venerdì 4 gennaio 2008

Ricordo di Piero Gobetti

Il 19 giugno 1901, nasceva a Torino Piero Gobetti. Il culmine della breve vita di Piero Gobetti si è consumato durante il periodo fascista: gli esordi, con gli articoli pubblicati su “Energie Nove”, la prima rivista da lui ideata e progettata, risalgono al novembre del 1918, mentre l’esperienza del già maturo Gobetti di “Rivoluzione liberale” si apre nel febbraio del 1922. La morte sopravviene a Parigi, conseguenza delle percosse degli squadristi, il 15 febbraio 1926, a soli 25 anni. Le sue spoglie riposano al cimitero del Pere Lachaise. Gobetti elabora un pensiero e un progetto che si configurano, da subito, e con intensità sempre crescente, come “antitesi totale” al fascismo. Si tratta di una riflessione che assume come punto di vista emblematico quello storico. E la storia, per Gobetti, non può che essere la storia del nostro Risorgimento, del suo svolgimento e delle sue conseguenze, che ancora pesano sulla vita nazionale: il fascismo, dunque, diventa un punto di arrivo per un’interpretazione storica decisamente originale. Al fascismo Gobetti si oppone d’istinto, vivacemente. Quando Giuseppe Prezzolini propone, di fronte al fascismo come di fronte al bolscevismo, la “Società degli Apoti”, di “coloro che non le bevono”, che si tengono fuori della mischia, Gobetti reagisce con energia, puntualmente. Prima ribadisce il senso della cultura come azione, come “elemento della vita politica”, poi affronta la più delicata questione di merito: la natura del fascismo e la necessità di una “opposizione intransigente”. All’analisi della natura del fascismo Gobetti dedica significativi scritti. Giovanni Spadolini – che indicò in lui “l’inalterabile punto di riferimento” nella vita - ricorda come “nessun italiano in questo secolo ha avuto una così alta idea dell’Italia e nessuno ha insieme scrutato quanto fossero profonde le crepe, gli squilibri, le eredità negative della vita e del costume italiano. Fino a giudicare, con spietatezza rivelatrice, lo stesso fascismo come ‘l’autobiografia della nazione’”. Il regime fascista, per Gobetti, affonda le radici nei limiti e nelle debolezze, negli errori politici e nei lassismi morali, propri delle vecchie classi dirigenti. I “tratti autobiografici” sono proprio i peggiori elementi del regime: tutto ciò che appare falso, settario, arretrato, deteriore. Il fascismo diventa “il segno decisivo di una crisi secolare dello spirito italiano”; e, addirittura, “il simbolo di tutte le malattie”. La storia nazionale durante il fascismo è letta da Gobetti come “antistoria”. Il Risorgimento era fallito perché non aveva saputo legare e tenere insieme popolo e governo: perché dal Risorgimento era nato uno Stato “a cui il popolo non crede, perché non l’ha creato col proprio sangue”. E il fascismo mostrava con chiarezza “la misura dell’impotenza del popolo a crearsi il suo Stato”. L’analisi di Gobetti del Ventennio proseguiva con l’evidenziazione della mancanza di elites dinamiche; e, soprattutto, con “la rinuncia degli individui alle loro responsabilità”. Quello delle responsabilità sarà un tema cruciale nell’elaborazione del pensatore torinese. Ne “la Rivoluzione liberale” emerge in tutta evidenza: l’ “apatia delle coscienze” è considerato il male italiano originale, insieme con una certa inclinazione per il conformismo, l’unanimismo, la rassegnazione. Il fascismo sanciva “l’ultima rivincita dell’oligarchia patriottica, cortigiana e piccolo-borghese, che governa l'Italia da molti secoli, soffocando ogni iniziativa popolare". Il fascismo, dunque, incarnava i mali tradizionali della cultura e della politica nazionale. Rifiutò con forza, Piero Gobetti, le interpretazioni crociane del fascismo: non condivideva la “teoria della parentesi”, né l’accento posto sul carattere di “malattia morale” - per di più “accidentale” - rivestito dal regime. Il fascismo non aveva interrotto un limpido cammino verso l’affermazione della libertà, non era giunto in maniera imprevista e imprevedibile. Tutt’altro. Neppure, come sostenuto dalle interpretazioni di matrice