giovedì 31 gennaio 2008

Il mondo salvato dai ragazzini.

Che significa F.P.? Si tratta di un’abbreviazione per Felici Pochi.? E chi sono i Felici Pochi? Spiegarlo non è facile, perché i Felici Pochi sono indescrivibili. Benché pochi, ne esistono d’ogni razza sesso e nazione e poca età società condizione e religione. Di poveri e di ricchi (però, se nascono poveri, loro, in generale, tali rimangono, e se nascono ricchi, presto si fanno poveri) di giovani e di vecchi (però difficilmente loro arrivano in tempo a farsi vecchi) di belli e di brutti (a vero dire, loro pure quando siano volgarmente intesi brutti, in REALTÀ sono belli; ma la REALTÀ è di rado visibile alla gente…Insomma. Obiettivamente, per giustizia, qua si certifica, in fede, che gli F.P. sono tutti e sempre bel-lis-si-mi, anche se per suo conto la gente non lo vede). Infine, tra le tante loro varietà, basti, nella presente esposizione divulgativa, aggiungere che ve ne sono di celebri e flagranti, e di sconosciuti e nascosti (però, quando celebri, la Celebrità non dimostra abitualmente una gran fretta di abbracciarli da vivi e gode meglio a raggiungerli in una pòstuma stretta allorquando sono già deceduti).? E dove stanno, di regola, costoro? Non c’è regola. Invero, il loro proprio elemento naturale non è mai stato scoperto, finora, in biologia. Se ne trovano sulle himalaie e sul mare, in città e nel deserto, al centro e in periferia, dentro i vicoletti sulle autostrade può darsi pure nelle lune o negli astrusi pianeti e perfino nei Ministeri – ricordarsi di Henri Beyle – mai però negli alti gradi della burocrazia o alle diverse incombenze d’autorità ufficiale per cui sempre hanno sofferto d’una grave allergia. Se ne possono incontrare all’Università all’osteria in fabbrica in galera nei bordelli nei conventi al teatro al ballo al caffè fra sapienti e analfabeti nei Ghetti nella Kasbah nella sotterranea su un jet all’ospizio dei vecchi all’ospedale dei matti. Ne spuntano magari nei climi meno adatti e si nascondono dove meno te l’aspetti. Difatti gli F.P. sono accidenti fatali dei Moti Perpetui semi originari del Cosmo, che volano fra poli fantastici, portati dal capriccio dei venti, e germogliano in ogni terreno. Ma assai più spesso tornano in certi orienti (barbari) e oscure zone (depresse) dove non s’ha il vizio d’assassinare i profeti né di sterminare i poeti.
ELSA MORANTE

Una piccola croce.

Un «cristiano senza Chiesa», così si definiva l’autore, tra l’altro, de Il segreto di Luca. Il rapporto tra il dolore e l’ingiustizia umana e il sacrificio di Gesù di Nazareth.

