domenica 13 gennaio 2008

Carmine Cannelonga, un costruttore della democrazia del Mezzogiorno.

di Michele Galante

1. Introduzione


La storia del movimento operaio, che è parte non secondaria della storia della democrazia italiana e del nostro Paese, ha conosciuto nelle campagne del Tavoliere e della Capitanata alcune delle sue pagine più luminose e significative per la presenza di personalità che hanno segnato con la loro presenza, le loro idee e le loro lotte il percorso di emancipazione delle classi lavoratrici del Mezzogiorno e dell’Italia. A scandire questi momenti sono stati non soltanto dirigenti appartenenti al filone socialista come Leone Mucci e Domenico Fioritto, o esponenti nazionali di primissimo piano della tradizione del Partito Comunista Italiano come Giuseppe Di Vittorio, Ruggiero Grieco e Luigi Allegato, ma anche quella numerosa schiera di dirigenti provenienti per lo più dalle file dei braccianti del Tavoliere che hanno saputo in questa terra costruire tra le più importanti esperienze democratiche del Novecento. Sarebbe lunga l’elencazione dei tanti protagonisti che la storiografia chiama ingiustamente ‘periferici’, da Euclide Trematore a Silvestro Fiore, da Domenico Di Virgilio ad Antonio Di Donato, a Filippo Pelosi, diventati capi di movimenti di lavoratori e di popolo, che alle idealità socialiste hanno portato dedizione e fedeltà totale, segnando da protagonisti la storia della Capitanata e della Puglia.
È importante oggi recuperare la memoria di queste personalità, considerate a torto minori, che hanno segnato le tappe della nostra storia, per bloccare quella “distruzione del passato” di cui ha parlato il grande storico inglese Eric Hobsbawm, soprattutto in un momento in cui per furore ideologico o per convenienza politica, si tende a ‘rivedere’ sbrigativamente la storia cancellando uomini e donne che hanno riempito di passione, di dedizione e di idee la difficile via verso la democrazia e il progresso civile.
Parliamo soprattutto di una generazione di giovani che maturò tra l’avvento dei totalitarismi e la seconda guerra mondiale, che contribuì alla costruzione di un mondo nuovo e che nella gran parte non fece a tempo a vedere la fine della guerra fredda.
Tra questi protagonisti va annoverato a giusto titolo Carmine Cannelonga, un costruttore della democrazia del Mezzogiorno bracciante agricolo originario di San Severo, figura storica del movimento operaio e
della sinistra di Capitanata, e uno dei grandi protagonisti pugliesi della battaglia per la riconquista della libertà e della democrazia soppresse dal fascismo, del quale alcuni mesi addietro è ricorso il centenario della nascita.


2. La vita

Carmine Cannelonga nasce a San Severo il 3 febbraio 1904 da una modesta famiglia di braccianti agricoli. Suo padre Severino lavora come ‘curatolo’ alla vigilanza di una masseria dell’agro sanseverese, cosa che gli consente di avere una certa sicurezza per tutto l’anno, mentre la madre casalinga non disdegna di svolgere lavori extradomestici nei momenti di grave necessità.
Le condizioni della sua famiglia lo costringono a lavorare già all’età di otto anni in una fornace e ad abbandonare la scuola dopo la quarta elementare per andare a lavorare in campagna e qui tocca con mano la condizione subumana dei lavoratori agricoli.1
Cannelonga si affaccia d’istinto da ragazzo nell’agone politico colpito dalla miseria estrema nella quale vivono i ceti popolari, dai tanti lutti provocati dalla prima guerra mondiale e soprattutto impressionato dalle bestiali forme di sfruttamento e di sopraffazione cui sono sottoposti i lavoratori.
Entrato giovanissimo nelle file della gioventù socialista affascinato dalla figura dell’avvocato Leone Mucci, ben presto (a sedici anni!) sceglie di militare nella frazione comunista attratto dalle speranze e dai sentimenti di emancipazione umana che suscita la Rivoluzione d’ottobre in Russia.
Nel 1921 dà vita, insieme ad altri illustri personaggi (Allegato, Amoroso,
Ciannilli, Pelosi, Suriani, ecc...) alla fondazione in Capitanata del Partito Comunista d’Italia (P.C.d’I.). Inizia così subito la sua fiera opposizione al fascismo in una provincia segnata da una forte coscienza politica proletaria e che già il 14 ottobre del 1920 conosce a San Giovanni Rotondo il primo eccidio di massa ad opera di forza pubblica e fascisti per impedire l’espletamento del mandato amministrativo liberamente e democraticamente conferito dai cittadini ai socialisti.2
Le campagne del Tavoliere diventano teatro di un aspro scontro politico,
pesantemente segnato dalla violenza politica a danno dei braccianti e della sinistra da parte delle squadre di mazzieri di Giuseppe Caradonna, esponente di punta del fascismo pugliese.
Nel 1925 subisce, per aver distribuito dei volantini, il primo di una lunga
serie di arresti, condanne, persecuzioni, confino che scandiscono il suo calvario politico non appena il fascismo si consolida.


