di Antonio La Spina
La storia culturale del Sud è piena di luoghi comuni che hanno invaso l'intero Paese e anche la comunità mondiale. Eppure bisogna avere la forza di estirparli. Sappiamo tutti che il dibattito sul Mezzogiorno e sulla sua arretratezza è infarcito di luoghi comuni. Senza alcuna pretesa di completezza, proviamo a passarli in rassegna: ci accorgeremo che alcuni di essi appartengono ormai al passato; che alcuni si sono trasformati; che ancora altri, di recente, se ne sono aggiunti.Meridionalismo piagnone. La questione meridionale come tema di dibattito politico è nata ovviamente dopo i meridionalisti, che la sollevarono. È un luogo comune, tuttavia, che si possa parlare di un meridionalismo, per di più spesso «piagnone». All'indomani dell'unità d'Italia, i meridionalisti (sovente persone che non erano affatto nate o residenti al sud) erano un assai eterogeneo gruppo di studiosi, politici, polemisti, le cui proposte erano fortemente differenziate. Riscontriamo infatti, rispetto alle soluzioni istituzionali, posizioni tanto centraliste (Franchetti, Fortunato) quanto, all'opposto, federaliste (Salvemini, Colajanni); così come, rispetto alla politica economica, per un verso idee più o meno interventiste e protezioniste (Villari, Sonnino, Nitti, etc.), e per altro verso liberoscambiste e liberiste (ancora di Salvemini, o di De Viti De Marco e Colajanni, sia pure con oscillazioni). Nel secondo dopoguerra, poi, emerge anche un nuovo meridionalismo, di coloritura «tecnocratica», inteso a suggerire ai governanti (di cui adesso si dà per scontata la volontà di affrontare il problema) le migliori ricette di intervento. Negli anni Novanta, infine, si è avuta una critica di tali interventi, e dei loro effetti perversi. In tutte queste fasi, raramente i grandi meridionalisti furono piagnoni, se per piagnone si intende l'atteggiamento di chi cerca di fare della propria presunta debolezza un argomento per ottenere vantaggi e concessioni. Anzi, la polemica di Salvemini, Fortunato, Sturzo, Villari, Franchetti e Sonnino si indirizzò con forza anche contro la classe dirigente del Meridione, cui essi addebitavano in gran parte la responsabilità dell'arretratezza. Senza un mutato atteggiamento delle élites locali, le politiche di aiuto sarebbero state vane.In definitiva, non c'è un solo meridionalismo, ma ve ne sono stati tanti; può aversi, nella prassi concreta, un uso piagnone del meridionalismo, che però ne tradisce l'intento più genuino; pertanto, è forse opportuno, come qualcuno ha suggerito, evitare il termine «meridionalismo», e parlare piuttosto di opinioni sulle politiche di sviluppo per il Mezzogiorno.Risarcimento. L'intervento a favore del Mezzogiorno è stato spesso visto come una «riparazione» di «torti» subiti per via dell'unificazione, o successivamente, in periodo repubblicano: unificazione di mercati e moneta, prepotenza fiscale piemontese, drenaggio della forza lavoro tramite l'immigrazione. In realtà, anche se l'argomento del risarcimento ha avuto in passato una forte presa, esso è fallace sia per ragioni specifiche, sia per una ragione di fondo. Nello specifico, è assai dubbio che i suddetti «torti» costituissero veramente titolo per chiedere una riparazione. Tutt'al più, le politiche compensative avrebbero dovuto essere congiunturali, di breve termine, volte ad accompagnare e addolcire la transizione, un po' come oggi avviene con le politiche di coesione comunitarie. Ma ciò poteva valere subito dopo l'unificazione, non dopo decenni.La ragione di fondo, invece, è che, anche ammesso che vi fosse qualcosa da risarcire, non era affatto detto che affidare alle classi politiche locali (così come per lo più veniva richiesto) risorse da utilizzare in tale direzione avrebbe migliorato la situazione. Al contrario, una redistribuzione del genere avrebbe potuto addirittura aggravare il divario, favorendo selettivamente soltanto i membri di tali élites (anziché l'intera popolazione meridionale), e