DI LAURA CIONI

Si è molto discusso sul caso Silone, il romanziere neorealista, autore di opere di successo, circa una presunta sua attività di spionaggio contro quel Pci, del quale era stato negli anni giovanili e in quelli dell’esilio svizzero un esponente di spicco. Egli, del resto, amava definirsi «socialista fuori dai partiti», dal momento in cui, a causa della sua denuncia della dittatura staliniana, il Partito lo ebbe espulso.Ma Silone si definiva anche «cristiano senza Chiesa», riconoscendo così un suo legame con Cristo, che si rivela nella scelta dell’amore e della fratellanza per i poveri e i meno fortunati, che si incarna in tanti personaggi dei suoi romanzi, ma al di fuori di qualunque appartenenza.Ho riletto recentemente Il segreto di Luca, pubblicato nel 1956 e vi ho trovato alcune pagine in cui questo legame con Cristo viene esplicitato in modo sobrio e profondo.La storia narra di un ex-ergastolano, che torna a casa riconosciuto innocente e graziato, dopo quarant’anni di prigione. Un amico di sua madre, eroe della guerra partigiana, si appassiona alla sua vicenda e vuole scoprirne, contro l’omertà dell’intero paese, il segreto. Da bambino egli era infatti stato lo scrivano delle lettere che la madre inviava al figlio in carcere. Rievocando quel singolare incarico, che lo toglieva poco alla volta al mondo gioioso della fanciullezza, facendogli scoprire presto il dolore della vita, Andrea Cipriani racconta a Luca alcuni momenti vissuti con la povera donna analfabeta che in dialetto gli diceva ciò che poi egli avrebbe messo per iscritto.Ecco la pagina: «L’infelice donna credeva infatti nel destino, ma non escludeva la grazia, quella di Dio e quella dei potenti. Ciò a cui ella non credeva, al punto da non valere neppure la pena di sprecarvi del fiato, era la giustizia. Naturalmente, anche per le lettere alle autorità, l’indispensabile intermediario ero io. Sotto il foglio da me faticosamente redatto, tua madre firmava con un segno di croce. Sapevo già che era la firma usuale degli analfabeti; ma, anche se ciò non fosse stato, come si sarebbe potuto immaginare una firma più consona a tua madre? Una piccola croce. Una firma più personale di quella? Ricordo che, l’anno dopo, all’esame di catechismo don Serafino mi chiese, tra l’altro, di spiegargli il segno della croce. “Esso ci ricorda la passione di nostro Signore” io risposi “ed è anche il modo di firmare degli infelici”. Il parroco osservò che la risposta non era sbagliata, ma che non era in mio potere di riformare le risposte del manuale di Dottrina cristiana».E poco sotto: «Un paio di volte, mentre io leggevo le tue prime lettere, ella era caduta in deliquio, con mia grande paura e smarrimento. Da allora in poi, per rianimarsi ogni volta che si sentiva mancare, usava avvicinare alle narici una boccettina d’aceto. A causa di ciò, l’odore dell’aceto divenne per me l’odore dell’innocenza perseguitata. Era lo stesso aceto, pensavo, di cui era imbevuta la spugna che i legionari di Pilato avvicinarono alle labbra del Crocifisso, quando si lamentò d’aver sete» (cap. V).Sono superflui i commenti. Ma, se ne è consentito uno, brevissimo, sia questo: è indubbia la prospettiva “umanistica” di Silone, in cui il dolore umano, l’ingiustizia subita, vengono messi in relazione con il sacrificio di Gesù, quasi che esso ne sia il punto culminante e riassuntivo. È un tema non di questo solo autore e non della sola letteratura. È presente anche nel linguaggio comune, quando per indicare una disgrazia, una prova, una sofferenza, usiamo il termine “croce”.Tuttavia mi sembra traspaia dalle righe del racconto la fede e la devozione per una sofferenza che non è solo umana, ma che porta in sé il sigillo di ciò che, per dirla con Silone stesso, «c’è dietro ogni cosa». In vari punti del romanzo, inoltre, i personaggi affermano che solo Cristo fu innocente, non Luca, non la donna amata da lui, non quella che lo amò, tanto meno i molti che si trincerarono dietro il silenzio a proposito di quella storia disgraziata. Questa ammissione è la confessione della divinità di Gesù di Nazareth? È possibile non escluderlo.

mercoledì 30 gennaio 2008

Pasolini e la falsa rivoluzione del '68.