marxista, si poteva parlare di “teoria della reazione di classe”. L’interpretazione gobettiana del fascismo si è distinta nella sua originalità ed è stata definita dagli storici “teoria della rivelazione”, proprio per evidenziare l’accento posto su antiche macchie e vizi delle classi di governo italiane, e sulla capacità del fascismo di evidenziarne la portata. Inoltre, Gobetti denuncia nel fascismo la mancanza di prospettive; nella dottrina fascista non c’è alcun senso dell’avvenire, del futuro, del progresso: è solo un prodotto di un idealismo retorico e mistificatore dell’avvenire, del futuro, del progresso. Di fronte a tutto ciò, la reazione di Gobetti è immediata ed energica: la soluzione unica è il lavoro quotidiano in vista del futuro, con l’obiettivo di “trasformare le preoccupazioni culturali in preoccupazioni di civiltà”. E il futuro non può basarsi su valori e forze esistenti. Di fronte a un regime che voglia soffocare la libertà, l’obiettivo diventa la creazione delle “condizioni obiettive che incontrandosi con l’ascesa delle classi proletarie, indicateci dalla storia, genereranno la civiltà nuova, il nuovo Stato”. Perciò, la battaglia antifascista diventa il motore ideale, e lo stimolo pratico della vita personale e professionale di Gobetti. Inizia ad elaborare la sua opzione ideale verso un movimento libertario che sappia superare le istanze rivendicative, per indirizzare responsabilità economiche e inquietudini verso i bisogni e le istanze della parte della società più vivace e vitale. Contro la Società degli Apoti di Prezzolini, dunque, si muove l’opera di Gobetti. E questo perché sono stati proprio gli apoti a permettere la diffusione e il successo del fascismo. Gli apoti “non le avranno bevute”, certo, ma hanno aiutato il regime nella sua opera di penetrazione. Eppure gli apoti hanno responsabilità limitate rispetto a quelle delle grandi forze in campo. Il fascismo, infatti, si è potuto giovare delle debolezze e delle resistenze, dei limiti e delle titubanze, dei liberali e dei popolari, dei socialisti e dei comunisti. Le forze della difesa dei valori democratici non hanno saputo offrire risposte adeguate di fronte all’offensiva fascista. La vecchia classe dirigente liberale non si mostrò in grado di dominare e di comprendere i fenomeni della mobilitazione di massa innescati dal conflitto mondiale. I socialisti, divisi al loro interno, rifiutarono ogni collaborazione con le forze “borghesi”, in primo luogo con i liberali ed i popolari. Gobetti, nell’analizzare la crisi politica, istituzionale e dei partiti, individuò quelle deficienze e responsabilità, recenti e antiche, all’origine del successo di Mussolini. Da qui, Gobetti cercò un dialogo non con i partiti nel loro complesso, ma con quegli uomini di partito che si schieravano contro il fascismo e che cercavano di condurre su quella strada i loro movimenti. Questo spiega l’atteggiamento preferenziale avuto da Gobetti nei confronti di Luigi Sturzo: il sacerdote di Caltagirone, infatti, rappresentava la vera anima popolare, colui che era rimasto fedele e coerente con le scelte antifasciste. Poi, come si sa, i vecchi equilibri si frantumarono e il fascismo poté imporne uno nuovo. Su questi aspetti riflette Gobetti, così come emerge dalla sua interpretazione del fascismo, e dalla sua critica della “rivoluzione nazionale” italiana, a suo giudizio per nulla “rivoluzionaria”. Una riflessione culturale e politica, quella di Gobetti, che non poteva non essere influenzata dalla Torino di quegli anni. Se, come ha notato Spadolini, l’età giolittiana viene designata nella storia della cultura come l’età delle riviste fiorentine, non appare fuori luogo denominare gli anni del primo dopoguerra, sino all’avvento del fascismo, l’età delle riviste torinesi. Oltre a “Ordine nuovo”, un posto di primo piano occupano le riviste gobettiane, in primo luogo “la Rivoluzione liberale”. Quella Torino diventa uno straordinario laboratorio culturale: la storia della nostra cultura negli anni del primo dopoguerra viene narrata quasi esclusivamente attraverso l’analisi dei gruppi