1 Assunta FACCHINO-Raffaele IACOVINO, Proletariato agricolo e movimento bracciantile in Capitanata (1861-
1950). San Marco in Lamis, Quaderni del Sud, 1982.
2 Raffaele MASCOLO, L’eccidio di San Giovanni Rotondo, Foggia, Amministrazione Provinciale,1982.

Nel 1926 è nominato fiduciario provinciale del partito comunista.
Nel 1928 subisce una condanna a dieci anni di carcere, all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a tre anni di vigilanza speciale per propaganda sovversiva ad opera del Tribunale speciale3 che sconta parzialmente in seguito ad intervenuta amnistia prima in regime di segregazione per venti mesi nel carcere di Volterra (Pisa) e successivamente in quel di Fossano (Cuneo), dove entra in contatto con larga parte dei capi dell’antifascismo. Un’esperienza dura e pesante che lo arricchisce di molto sul piano umano e ideologico, conferendogli prestigio morale e autorevolezza politica.
Nel periodo in cui è detenuto a Volterra viene a conoscenza di una domanda di grazia rivolta al duce dal padre su sollecitazione degli esponenti locali del regime al fine di indebolire l’opposizione. Un atto che, al pari di tanti giovani oppositori intransigenti, egli rifiuta con sdegno, ma che gli procura nel contempo un grande dispiacere e una vera e propria ferita morale. Un gesto che richiama l’intransigenza morale e politica di tanti combattenti antifascisti, a cominciare da Sandro Pertini.
Verso la fine del 1932 torna libero a San Severo, dove nel mese di maggio si verifica la più grande manifestazione popolare di opposizione al fascismo nei difficili “anni del consenso” con la partecipazione di quattromila manifestanti. Una protesta guidata da Raffaele Suriani e da un giovane adepto comunista, Paolo Sardella, e composta soprattutto da donne che reclamano pane e lavoro e che tentano di impossessarsi di alcune fosse granarie, sedata alla fine soltanto attraverso numerosi arresti e l’impiego su larga scala degli idranti.4
In questo periodo continua a stabilire rapporti sia con i suoi compagni di San Severo che con gli altri nuclei comunisti della zona (Apricena, Cerignola, San Nicandro Garganico, Torremaggiore) tessendo la tela della resistenza al fascismo e gettando i semi di quell’azione unitaria dei partiti che consentirà la rinascita democratica della Capitanata. Per questa attività nel maggio del 1937 viene assegnato su decisione della competente Commissione provinciale al confino di polizia per cinque anni, prima all’isola di Ponza e poi a Irsina, in Basilicata.
Caduto il fascismo, riprende subito il suo lavoro politico per dare il contributo alla ricostruzione del Paese precipitato nel baratro dalla ditta-tura e distrutto dalla guerra, per concorrere a fondare nuove istituzioni democratiche conferendo basi di massa, in netta discontinuità col carattere oligarchico del vecchio stato liberale, al processo di riconquista democratica in modo da dare rappresentanza e voce a quell’esercito di braccianti, contadini, operai esclusi da sempre dallo Stato.
Ma insieme alla ricostruzione materiale davanti alle forze politiche e ad una nuova generazione di dirigenti vi è anche il compito di ripensare lo spirito civico di una nazione uscita divisa e lacerata dalla guerra, che essi affrontano con determinazione e umiltà posponendo l’io individuale alle ragioni di una causa più grande e collettiva.


3 Adriano DAL PONT et al., Aula IV. Tutti i processi del Tribunale Speciale Fascista, Roma, ANPPIA, 1962.
4 Raffaele COLAPIETRA, La Capitanata durante il periodo fascista (1926-1943), Foggia, Amministrazione Provinciale, 1978, p. 118.


