangolare e smunto, saettavano terribilmente vivi, pieni di richiesta, di asserzione, della volontà di scatenarsi, di rompere la tomba del mutismo.
La volontà di comunicare quel dolore e quella sofferenza ...
Non c’ è alcun bisogno di parole nell’osservare questa foto , nella quale tre corpicini privati di ogni cosa comunicano il loro dolore attraverso l’unico linguaggio che non gli è stato negato: quello del corpo.
Il kapò: Il lager, trappola mortale, "mulino da ossa" per gli altri, era stato per lui una buona scuola: in pochi mesi aveva fatto di lui un giovane carnivoro, pronto, sagace, feroce e prudente.
Questo è un Lager tedesco, si chiama Auschwitz, e non se ne esce che per il Camino. se ti piace è così; se non ti piace, non hai che da andare a toccare il filo elettrico.
L'uomo è gregario,e ricerca più o meno consapevolmente la vicinanza non già del suo prossimo generico, ma solo di chi condivide le sue convinzioni profonde.
Bisogna sempre evitare di essere "qualunque".Tutte le vie sono chiuse a chi appare inutile, tutte sono aperte a chi esercita una funzione, anche la più insulsa.
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