che si muovono intorno alle riviste di Gramsci e di Gobetti. Così scrisse Luigi Einaudi sul “Corriere della Sera” del 14 ottobre 1922: “L’intellettualismo militante sembra essersi rifugiato a Torino nell’Ordine nuovo, senza dubbio il più dotto quotidiano dei partiti rossi, ed in qualche semiclandestino organo giovanile come il settimanale Rivoluzione liberale, sulle cui colonne i pochi giovani innamorati del liberalismo fanno le loro prime armi e, per disperazione dell’ambiente sordo in cui vivono, sono ridotti a fare all’amore con i comunisti dell’Ordine nuovo”. E’ la Torino luogo simbolo della storia del socialismo in Italia: è anche la città dove vive ed opera, in quegli anni, Carlo Rosselli. Il gruppo che si raccoglie intorno a Piero Gobetti è ben diverso da quelli comunisti. E’ un gruppo eterogeneo, che comprende tutte le varie gradazioni del liberalismo: vi sono liberali conservatori come Burzio e liberali salveminiani come Monti, giovani accademici come Sapegno, Fubini e Passerin d’Entrèves, letterati come Debenedetti, uomini politici come Nitti e Sturzo, giornalisti come Ansaldo, liberi scrittori come Guglielmo Alberti e Umberto Morra. Gli storici Francesco Traniello e Pietro Scoppola hanno notato come Gobetti, nella sua “Rivoluzione liberale”, proponga un primo tentativo “di tracciare un abbozzo della storia nazionale assumendo come referente centrale la figura dei partiti”: il partito diventa una visione del mondo, si fa portatore di proposte ideali, suscita energie intellettuali e morali, è una sorta di élite collettiva. Ma quel gruppo che si riconosceva nella rivista “Rivoluzione liberale” non diventa mai un partito, un movimento politico, piuttosto una tendenza, un modo di pensare, un insieme di idee che ha lasciato tracce un po’ ovunque. Si è parlato di “gobettismo culturale”, intendendo, cioè, la costruzione di una opposizione intellettuale di ampio respiro, in grado di ragionare sui tempi lunghi, di non fermarsi all’oggi, di ricostruire, innanzi tutto pedagogicamente, un terreno per l’azione di domani: un tessuto culturale prima e più che un orientamento politico. Gobetti si pone come centro motore, accende speranze e offre certezze a un’intera generazione. Così scriveva, infatti, Carlo Levi all’amico Natalino Sapegno dopo la scomparsa di Piero Gobetti: “Egli era veramente l’unità viva della nostra generazione”. Si riferiva alle classi medie da troppo chiuse nel proprio provincialismo culturale e nella propria mediocrità. Dialoga con il proletariato che non si lascia attrarre dalla demagogia populistica, critica il liberalismo trionfalistico di una certa tradizione idealistica, per apprezzare il liberalismo non conservatore di Luigi Einaudi. Suscitano più di un dubbio, dunque, recenti tentativi di screditare Gobetti in nome di una sensibilità acritica filocomunista, così come gli elogi della destra italiana interessata ad un presunto Gobetti meno liberale ma più incline al populismo. No, è difficile collocare Gobetti in una casella, in uno schieramento definito. Oggi ancor più di ieri. Norberto Bobbio ha più volte ricordato come non affievolisca l’interesse “per il giovane ideatore e propugnatore di un’immaginaria rivoluzione italiana, che non è stata in nessun luogo e non sarà in nessun tempo”. Eugenio Montale ci suggeriva il perché di un interesse costante: “…pur senza additarci un sistema e tanto meno un partito, Gobetti ci pone di fronte uno specchio dal quale ci discostiamo con fastidio o con orrore, a seconda della dilagante marea della mediocrità politica e intellettuale che ci riempie di tedio o di disgusto, di noia o di ribrezzo”. E ancora a Montale è ricorso anche Giovanni Spadolini: “quale sarebbe stata la posizione di Gobetti se fosse ancora sopravvissuto?”, si chiedeva l’allora presidente del Senato, affidando alle parole di Montale la risposta: “Gobetti era un fiore che non si era aperto del tutto. Una sola cosa mi pare certa: non avrebbe mai aderito ad ideologie dogmatiche, rifiutava qualunque approdo definitivo della storia”.

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