producendo al contempo ulteriori ostacoli allo sviluppo.Criminalità organizzata. Non si può contestare che la presenza di mafia, camorra, 'ndrangheta, etc. sia un deterrente all'avvio di nuove attività imprenditoriali, così come un peso per quelle esistenti. Tuttavia, è un luogo comune inesatto che la presenza di tali forme di criminalità sia sempre correlata al sottosviluppo. Per un verso, infatti, certe aree meridionali ove la criminalità organizzata non era presente sono rimaste comunque arretrate; per altro verso, alcune delle aree più dinamiche e ricche sono state quelle in cui essa è fiorita prima e in modo più esteso. Del resto, è ovvio che un mafioso razionale preferisca chiedere il pizzo a imprenditori robusti e floridi anziché a poveri braccianti o commercianti sull'orlo del fallimento. Va poi detto che, nell'offrire servizi come il recupero dei crediti, la garanzia del rispetto degli accordi, la protezione dalla microcriminalità, la mafia si atteggia come concorrente rispetto allo Stato nell'espletamento di una funzione essenziale, la tutela dei diritti di proprietà, in mancanza della quale non può esservi sviluppo. Pertanto, occorrerebbe soffermarsi più di quanto in genere non si faccia anche sui guasti prodotti dai ritardi e dalle distorsioni della giustizia (civile e amministrativa prima ancora che penale).Cassa per il Mezzogiorno. La Casmez viene spesso ricordata come l'emblema degli errori dell'intervento straordinario. Va anche detto, però, che essa richiamava prestigiose esperienze straniere (la Tennessee Valley Authority, creata durante il new deal roosveltiano), vide impegnati alcuni dei migliori tecnici del tempo, fu voluta da De Gasperi e avallata da Einaudi, riuscì a crearsi rapidamente una elevata reputazione internazionale (ad esempio nei riguardi della Banca Mondiale), dovuta anche alla sua struttura di agenzia indipendente. È discutibile che essa obbedisse a una logica «risarcitoria»; piuttosto, la sua funzione avrebbe dovuto essere quella di migliorare la competitività internazionale dell'intero sistema-Paese, con riferimento all'industrializzazione, all'innovazione tecnologica, alla modernizzazione del settore agricolo. Fino agli anni Settanta, periodo in cui protagonista dell'intervento verso il Mezzogiorno fu appunto la Cassa, il divario nord-sud diminuì, in termini occupazionali, di crescita del Pil, di localizzazione di investimenti e attività produttive. Dopo il 1974, con l'avvento delle Regioni, l'abolizione delle gabbie salariali, l'ottenimento da parte della classe politica nazionale e locale di assai maggiori possibilità di interferenza, le cose cambiarono, e il divario tornò ad aumentare, nonostante il continuo incremento delle risorse destinate all'intervento straordinario. Sulla Cassa cadde il discredito. Le subentrò l'Agensud, che fu poi risucchiata nel vortice della precipitosa chiusura dell'intervento straordinario, in omaggio al «vento del nord». Nel senso comune odierno Casmez è sinonimo di spreco e clientelismo. La realtà è stata un po' diversa.Industrializzazione. Negli anni Cinquanta appariva necessario superare il luogo comune secondo cui l'economia del sud dovesse essere prevalentemente rurale, a favore di un modello di sviluppo basato sull'industria, sia leggera che pesante. In concreto, gli stabilimenti effettivamente impiantati, nei casi più noti e importanti, furono quelli di industrie pesanti ad alto impatto ambientale e a basso potenziale occupazionale, per lo più di imprese a partecipazione statale: le «cattedrali nel deserto». Tale etichetta denigratoria, peraltro non del tutto infondata, servì poi negli anni Ottanta ad avvalorare un ulteriore luogo comune, vale a dire che si dovesse piuttosto puntare, oltre che sull'agricoltura, soprattutto sul turismo e sul commercio. Va detto però che, anche ipotizzando in tempi brevi un settore agricolo e un settore commerciale moderni, innovativi e capaci di creare valore aggiunto (cosa tutt'altro che