Il rapporto di Cannelonga con la sua terra e con il suo popolo in questo periodo si fa così intenso che diventa un punto di riferimento insostituibile insieme a Filippo Pelosi, maestro elementare, combattente antifranchista nella guerra di Spagna e successivamente sindaco e parlamentare, e soprattutto a Luigi Allegato, bracciante, capo dei comunisti di Capitanata e dirigente nazionale di prestigio, uomo della Costituente, eletto poi nel 1952 anche presidente dell’Amministrazione provinciale di Foggia.
Il lavoro di Cannelonga, insieme a quello degli altri due dirigenti che formano il nucleo forte dell’organizzazione di San Severo, che a sua volta costituisce il timone del risorto P.C.I. in Capitanata, segue due direttrici. Da una parte quella di ricostituire il partito e il sindacato, ovvero gli strumenti dell’azione politica e sindacale, costruendo un partito popolare e di massa “che aderisca a tutte le pieghe della società”, e che superi quello stato di “messianismo politico” che caratterizza larga parte delle organizzazioni proletarie del Mezzogiorno, ponendosi come strumento di liberazione generale, politica e sociale. Non a caso il Congresso provinciale del Partito Comunista si svolge nel centro dell’Alto Tavoliere già nel gennaio del 1944 con l’elezione a segretario provinciale di Luigi Allegato.
Dall’altra Cannelonga, che già assume la responsabilità della direzione della Camera del Lavoro e del Partito di San Severo, ha come preoccupazione costante quella di indirizzare l’azione per assicurare lavoro alle migliaia di lavoratori disperati che affollano le piazze dei nostri paesi, per migliorare le disumane condizioni di vita delle campagne e per garantire retribuzioni decenti, orari di lavoro sopportabili e soprattutto diritti sindacali, politici e civili, troppo spesso conculcati e misconosciuti.
La sua battaglia, forte dell’insegnamento di Di Vittorio e Togliatti, è tesa da una parte ad incidere sulle scelte del blocco sociale e politico dominante, dall’altra a rivolgere la lotta dei braccianti e dei contadini poveri verso sbocchi positivi che facciano crescere il consenso e le adesioni di fasce sempre più larghe di popolazione, raccogliendo e non subendo la protesta sociale e dimostrando sul campo la capacità di rispondere alle domande potenti di riscatto del proletariato e di rinnovamento generale della società. In questo modo si risponde anche alla martellante campagna fatta contro la sinistra e a quella serie di pregiudizi che vengono sparsi a piene mani in mezzo alle masse da parte dei proprietari terrieri e anche di settori retrivi della Chiesa.
Con spirito di sacrificio e di disciplina si trova così a svolgere una straordinaria opera di educazione sociale per dare ai lavoratori coscienza di sé e dei propri diritti e conquistarli ad una prospettiva politica positiva, costruendo un movimento organizzato e disciplinato, superando in avanti le spinte ribellistiche e sovversive e le manifestazioni massimaliste e orientando le loro energie verso obiettivi di progresso in una strategia gradualista di avanzamento democratico e di riforme.
Emblematica è in questo senso la battaglia condotta nei confronti di quei
lavoratori che in occasione delle campagne delle olive pensavano di arrotondare i loro magri bilanci rubandole, quella per l’imponibile di manodopera volta ad affermare la necessità di una riforma agraria e soprattutto di una svolta verso il Mezzogiorno, considerata questione centrale e decisiva per il futuro dell’Italia e l’altra, che rappresentò per San Severo un momento politico molto alto, per la quotizzazione dei terreni un tempo appartenenti al principe Di Sangro.
Tra la fine degli anni quaranta e i primi anni cinquanta viene più volte arrestato mentre è di nuovo in prima linea per difendere la causa dei lavoratori e della giustizia sociale. In modo particolare subisce una detenzione di due anni con l’accusa di “ insurrezione armata contro i poteri dello Stato” per la rivolta di San Severo del 23 marzo 1950, dalla quale viene assolto con formula piena dalla Corte d’Assise di Lucera.5 Una vicenda che ancora oggi presenta contorni poco chiari, le cui forme di lotta non condivide, ma che non riesce a contrastare. Una vicenda che lo segna in quanto vi intravede, oltre che l’ombra della provocazione interna ed esterna, anche il rischio di una deriva avventurista tale da far rifluire il partito verso comportamenti estremisti e insurrezionalisti, che possono inficiare la strategia togliattiana fondata sull’unità nazionale e sulla democrazia progressiva, sulla centralità della questione meridionale e della riforma agraria.
Chiusosi favorevolmente il processo, Cannelonga si presenta candidato alle elezioni amministrative di San Severo del 25 maggio 1952, che le forze di sinistra vincono dando vita ad una giunta capeggiata dall’on. Filippo Pelosi. Cannelonga viene eletto vice-sindaco di San Severo come riconoscimento del ruolo che da anni svolge con decisione, tenacia e intelligenza a difesa dei lavoratori. Per diversi anni è impegnato nel duro compito di assicurare lo sviluppo di una città importante del Mezzogiorno con l’occhio rivolto all’interesse generale e con una grande attenzione agli ultimi, ai braccianti, compito che assolve con sagacia, integrità morale e straordinaria passione civile.
Di questa esperienza e del suo modo di rapportarsi ai problemi dei cittadini, fatto di contatti personali, di spirito di servizio, di dedizione ci ha dato una viva e diretta testimonianza ne Il cafone all’inferno Tommaso Fiore:
“Ogni mattina alle 7 (sic! N.d.A.) il vice-sindaco e contadino Carmine Cannelonga lo si può trovare nel suo ufficio, su al Comune, allegro, infaticabile, scattante. Ognuno entra senza farsi annunziare, uno dopo l’altro, subito egli balza in piedi, ascolta, risponde, saluta, torna a sedere, a rialzarsi”.6 Un modo di amministrare fortemente incentrato sul rapporto diretto col popolo e sulla cultura del fare, lontano dall’assillo odierno dell’apparire.
Dopo questa esperienza amministrativa, torna di nuovo al lavoro sindacale con l’incarico di segretario provinciale dei pensionati della CGIL, che per diversi anni diventerà il “suo” sindacato, dando ad esso un impulso straordinario e conferendo un’impostazione moderna alle battaglie sostenute, non solo per ottenere pensioni dignitose, ma anche per vedere riconosciuti nuovi diritti per la terza età. Capisce d’istinto che la condizione degli anziani è una chiave di lettura importante per

