ERNESTO ROSSI
di Nello Ajello
Ernesto Rossi va sempre più dimostrandosi uno degli intelletti più alti, una delle coscienze più limpide e profetiche della democrazia italiana. Hanno rafforzato quest'immagine la biografia dedicatagli nel 1997 da Giuseppe Fiori e la abbastanza recente comparsa (o ricomparsa) di varie sue opere, da Abolire la miseria a Una spia del regime, da Il manganello e l'aspersorio a Il Sillabo e dopo. A completare, almeno per ora, il ritratto di Rossi contribuisce questo volume che, con il titolo "Nove anni sono molti", raccoglie una parte cospicua, circa il 40 per cento, delle sue lettere dal carcere (Bollati Boringhieri, pagg. 890, più 140 di apparato critico, a cura di Mimmo Franzinelli e con una nota di Vittorio Foa). Una sorpresa? In parte sì, Certamente, una conferma assai ben documentata della vitalità d'un personaggio storico e attuale insieme. A commento delle lettere di Rossi alla madre Elide e alla moglie Ada, Franzinelli ha scritto una prefazione che è un vero saggio critico-biografico. Ne emergono i pensieri e gli affetti dell'economista e patriota antifascista dal 1930 al 1939, nel periodo cioè che egli trascorse nei luoghi di pena, fra Roma, Pallanza, Piacenza e di nuovo Roma, prima di scontare altri tre anni e mezzo di confino nell'isola di Ventotene. I pensieri e gli affetti, dicevamo. Il perché di questa compresenza, nelle lettere, è presto spiegato. A differenza di Antonio Gramsci, Ernesto Rossi non dispose, per quasi tutta la sua detenzione, di altro tramite espressivo che non fosse lo scrivere lettere (un foglio per settimana, inviato, in due messaggi distinti, a Elide e Ada). Soltanto nell'ottobre del '38 gli fu concesso, com'egli invocava, "di tenere in cella un quaderno, il calamaio e la penna (o il lapis)" necessari alla stesura di testi d'altro genere. Le lettere sono dunque uno specchio pressoché completo delle "sue prigioni". Non per nulla la citata biografia di Fiori era intessuta di questa corrispondenza, in parte rimasta inedita, in parte apparsa nel volume Elogio della galera e altrove. Mai, comunque, in maniera così rappresentativa come figura in questo "Nove anni sono molti". Il compito epistolare assorbiva Rossi in maniera febbrile. Nei giorni concessi alla scrittura, scompariva dalla cerchia degli amici detenuti. "Non gli basta tutta la mattinata per scrivere", commentavano infatti Vittorio Foa e Riccardo Bauer, e quasi non riuscivano a rassegnarsi di dover "passare il pomeriggio in due soltanto". Durante gli altri sei giorni in cui non disponeva di carta e penna il prigioniero, per così dire, s'arrangiava. E lo faceva "con rabbiosa determinazione", annota Franzinelli. Scriveva sui vetri dopo avervi sparso uno strato di sapone. Né, mancandogli l'ingrediente, s'arrendeva. "Io scrivo ugualmente, anche senza il sapone", diceva ai compagni. "Scrivo a terra con l'acqua e il dito... L'acqua ce la lasceranno, speriamo". Assai prima di definirlo un grafomane, occorre immaginare quale vivaio di idee, proposte, riflessioni fosse diventata, in quella pausa forzata e avara di distrazioni, la mente di questo "eterno prigioniero" (così lo evoca Foa nel ricordo). Sarà lui stesso a chiedere alla madre, poche settimane prima del trasferimento al confino, di selezionare, all'interno delle lettere, i brani concernenti economia, temi costituzionali, rilievi sulle ideologie politiche. "Dovresti segnare anche", precisava, "le lettere dove ho preso degli appunti su Smith, su Montesquieu, su Bryce, su Faguet, ecc.". Lettere, dunque, come ricettacolo di spunti per un lavoro avvenire. Evidentemente, non c'è soltanto questo nello sterminato epistolario. Gli affetti familiari vi sono rappresentati con inesausta tenerezza. A Elide - "mammina", "mammina adorata", "povera mammarella" - e Ada (detta anche "Pigolina" o "Pig") il carcerato si rivolge con un calore umano moltiplicato dalla lontananza. Si mostra avido di notizie sui nipotini Carlo Pucci (oggi appassionato erede delle carte di Rossi, oltre che di quelle di Salvemini) e Fiore, che chiama spesso "la pupa". I temi "civili" non stridono nel contesto. Tutt'altro. Rispetto all'attività pubblicistica che Rossi eserciterà nel dopoguerra, soprattutto sul Mondo, e nei suoi libri che appariranno da Laterza, tutti vivacemente proiettati sull'attualità politico-economica, sorprende in queste lettere l'insistenza pressoché sistematica dello scrittore nel definire la propria ideologia. Quasi avesse, nell'inoperosità del carcere, agio e tempo per farlo. Ci si trova di fronte un liberale critico. Liberale, si può dire, ancor prima che democratico, in quanto avverso all'"adorazione" e alla "tirannia della maggioranza", un'entità per lui accettabile se e in quanto rispettosa delle minoranze. Rossi non subiva alcun "complesso" nei riguardi sia del marxismo teorico che della sinistra storica di casa nostra (era "a un tempo antifascista