scontata), essi non potranno mai più (specie il primo, ma anche il secondo, se non si evolve) assorbire quote consistenti di manodopera. Di conseguenza, la strada maestra continua a essere quella di creare contesti favorevoli (in termini non tanto di sussidi, quanto piuttosto di infrastrutture, servizi reali, abbattimento dei costi amministrativi e contenimento dei salari) agli insediamenti produttivi. L'avvento della new economy potrebbe aprire in tempi brevissimi scenari imprevisti e fruttuosi.Clientelismo. Per l'uomo della strada il clientelismo (vale a dire la tendenza a improntare l'attività pubblica non a criteri universalistici, bensì al favoritismo verso soggetti ritenuti «vicini», nell'aspettativa di un contraccambio in termini di consenso) è una caratteristica radicata delle amministrazioni meridionali. Secondo i Salvemini e gli Sturzo esso costituiva un freno allo sviluppo. Secondo tesi più recenti, il clientelismo potrebbe avere addirittura agito quale fattore di sviluppo. Ad esempio, nel caso abruzzese un politico locale, assurto a incarichi nazionali, avrebbe gestito le risorse in modo clientelare, ma per realizzare beni pubblici utili alla modernizzazione. Pur ammessa la correttezza di tale ricostruzione, anche in un caso del genere, tuttavia, il fattore saliente non sarebbe il clientelismo, quanto piuttosto la presenza di un imprenditore politico modernizzatore, la circostanza che il medesimo si trovasse in una posizione cruciale, e infine la capacità e l'opportunità di «piegare» relazioni clientelari al perseguimento di un disegno più lungimirante. Al di là di casi complessi e improbabili del genere, la gestione clientelare dei sussidi e degli incentivi, del credito, delle prestazioni amministrative, resta uno dei fattori di sottosviluppo più potenti.Il clientelismo è assai rilevante nello spiegare i flussi elettorali. Il passaggio dal proporzionale al maggioritario ha tuttavia provocato un grande sommovimento: il voto meridionale (anzi il voto a favore dei singoli notabili locali, capaci di tramandarlo di padre in figlio) era considerato il più stabile, in quanto stabilmente dettato da ragioni di scambio. Oggi è divenuto assai volatile, anche a pochi mesi di distanza, e anche distinguendosi dagli orientamenti politici nazionali. Per un breve periodo, nel 1996, buona parte del Mezzogiorno ha votato per partiti che erano all'opposizione rispetto alla maggioranza nazionale, cosa mai successa fin dal 1876. Nelle ultime elezioni regionali, invece, il nord ha espresso un voto di segno contrario al governo nazionale, mentre il sud ha più o meno votato in sintonia con esso. Di che tipo di voto si tratterà mai?Infrastrutture. Secondo un inveterato luogo comune, al sud «mancano le infrastrutture». Tuttavia, osserva qualcuno, con tale argomento si sono legittimate opere pubbliche faraoniche, sprecone, spesso inutili o dannose. Pertanto, non si dovrebbe parlare di carenze infrastrutturali, bensì, caso mai, di un cattivo funzionamento delle infrastrutture esistenti, e guardare con sospetto chiunque caldeggi una politica di opere pubbliche. In verità, è difficile negare quanto si vede a occhio nudo: molte opere pubbliche sono state sbagliate e inutili, ma quelle giuste e utili ancor oggi sono spesso da completare o da iniziare, in campi come le reti stradali, ferroviarie, portuali e aeroportuali, i servizi idrici, l'energia, i servizi di pubblica utilità in genere. Il Mezzogiorno, così come la maggior parte dei Paesi sottosviluppati, è caratterizzato dalla cronica carenza di beni pubblici (fiducia, certezza del godimento dei diritti, qualità ambientale, prestazioni sanitarie e sociali, prestazioni regolative e di vigilanza da parte delle pubbliche amministrazioni, etc.), dei quali le opere pubbliche sono una sottoclasse. La scelta e la realizzazione di tali opere, perciò, non è tanto da ostacolare, quanto piuttosto da isolare rispetto alle esigenze di consenso immediato che tipicamente ispirano le élites