5 Raffaele IACOVINO, San Severo si ribella, Milano, Teti Editore, 1977.
6 Tommaso FIORE, Il cafone all’inferno, Bari, Palomar, 1999.
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capire e per combattere la miseria di una civiltà produttivistica, incapace di guardare agli anziani come grande risorsa sociale. Di qui il suo impegno per una assistenza sanitaria e sociale moderna, per costruire luoghi di aggregazione che sconfiggano solitudine ed emarginazione e preservino il patrimonio umano e civile e le esperienze creative degli anziani.
Egli, oltre che figlio del popolo, si sente figlio del Mezzogiorno e non a caso discute animatamente e polemizza con quanti (storici, intellettuali o anche uomini politici) tendono a dare una visione distorta e caricaturale del Mezzogiorno considerato un territorio rassegnato e silente o con quanti ignorano o minimizzano la lotta di resistenza ai tedeschi che anche in questa parte dell’Italia si è sviluppata.


3. Il pensiero politico


Cannelonga ha avuto un’idea alta della politica intesa come servizio alla sua classe e al Paese, improntato a valori e principi di lealtà, di amore per il lavoro, di onestà e disinteresse personale. Caratteristiche, queste, che gli hanno consentito di conquistarsi l’affetto dei compagni di lotta e la stima degli avversari.
Egli è stato un militante e un dirigente che ha portato al suo partito dedizione e fedeltà totale, e che ha posto l’unità interna al di sopra di ogni pur legittimo dubbio politico. Non a caso nel delicato passaggio dal PCI al Partito Democratico della Sinistra avutosi agli inizi degli anni novanta, in una bella intervista apparsa su «La Gazzetta del Mezzogiorno»,7 con passione e preoccupazione raccomandava a tutti di mantenere la forza unitaria del partito al di là di chi potesse vincere o perdere, memore anche delle tante scissioni che hanno caratterizzato le vicende politiche della Sinistra italiana.
Ma Cannelonga è stato anche un comunista critico e non conformista, che rifiutava ogni visione agiografica o di maniera delle vicende politiche, che sapeva affermare e difendere con tutta la passione ed energia il proprio punto di vista.
Su alcuni decisivi passaggi storici non condivideva la vulgata di partito. Con Umberto Terracini, prestigioso dirigente del P.C.I. e uno dei padri costituenti, esprimeva un giudizio critico sulla scissione di Livorno del 1921 che aveva dato luogo alla nascita del P.C.d’I. e che aveva finito per dividere la sinistra, favorendo l’avanzata del fascismo. O faceva proprie, contro ogni visione mitica, le valutazioni di Giorgio Amendola sull’opposizione antifascista come fenomeno sostanzialmente minoritario della società italiana, senza che ciò significasse una svalutazione dell’eroismo e del coraggio di quanti, opponendosi, pagarono un durissimo prezzo in termini di libertà o dello straordinario obiettivo che le formazioni partigiane riuscirono a conseguire.8


7 Il grande vecchio ha detto sì, in «La Gazzetta del Mezzogiorno», 1° febbraio 1990.
8 Giorgio AMENDOLA, Intervista sull’antifascismo, Bari, Laterza, 1975.


