martedì 8 gennaio 2008

Carlo Emilio Gadda

di Antonella Lattanzi


La cognizione del dolore

Quando la madre del Gran Lombardo muore, nel 1936, il Gran Lombardo precipita in una vita di panico, assoluto rimorso. La donna con la quale aveva sempre intrattenuto un difficile, angosciosissimo rapporto innamorato e travagliato, l’unica donna della sua vita, nel bene e nel male, la madre, lascia per sempre la terra che il Gran Lombardo vede ostile, disordinata, roboante. Ancor più senza di lei. Una Terra che non è mai stata madre e che, matrigna come la voleva Leopardi, o misteriosamente cattiva come la voleva Tozzi, non restituisce al duro lavoro dell’uomo frutti lucidi e succosi, ma solo morte, siccità e grandine.
Negli anni Trenta, il Gran Lombardo è stato in Sud America e, poiché sa che la censura fascista non gli permetterà di scrivere alcunché di eterodosso a proposito del suo tempo e dei suoi luoghi, ambienta il proprio romanzo incompiuto in una paesino del Sud America che non esiste, il Sarruchon, e lo descrive con tratti molto simili alla sua Brianza.
Il Gran Lombardo, che aveva dovuto lasciare gli studi di Letteratura a causa del decadimento della sua famiglia borghese, e che, con la morte prematura di suo padre, aveva dovuto barcamenarsi nella vita, sostentato da quel poco che sua madre, fragile e povera, riusciva a fare per lui e suo fratello; il Gran Lombardo che, imprigionato nella prima Guerra Mondiale, aveva sofferto in prima persona per la disfatta di Caporetto, e aveva appreso, nel ’19, al suo ritorno a casa, della morte del fratello in mezzo ai fuochi della battaglia; il Gran Lombardo che, inebriato di Manzoni, aveva scritto nel 1924 un primo abbozzo dell’Apologia Manzoniana, il cui progetto faceva parte di quel grosso libro pubblicato postumo che si chiama Racconto Italiano di ignoto del Novecento proprio in onore di quel suo ingombrante maestro; il Gran Lombardo, Carlo Emilio Gadda, passato alla storia come lo scrittore della crisi, lo scrittore del plurilinguismo e della plurivocità, lo scrittore dello gnommero, di quel groviglio che è il mondo e che ci portiamo dentro per sempre, senza alcuna soluzione al dolore, nel 1936, all’indomani della morte di sua madre, dell’unico essere umano che aveva mai amato, si mette a scrivere il romanzo del dolore.
Pubblicato a puntate, incompleto, dal ’38 al ’41 su “Solaria”, La Cognizione del dolore vedrà luce definitiva nel 1963, ma sarà un’opera aperta, senza alcun finale né cognizione di causa.
La cognizione è frutto del dolore. Di un sentimento di colpa inenarrabile. Risponde a quel monito che fu per primo di Virgilio, per il quale chi non ha goduto dell’amore dei genitori non potrà godere del cibo né dell’amore di una donna. La cognizione non è una presa di coscienza, è solo la ricerca infinita in quel gomitolo infinito, in quel caleidoscopico mare che è la vita sulla terra, dove non c’è ordine, né soluzione, né fine certa.
All’inizio del suo romanzo, Gadda si rifà all’incipit di Manzoni, paragonando implicitamente il Sud America alla Brianza, e descrivendo con disagio l’aridità di questa terra raffrontandola ai poetici monti e fiumi che ospitarono le memorie di Renzo e Lucia. In questo ambiente, Gonzalo, ingegnere del Maradagal, tornato a casa, nella villa di sua madre, rievoca la sua infanzia di privazioni e di stenti. La sua infanzia di dolore, in cui gli mancò un sentimento materno, e amorevole, e in cui prese forma tangibile e viva il suo eterno senso di colpa. Dai suoi compaesani, Gonzalo è visto come un avido mangione e un violento, ma in realtà soffre di fame e di mancanza di amore. Il cibo in Gadda è molto importante, qui e altrove visto come metafora delle relazioni parentali: significherebbe sicurezza, se ci fosse, pienezza affettiva, cura dei mali. Ma la madre rigida e austera non ama il figlio dolorante.