e anticomunista", annota Franzinelli). Un connaturato empirismo lo metteva d'accordo con "gli scrittori inglesi di economia, di storia e di politica, più che con gli scrittori di qualsiasi altro paese". Si sentiva, d'altronde, "più europeo che italiano". Legato all'economia classica, amava Luigi Einaudi. In Gaetano Salvemini vedeva un "padre spirituale". In Giustino Fortunato un maestro, oltre che di meridionalismo, di probità intellettuale. Ferito gravemente nella Grande Guerra, con nell'anima il ricordo del fratello Mario che vi trovò la morte, era animato da un forte patriottismo. Lo affascinava un libro, Momenti di vita di guerra di Adolfo Omodeo, che definiva "il monumento più degno che potesse erigersi alla memoria dei nostri caduti". Proprio per questo non sopportava il "nazionalismo prepotente ed esclusivista" dei fascisti, che contrapponeva al messaggio "umanitario" del Risorgimento. Ammirava, a differenza di Croce, Mazzini e Cattaneo. Altro motivo di disaccordo con il direttore della Critica: lungi dal convincersi che il fascismo fosse un incidente storico - l' "invasione degli Icsos" - Rossi vi scorgeva, sulla scorta di Gobetti, un'ideologia radicata nel costume italiano. L'avversione per Croce animava le sue discussioni con i più cari amici di prigionia, da Bauer a Massimo Mila. All'epoca non era agevole, per un testardo liberale, professarsi anticrociano. Ma Rossi non s'arrendeva. Se si accostano l'uno all'altro due fra i più celebri reclusi antifascisti, potrà nascerne un apparente paradosso: era assai più vicino a Croce il marxista Gramsci di quanto non lo fosse il liberale Rossi. L'"eterno prigioniero" aveva assorbito un'invidiabile (si fa per dire) cultura della reclusione. Conosceva il regolamento in ogni particolare. Aveva modo ogni giorno di misurarsi con la censura. Ne penetrava i metodi. Ne valutava gli arbitrii. Ne prevedeva le stranezze. Sapeva sfruttarne le sviste. E' proprio la diuturna colluttazione fra il detenuto e i "collaudatori" delle sue missive una delle note più vivaci di questo volume e dell'apparato critico che l'accompagna. Data l'impossibilità di usare inchiostri simpatici, sia perché in carcere non entravano limoni (il cui succo è indispensabile a tali intrugli), Rossi usava altri espedienti per comunicare notizie "censurabili". Il curatore Franzinelli ha trovato nelle carte di Elide Rossi la "chiave" di scrittura adottata nei messaggi in arrivo o in partenza dal carcere. Le lettere cosiddette "maliziate", che contenevano (con allusioni e traslati) propositi compromettenti, erano distinte da segni convenzionali: per esempio, la data in cifre romane. E i brani nei quali si condensava la "malizia" iniziavano con una parola sottolineata, o mancante d'una sillaba, o recante delle i senza il puntino. Nel testo, il re diventava "l'inquilino". Il principe Umberto, "il figlio dell'inquilino". Per dire "evadere", si scriveva "andare in montagna". Parigi veniva chiamata "il paesello di montagna". Il Corriere dei piccoli equivaleva a Giustizia e libertà. Il codice venne scoperto dalla polizia grazie ai microfoni installati, sia nei "cameroni" che nelle celle, per spiare i discorsi dei reclusi. Ma aveva funzionato. I metodi dei censori, gli inchiostri e le vernici usati, le tecniche praticate per rendere illeggibile una riga o un brano (mediante "cancellatura" o "copertura", onde, spirali o zig-zag) vengono illustrati, nel libro, da un autorevole esperto della Polizia scientifica, Paolo Sammuri. Gli si deve il recupero di molte parti di lettere a suo tempo censurate, ottenuto mediate l'impiego di super-microscopi e altre diavolerie. Strumenti e procedimenti che, agli occhi d'un profano, hanno del miracoloso. Non ci si sogna, qui, di commiserare i "revisori" annidati negli uffici del carcere (o in luoghi più alti: i verbali di qualche intercettazione acustica recano in calce un "visto" del capo del governo). Resta il fatto che non doveva essere facile censurare Ernesto Rossi, la cui scrittura (come la conversazione) era una girandola di ironie, metafore, allusioni, trabocchetti, ingegnose perfidie. Lette oggi, certe sue lettere, certe sue parole che pure riuscirono a passare il "collaudo" della polizia, trasudano ilare irriverenza. Come quando il recluso ipotizza qualche evento capace di far "calare il sipario" sulla situazione italiana (leggi, sul fascismo); o quando evoca il "Ride bene chi ride l'ultimo" nelle vicende umane. O allorché, scorgendo la scritta "tenere al fresco" che campeggia sulla scatola d'un prodotto concesso ai reclusi, osserva: "Sembra una presa per il bavero". Chi doveva censurare un personaggio così, si sarà trovato di fronte a un dilemma: o socchiudere un occhio sulle sue lettere, o vietargli del tutto di scriverle. Cioè impedire a quel cervello di funzionare. Con Ernesto Rossi, non ci si riuscì.
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