locali.Sviluppo endogeno. Diversamente da quanto si pensava quando l'intervento straordinario era ai suoi albori, oggi molti ritengono che lo sviluppo sia dovuto a risorse e processi interni alla comunità territoriale. Si parla pertanto, al riguardo, di sviluppo endogeno, autoctono, autopropulsivo. Le risorse locali (eventuali vantaggi competitivi, capitali, tipi di soggetti privati e pubblici, tipi di attività produttive e loro rapporti reciproci, dotazione infrastrutturale e di beni pubblici, regolazione locale, orientamenti all'innovazione, etc.) possono trovare tra loro originali e felici combinazioni. Queste hanno un radicamento locale, ma devono essere orientate verso l'esterno, vista l'apertura, l'interconnessione e la globalizzazione dei mercati. Un simile approccio, molto in voga, può talora spiegare bene ex post le ragioni del successo di singoli casi di sviluppo locale (ad esempio, di certi distretti industriali della «Terza Italia»). Tuttavia, a meno di affermare che lo sviluppo endogeno non richieda nessun intervento pubblico e che quindi i sistemi locali vanno lasciati a se stessi fino a che non si sviluppano da soli (posizione che sarebbe interessante e rispettabile, ma che non sembra sia condivisa dai fautori di tali teorie), occorrerà domandarsi, quando un sistema locale non si è sviluppato da solo, se per caso non vi sia stato qualcosa che lo abbia impedito. Ma se sussistono radicati ostacoli allo sviluppo (i quali possono assumere la forma più varia), allora è possibile che la loro eliminazione richieda uno shock apposito, che raramente potrà venire dalla costellazione delle forze locali. Tuttavia, se è così, ciò vuol dire per forza che nello sviluppo endogeno deve esservi una componente esogena, il che rivela, a ben guardare, che nella teoria c'è qualcosa che non va.Irlanda, Galles, California. È divenuto oggi assai frequente citare casi di aree in ritardo di sviluppo che hanno conosciuto una repentina riscossa. Le conoscenze comparative sono di norma sempre utili, ma non vanno usate in modo parziale, o a sproposito. Spesso si sente dire che l'Irlanda si è sviluppata grazie a una peculiare condizione di vantaggio fiscale, che ha attratto molti investimenti esteri. Non è così. O meglio, questo è stato uno dei fattori, che da solo non sarebbe stato sufficiente (tant'è che per molti anni esso operò senza che lo sviluppo decollasse). Non vanno tralasciati altri fattori: l'Industrial Development Agency, organismo indipendente a competenza nazionale, con compiti di selezione e promozione di iniziative imprenditoriali, nonché di marketing territoriale verso l'estero; l'assenza di livelli di governo sub-nazionali; la presenza di risorse umane ben addestrate e anglofone; la scelta di favorire settori (come l'informatica, le telecomunicazioni e l'high tech) di scarso impatto occupazionale nel breve periodo, ma ad alto valore aggiunto, la capacità di sfruttare la chance dei fondi comunitari. Ragionamento in parte analogo va svolto per il Galles. La California, caratterizzata da altissime capacità nel campo della ricerca e sviluppo e anch'essa dalla precoce intuizione delle tendenze che oggi chiamiamo di new economy, potrebbe essere un modello imitabile, viste, in linea teorica, le comuni attrattive climatiche, ambientali e urbanistiche. Ma, quand'anche ritenessimo che tali esempi stranieri siano irraggiungibili, potremmo almeno contentarci di imparare da Spagna e Portogallo.Programmazione negoziata. La programmazione è una antica idea, o slogan, o mito, o luogo comune, popolare anche in Italia a partire dagli anni Sessanta. Ciascun intervento andava inserito in una visione globale, che si proiettasse in avanti nel tempo per alcuni anni (tre, cinque). La pretesa era che la programmazione, muovendo dalla comprensione dei vari elementi della realtà, fosse proprio per questo in grado di modificarla secondo passaggi prestabiliti. L'obiezione era che una realtà complessa è già difficile da