E così Gonzalo/Gadda diviene misogino e misantropo, ha fastidio degli altri, ha disgusto delle donne, la folla gli fa paura, e ancor più, ne odia gli odori e gli umori.
Gli altri sono tutti maleodoranti e violenti: devono rimanere fuori dalla sua casa.
Gadda ci descrive Gonzalo (se stesso), senza alcun fuoco primario nella narrazione caotica e compulsiva, esasperantemente abnorme, graffiante, come un uomo brutto, deformato espressionisticamente, alla Pirandello, con un linguaggio che è un pluralismo di registri, di sensazioni, di stati animo, e che passa dal letterario, al neologismo, al latinismo, al dialetto, al tecnicismo, alla maccheronea.
Gonzalo viene descritto, per esempio, dal punto di vista del suo medico, come un uomo ipocondriaco, votato a credersi malato. E dal popolo come un crudele, che maltratta la sua mamma.
Mamma con la quale vive, impietosamente, in una casa decaduta, una vita decaduta e un amore fallimentare ed edipico, in cui tutto l’odio si tramuta in distruzione della figura di suo padre, di cui distrugge il ritratto (la memoria) e l’orologio (la proprietà).
Intercalando il racconto con storie del suo tempo (si parla di un poeta vate artifex maximus – cioè D'Annunzio –, o dello smemorato di Collegno, ma anche di ingiustizie e piccole vicende parallele, in un intertesto che sa di digressioni manzoniane), parodie dell’epoca fascista, dei suoi orpelli e dell’uomo finto che era Mussolini (come aveva fatto già in Eros e Priapo), Gadda racconta la storia di un paese pieno di balzelli, in cui vige la mafia di alcuni vigilantes, che non proteggono niente e che vessano la popolazione. Una sorta di mafia per cui, se non paghi, puoi morire.
E Gonzalo non paga. E qualcuno pagherà quest’onta.
Un giorno, così, sua madre giace dolorante sul pavimento di casa. È stata colpita a morte. È stata uccisa. Da chi è stata uccisa?
Primitivo amante dell’ordine e della chiarezza, Carlo Emilio Gadda, “la punta della crisi”, esprime nella sua opera tutta la perdita di valori e di certezze che non è certo tipica di un mondo che non ci appartiene più. Ma che è di oggi.
Solo al dolore non c’è alcuna soluzione.
Acclamato negli anni Sessanta dalla neoavanguardia di Balestrini e Sanguineti, Gadda viene assurto nel limbo dei padri letterari, e salutato come un vero genio dal Gruppo 63, che nasce proprio in quegli anni, sulle pagine del “verri”.
Uomo solo, che si imprigionerà sempre più in un silenzio nevrotico e ossessivo, Gadda ha raccontato con tutte le sue voci un mondo cattivo e orrorifico che non fa altro che deluderci, in cui un figlio uccide la propria madre per amore, o non la uccide per amore, ma viene condannato dalla società corrotta e malpensante. Qualunque cosa egli faccia.
Un figlio che nel ’36, alla morte della madre, non sa perdonarsi di non esser stato amato.
«… Un sogno, … strisciatomi verso il cuore… come insidia di serpe. Nero.
Era notte, forse tarda sera: ma una sera spaventosa, eterna, in cui non era più possibile ricostruire il tempo degli atti possibili, né cancellare la disperazione… né il rimorso; né chiedere perdono di nulla… di nulla! Gli anni erano finiti! In cui si poteva amare nostra madre… carezzarla… oh! aiutarla… Ogni finalità. Ogni possibilità, si era impietrata nel buio… Tutte le anime erano lontane come frantumi di mondi; perse all’amore… nella notte… perdute… appesantite dal silenzio, consce del nostro antico dileggio… esuli senza carità da noi nella disperata notte…
E io ero come ora, qui. Sul terrazzo. Qui, vede?… nella nostra casa deserta, vuotata dalle anime… e nella casa rimaneva qualche cosa di mio, di mio, di serbato… ma era vergogna indicibile delle anime… degli atti, delle ricevute… non ricordavo di che… Le more della legge avevano avuto chiusura… Il tempo era stato consumato! Tutto, nel buio, era impietrata memoria… nozione definita, incancellabile…. Delle ricevute … che tutto, tutto era mio! mio! … finalmente…. come il rimorso.»

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