Riprendo alcune frasi di Ettore Paris nell’articolo Ma quale guerra civile?!, apparso su QT del 26 febbraio: "Stavamo cambiando la società"; "tutto questo era anche il riflesso del passaggio da una società prevalentemente contadina ad una pienamente industriale: ma sta di fatto che noi ne eravamo gli interpreti"; "era il rivolgimento epocale". Questo grande mutamento è considerato trionfalisticamente il prodotto della contestazione del ’68. Ma per Pasolini essa non è un "prendere coscienza" della storia, anzi gli studenti sono vittime e colpevoli di un colossale equivoco.
Roma, 1° marzo 1968: la polizia a Valle Giulia.
Questi giovani rivoluzionari che hanno pronunciato una condanna radicale contro i loro padri, alzando contro essi una barriera insormontabile, si sono perciò isolati, chiudendosi in un ghetto che impedisce loro un confronto dialettico. Si sono chiusi nel ghetto della gioventù, il loro rifiuto puro è per Pasolini arido e malvagio. Sono dei borghesi come i loro padri, non solo perché figli di borghesi, ma perché tali nella loro visione del mondo. Anche per gli studenti, allora minoritari, provenienti dalle classi popolari, la partecipazione alla contestazione fu il lasciapassare per approdare in seno alla borghesia trionfante: "Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte/ coi poliziotti,/ io simpatizzavo coi poliziotti!/ Perché i poliziotti sono figli di poveri./ Vengono da periferie, contadine o urbane che siano./ [...] I ragazzi poliziotti/ che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione/ risorgimentale)/ di figli di papà, avete bastonato,/ appartengono all’altra classe sociale./ A Valle Giulia, ieri, si è così avuto un frammento/ di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte/ della ragione) eravate i ricchi,/ mentre i poliziotti (che erano dalla parte/ del torto) erano i poveri".
I giovani studenti non sono, come essi si immaginano, la luce dell’avvenire comunista; essi sono certo la luce dell’avvenire, ma di quello neocapitalista. Con essi avviene una lotta intestina alla borghesia: questo è il l’equivoco che Pasolini pensa di avere smascherato, tirandosi addosso le critiche di tutta la sinistra.
In polemica con Marcuse, secondo il quale gli studenti sono gli "eroi del nostro tempo", Pasolini intende fare una distinzione tra studenti americani e della Germania Occidentale da un parte, e studenti di Italia e Francia dall’altra. La discriminante è data dalla presenza o meno di una cultura marxista. La qualifica di eroi vale solo per i paesi in cui non esiste questa cultura, mentre là dove esiste, gli studenti, secondo Pasolini, giustamente criticano un marxismo vecchio, ma da una posizione non marxista e dunque la loro è una guerra civile e non una rivoluzione. Costoro assomigliano ai loro padri borghesi per l’odio contro la cultura, la "coscienza dei loro diritti" e l’aspirazione al potere: "Smettetela di pensare ai vostri diritti,/ smettetela di chiedere il potere./ Un borghese redento deve rinunciare a tutti i suoi diritti,/ e bandire dalla sua anima, una volta per sempre,/ l’idea del potere".
Per Pasolini gli studenti sono anticomunisti, anche se verbalmente adoperano il linguaggio marxista. Nella Apologia a Il PCI ai giovani!, Pasolini spiega come i suoi versi siano stati una provocazione. Il pezzo sui poliziotti sarebbe un pezzo di ars retorica, una captatio malevolentiae, dunque appunto una provocazione.
Trasumanar e organizzar, un libro di poesie scritto tra il 1968 e il ‘71, è in gran parte dedicato alla critica della rivolta studentesca. Gli studenti formano ormai la nuova opinione pubblica, ma ogni opinione pubblica è sede di Terrore: "il grido estremistico/ li salva come una medicina che fa tacere la realtà". Pasolini aveva criticato e criticava il PCI per il suo stalinismo e il suo conformismo, e tuttavia egli si sentiva sempre legato ad esso per un patto di lealtà verso gli operai e dunque verso il loro partito, anche se ormai era diventato una istituzione. Anche gli studenti contestatori criticarono aspramente il PCI, ma con una opposizione netta e quindi non dialettica. Anche in questo Pasolini sospetta la natura borghese di questa rivolta. (…)
La novità eretica dei contestatori è in realtà una nuova ortodossia con le sue alleanze cameratesche, il disprezzo esaltato contro gli infedeli, la stereotipia, il tono predicatorio, il moralismo, il ricatto nel nome della lotta dei giusti: il tutto perfettamente codificato e prevedibile. Mirano alla purezza originaria del pensiero con le loro rivolte "dirette da una segreta ansia di ordine". E per ortodossia Pasolini intende il fanatismo, la voglia di uniformità e l’odio per i diversi, tutte cose che il poeta assimila allo spirito borghese. Gli studenti vogliono instaurare una nuova Chiesa coi suoi riti e i suoi anatemi.
La rivolta del ’68 è stata una falsa rivoluzione, che si è presentata come marxista, ma in realtà non era altro che una forma di autocritica della borghesia, che si è servita dei giovani per distruggere i suoi vecchi miti divenuti obsoleti. La rivoluzione neocapitalistica era già avvenuta nella struttura; ora bisognava che fosse perfezionata la rivoluzione a livello sovrastrutturale-culturale: questa è la più feroce critica di Pasolini al ’68. Per rivoluzione neocapitalistica si intende il passaggio all’omologazione consumistica: non più le vecchie culture (contadina, borghese, proletaria ecc.), bensì un’unica cultura, quella del consumo ed anzi di identici consumi per tutti, così da produrre il livellamento e la fine della critica.
Ogni gioventù, ha diritto alla ribellione. Ma questi giovani contestatori hanno avuto solo l’illusione della ribellione, hanno già trovato la strada spianata da coloro (la vecchia borghesia che si stava riorganizzando per approdare al neocapitalismo) che volevano contestare la tradizione. Quindi la rivolta non fu provocata da questi giovani, ma fu instillata in loro dai padri, o meglio dalla nuova cultura neocapitalistica. Erano i padri che volevano farla finita col loro passato, con la loro storia. Il capitalismo aveva bisogno di mutare radicalmente, e strumentalizzò i suoi figli per raggiungere l’obiettivo. Fu una ribellione voluta dall’alto e i ribelli ingenui vi si buttarono furiosamente pensando di esserne i veri promotori. (…).
Queste critiche alla contestazione studentesca non impedirono a Pasolini di scorgervi anche gli elementi di positiva novità. Egli volle sempre un confronto-scontro con gli studenti. Addirittura nel 1971 fu per tre mesi direttore responsabile di Lotta continua, quando questo giornale ne fu momentaneamente sprovvisto, a causa di condanne per reati d’opinione dei precedenti direttori. Nel 1972 Pasolini girò anche un film-documentario assieme a Lotta continua: "12 dicembre", un excursus sull’Italia di quel momento. (…)
Sulla questione di Piazza Fontana, Pasolini si schiera coi gruppi extraparlamentari contro la tesi governativa degli "opposti estremismi" tendente a equiparare i gruppi di estrema destra e di estrema sinistra come responsabili di quell’attentato terroristico e di tanti altri. E’ anche dell’avviso che gli studenti hanno svegliato dal sonno i sindacati ed hanno aiutato le lotte operaie, pur con le limitazioni sopra osservate. Il Movimento studentesco ha anche riattualizzato la lotta di classe, riprendendone temi che andavano scolorendo. Insomma, se soggettivamente gli studenti potevano anche essere convinti di essere dei rivoltosi, oggettivamente erano incanalati nella trasformazione neocapitalistica.
Aldo Riccadonna