abbracciare mentalmente in una prospettiva statica. Figurarsi se poi si vuole «tenerla sotto controllo» mentre varie parti di essa dovrebbero muoversi secondo un disegno coordinato, pervenendo agli esiti desiderati. Forse in altri Paesi la programmazione ha avuto qualche risultato. Certamente molto pochi nel nostro, ove è stata molto invocata ma pochissimo praticata. Quando si è tentato di servirsene, ciò ha aggiunto complicazioni e ritardi a interventi che erano già ardui da realizzare di per sé.La versione odierna, con l'aggettivo «negoziata» (comprendendo esperienze quali i patti territoriali, i contratti d'area, gli accordi di programma), allude a qualcosa di ben diverso. Un processo che dovrebbe muovere non dall'alto, ma dal basso; non onnicomprensivo, ma locale; non «deciso» da un soggetto centrale, dotato di risorse e poteri d'imperio, ma «concertato» tra amministratori, imprenditori, sindacati, realtà associative locali. Si tratta, secondo alcuni, della naturale concretizzazione dell'idea di sviluppo endogeno. Ma la programmazione negoziata serve anzitutto a richiedere, e poi a gestire, denari che vengono da fuori (Ue, Stato). Tutto bene, forse, se i soggetti privati che concertano sono di per sé solidi e hanno buone idee, in grado di camminare sulle proprie gambe, la cui attuazione viene soltanto facilitata e accelerata dalla cooperazione. Un po' meno bene se si tratta di attori economici deboli, tradizionalisti (quanto a orientamento all'innovazione, all'export e al rischio) e abituati all'assistenza e al personalismo, che vedono nel sedersi al «tavolo di concertazione» una delle poche opportunità rimaste di ottenere risorse pubbliche, in ciò spalleggiati da amministratori locali e altre parti sociali alla ricerca di consenso. Il paradosso è che, proprio nelle realtà arretrate (al cui riscatto socioeconomico essa dovrebbe servire), tale «nuova» programmazione può riprodurre al proprio interno i fattori di paralisi dello sviluppo.Autonomia. Non è nuova, ma oggi circola con rinnovato vigore (in combinazione con slogan quali «federalismo» e «programmazione negoziata», di cui si è appena detto), l'idea che i principali attori della riscossa dall'arretratezza dovrebbero essere i soggetti che vivono e operano nelle realtà arretrate medesime. L'enfasi sulla funzione responsabilizzatrice dell'autonomia, che rimonta tra l'altro a Cattaneo, Salvemini e Sturzo, dovrebbe però tenere conto di esperienze quali quelle dell'autonomia regionale siciliana, che in pratica è stata utilizzata per privilegiare e riprodurre la burocrazia regionale, e fornire al contempo alla classe politica locale occasioni di distribuire ingenti risorse per creare consenso, producendo così un'economia e una società dipendenti.Si potrebbe osservare che l'autonomismo è stato una infedele parodia del vero federalismo. Istituzioni autenticamente federali, dotate di sistemi di investitura diretta e ampi poteri di intervento, dovrebbero fare assai meno affidamento su risorse attribuite dal centro, e assai più su quelle reperite tramite la propria autonomia fiscale. Un «federalismo senza trasferimenti», o con tetti di trasferimenti prestabiliti e invalicabili, è cosa ben diversa dal regionalismo così come lo abbiamo conosciuto. Ma potrebbe, da solo, promuovere lo sviluppo in modo accelerato? Realisticamente, no. Pertanto, occorre anche una diversa leva del mutamento, che in Paesi come la Spagna è stata il rispetto dei vincoli delle politiche strutturali comunitarie. Ancora una volta, se i sistemi locali sono tali da non approfittare spontaneamente di queste opportunità, l'alternativa sarà quella tra permanenza nel sottosviluppo e impiego di poteri sostitutivi e «straordinari» da parte di entità esterne a detti sistemi locali. Sembrerebbe una conclusione evidente, quasi banale. Eppure, grazie anche ai luoghi comuni che oggi circolano nel dibattito italiano, si è spesso riusciti a eluderla.
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