Cannelonga che rivendicava con orgoglio la sua origine bracciantile ed esaltava le doti di combattività di questi lavoratori, capiva, tuttavia, il limite derivante da chiusure e forme di settarismo che impedivano la saldatura di interessi diversi e di obiettivi molteplici, frenando le capacità espansive del movimento operaio e bracciantile verso altri ceti e verso altre forze. Un limite che si riscontrò in Capitanata soprattutto nella lotta per la riforma agraria, a cui il nostro territorio fu sostanzialmente estraneo, se non per alcune azioni di lotta che investirono essenzialmente il Subappennino Dauno, e che fu oggetto di aspre critiche da parte del vertice nazionale del partito, e soprattutto da parte di Ruggiero Grieco, autorevole dirigente nazionale del P.C.I., responsabile della politica agraria e foggiano di nascita.9
Nello stesso tempo combatteva con forza e determinazione quelle tendenze liquidatorie della democrazia repubblicana provenienti da certa sinistra massimalista, riconoscendo non soltanto i grandi progressi che sul terreno economico e sociale e delle libertà civili e politiche erano stati compiuti a favore delle classi lavoratrici e più in generale dall’intero popolo italiano, ma rivendicando nel contempo il peso e l’influenza che su quel processo la sua parte politica e la sinistra italiana più complessivamente poterono esercitare anche dall’opposizione.
Come non era acquiescente su alcuni passaggi interni della storia del suo partito, così non era indulgente verso i guasti e le degenerazioni del “socialismo reale” che considerava un tradimento delle sue idealità e di un grande movimento storico collettivo, rimarcando la necessità del cambiamento. Come tanti della sua generazione, aveva sperato nella perestrojka di Gorbaciov, nella possibilità di una riforma del comunismo sovietico. Ma le cose, come è noto, andarono diversamente.
Per questo motivo non ebbe difficoltà a condividere, dopo la caduta del muro di Berlino, la scelta di trasformare il P.C.I. in un’altra formazione politica, anche se la morte avvenuta il 13 maggio del 1990 non gli consentì di vivere compiutamente questo passaggio né lo storico accesso alla direzione politica del Paese di uomini del suo partito cui tanto aveva dato nel corso della vita.
Cannelonga, anche oltre i settanta anni conservò per intero le caratteristiche di un dirigente politico che si distingueva per la capacità di leggere la realtà effettuale.
Nelle riunioni non si abbandonava a lunghe tirate retoriche, ma interveniva confortato sempre da dati di fatto a supporto della sua tesi. Così, spiegava con la forza dei numeri il mutamento del paesaggio agrario del Tavoliere o la crescita della popolazione anziana. Un metodo totalmente diverso dalla chiacchiera che sovente
domina nella vita politica.
Questo è stato Carmine Cannelonga, con le sue luci e con le sue contraddizioni, con i suoi ideali e l’amore per la libertà e per i più deboli.
La sua è una vicenda straordinaria, fatta di coraggio, di coerenza, di dedizione piena ad un ideale. Oggi che la prassi politica è ispirata prevalentemente alle


9 Su queste vicende una prima ricostruzione è stata fatta da Michele Patruno, nel saggio Il difficile rapporto
tra Ruggiero Grieco e Luigi Allegato sulla Riforma agraria in Capitanata, in «Sud-Est», 2004, 1 (novembre),
pp. 96-105.

logiche del potere, dell’interesse personale e di mercato, e che fa capolino la tentazione di restringere gli spazi di democrazia e di libertà anche attraverso la manipolazione della storia, non è fuori luogo richiamare la lezione di un bracciante che, pur senza aver ricoperto incarichi pubblici di primissimo piano, ha segnato da protagonista la vicenda politica della Capitanata e che va annoverato, a buon diritto, tra i costruttori della democrazia repubblicana e al quale le istituzioni della provincia di Foggia dovrebbero tributare senza ulteriori indugi, l’onore che merita.

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