martedì 29 gennaio 2008

Sessantottini, il fallimento di una elitè.

di Mark Lilla
Quando la Germania era nel vortice di quelli che oggi chiamiamo 'gli anni Sessanta', i commentatori conservatori coniarono un termine antipatico per descrivere l’antipatico radicalismo dell’epoca: verspätete Widerstand. Significa 'resistenza tardiva'. Dietro c’era la convinzione che i giovani tedeschi che rapivano gli amministratori delegati, lanciavano bombe e picchiavano i poliziotti stessero inconsapevolmente mettendo in scena il dramma di quella resistenza al nazismo che non c’era stata negli anni Trenta. Nella politica vedevano una specie di pantomima nella quale i pubblici ufficiali erano fascisti, gli uomini d’affari erano collaborazionisti, le scuole erano carceri, i soldati erano assassini e i genitori erano la polizia segreta. Non riuscivano a vedere che la Germania era diventata una sana democrazia liberale, un pilastro dell’Occidente. In realtà, non erano granché interessati al presente. Quello che li eccitava era la possibilità di rimettere in scena la storia vergognosa della Germania moderna, scritturando se stessi nel ruolo dei protagonisti di un rifacimento cinematografico nel quale avrebbero redento la patria. La resistenza tardiva contribuisce di gran lunga a spiegare le dinamiche psicologiche di quella generazione europea. Sembrava che accettare la pace e la prosperità della nuova Europa significasse dimenticare la realtà del fascismo e del genocidio del passato, seppellirlo. La rabbia per quell’enorme rimozione si manifestò negli anni Sessanta con il disprezzo della sinistra studentesca per la democrazia liberale occidentale, e con un’esaltazione romantica delle tirannie del Terzo Mondo. Molti dei giovani di quelle affascinanti fotografie di dimostrazioni di piazza a Parigi e Berlino, che gridavano «Ho, Ho, Ho Chi Minh», indossando magliette di Che Guevara e brandendo il Libretto Rosso di Mao Zedong, intendevano dire proprio quello che scandivano: che avrebbero preferito Ho, Che o Mao ai loro leader democraticamente eletti. Solo verso la fine degli anni Settanta, dopo che i boat people cambogiani e vietnamiti raccontarono storie di massacri, si ebbe una crisi di coscienza. Ora si parlava dei diritti universali dell’uomo e della necessità di difenderli, possibilmente con le rivoluzioni di velluto, ma se necessario con le forze armate internazionali. Negli anni Ottanta e nei primi anni Novanta quell’ideale ha dato esiti positivi. I governi europei occidentali scelsero timidamente di non schierarsi pubblicamente a fianco dei movimenti anticomunisti nell’Europa dell’Est, per paura di far arrabbiare l’Urss, ma i sessantottini sostennero apertamente le proteste in Polonia e in Cecoslovacchia. Quando scoppiò la guerra dei Balcani, invocarono l’intervento. Ma anche quella era resistenza tardiva. I sessantottini facevano resistenza alle loro stesse gioventù, ai capelloni ingenui che inneggiavano al Che e sbeffeggiavano i soldati, senza chiedersi per cosa stessero combattendo. Oggi le questioni più gravi che l’Europa deve fronteggiare – immigrazione e terrorismo – hanno poco o nulla a che fare con gli schiamazzi di un tempo. I Paesi europei si trovano a ospitare milioni di nuovi immigrati, in prevalenza musulmani, e non riescono a integrare loro o i loro figli nella società. Si tratta di una situazione senza precedenti nella politica europea moderna. E se mai c’è stato bisogno di un pensiero fresco, è oggi. Eppure ancora una volta la generazione del Sessantotto si è arenata nel passato, in più di un passato. Negli ultimi tre decenni la sinistra europea ha guardato al problema dell’immigrazione esclusivamente attraverso le lenti dell’antisemitismo e del colonialismo del passato. L’immigrazione andava accolta come un modo per riscattarsi dai peccati passati. Chiunque sollevasse dubbi sul fatto di integrare i nuovi arrivati veniva etichettato come razzista, o peggio. L’espressione della frustrazione per il fatto che l’Europa stesse cambiando faccia portò negli anni Ottanta a spiacevoli fenomeni di destra come Jean-Marie Le Pen in Francia o Jörg Haider in Austria. La solidarietà con gli immigrati sembrava la strada nobile da percorrere, e capitava che i sessantottini dessero asilo a quelli minacciati di rimpatrio e guidassero fiaccolate contro il razzismo. Gli olandesi andavano fieri della diversità di Amsterdam, e i progressisti tedeschi abbracciavano i loro vicini turchi. I sessantottini francesi furono tra gli ideatori del gruppo Sos Razzismo, che stampò spillette alla moda sulle quali era scritto 'Giù le mani dal mio amico!'. La legislazione moderata per controllare l’immigrazione non approdò a nulla, grazie soprattutto all’opposizione dei sessantottini. Ma dopo l’11 settembre in Europa l’aria è cambiata, e gli stessi sessantottini si sono divisi. Gli olandesi sono stati bruscamente svegliati dal brutale assassinio del regista Theo van Gogh, nel 2004, per mano di un fanatico musulmano. I tedeschi continuano a ricevere notizie degli omicidi d’onore che coinvolgono famiglie turche residenti in Germania. Nel 2005 le periferie francesi sono state sconvolte dagli scontri guidati dai figli degli immigrati. E i britannici si stanno ancora domandando il senso delle bombe di Londra, messe da terroristi che vi erano cresciuti. Molti sessantottini guardano ancora al problema dell’immigrazione alla luce degli anni Trenta e conservano la loro fede multiculturale nella tolleranza come panacea. Ma ha fatto la sua comparsa un gruppo dissidente, che vuole che i nuovi immigrati si adeguino al programma occidentale, e subito. Consapevoli di avere flirtato con il dispotismo negli anni Sessanta, alcuni importanti intellettuali europei ora si considerano gli unici difensori della libertà contro l’'islamo-fascismo' e i suoi simpatizzanti multiculturalisti. Sono scioccati (comprensibilmente) dalle minacce di morte contro chi critica l’islam come Ayaan Hirsi Ali, la scrittrice fuggita dall’Olanda per rifugiarsi nel conservatore American Enterprise Institute di Washington. Sono scioccati (comprensibilmente) dalla repressione delle donne in molte famiglie immigrate. E sono scioccati (comprensibilmente) dalle minacce alla libertà di espressione da parte di chi si ritiene offeso nella propria sensibilità religiosa. Il problema di tutti questi shock è che li causa un problema che la generazione del Sessantotto ha, in gran parte, contribuito a creare. Una valutazione più sobria e realistica della questione dell’immigrazione, senza fissarsi sul passato europeo, avrebbe aiutato a raddrizzare quelle politiche lassiste che hanno condotto l’Europa in questo stallo. Ma ora in Europa abitano milioni di nuovi immigrati con le loro famiglie, molte delle quali sono musulmane e non condividono le convinzioni culturali e intellettuali moderne. Cosa fare? Un passo avanti ragionevole sarebbe quello di incoraggiare, all’interno della comunità musulmana, figure moderate credibili che incoraggiano la convivenza. Una di queste è il pensatore svizzero Tariq Ramadan, che ha un largo seguito tra i giovani musulmani istruiti che sperano di conciliare i loro convincimenti religiosi con la vita nell’Occidente moderno. Ramadan non è un liberal democratico illuminato, ma il suo messaggio offre motivi teologici per credere che i musulmani possano vivere pacificamente in Occidente senza considerarlo un territorio alieno e ostile [...]. Sono richiami difficili, ma molti più se ne dovranno fare nei prossimi decenni. Gli europei sono in acque inesplorate e per navigarvi avranno bisogno di un forte senso della realtà. Le fantasie sul rimettere in scena drammi del passato non fanno che rendere più difficile il compito. Narcisisticamente concentrati sul proprio significato storico, i sessantottini semplicemente non sono preparati a pensare al futuro dell’Europa. Spetterà a una generazione nuova, più matura. (© 2007, Newsweek, Inc. e, per l’Italia, Avvenire. All rights reserved. Reprinted by permission. Traduzione di Anna Maria Brogi)

MARCELLO VENEZIANI «Incapaci di confrontarsi con la realtà»
Divenuti sessantottenni, i sessantottini non manifestano nessun segnale che possa far sperare in un ravvedimento collettivo: quindi, prima abbandonano le leve del potere, meglio è. Perché la cultura in cui si sono formati, quella dell’immaginazione al potere, è radicalmente incapace di fare i conti con la realtà. Soprattutto quella dei giorni nostri, mutevole e ormai molto distante da quella contro la quale si scendeva in piazza quarant’anni fa. L’analisi dello studioso Marcello Veneziani, che sta per mandare nelle librerie proprio una saggio ad hoc ( Rovesciare il Sessantotto, in uscita il 22 gennaio per Mondadori), non concede ulteriori prove d’appello. Nel suo libro critica il Sessantotto e i sessantottini oggi al potere: in quale direzione? «Parto da una valutazione: il Sessantotto come rivoluzione politica ed economica è fallito, non ha prodotto alcun cambiamento di assetti. Anzi: da allora il capitalismo ha marciato in maniera ancor più inarrestabile. Ha invece avuto effetti devastanti sul piano civile, dalla famiglia alla scuola, alla meritocrazia... E ha prodotto una generazione incapace, come giustamente sottolinea Lilla, di confrontarsi con la realtà: quando l’immaginazione va al potere, si perde la concretezza delle cose». I limiti dell’attuale classe dirigente hanno le proprie radici nella cultura di quell’epoca? «Molti degli atteggiamenti oggi dominanti nel costume velleitario della classe dirigente italiana sono lasciti aberranti del Sessantotto, nel segno di una continuità con quello spirito e con quell’epoca». Eppure il Sessantotto si proponeva una nuova, 'moderna' comprensione della dimensione umana... «Sì, ma un conto è l’attenzione e il rispetto della persona e della cultura altrui; un altro è perdere il senso della realtà e ritenere che tutto diventi intercambiabile, considerando indifferente perfino la propria tradizione culturale e religiosa. La relativizzazione, anziché esaltarla, mortifica l’identità dell’interlocutore. Questo è uno dei limiti della cultura sessantottina: esaltava ombre, non persone vere e concrete. E di solito la generica e astratta solidarietà verso l’umano si accompagna all’intolleranza verso le persone concrete». Potrà mai la generazione figlia del Sessantotto superare i limiti che ha ereditato dal passato, oppure dobbiamo – come suggerisce Lilla – limitarci ad aspettare l’avvento al potere di una nuova generazione? «Temo di sì, perché – salvi i ravvedimenti individuali, che ci sono stati e ci saranno – dopo quarant’anni di servizio è giusto che il Sessantotto vada in pensione, insieme alla cultura che l’ha alimentato. È più facile pensare a un ricambio che a una redenzione collettiva della classe dirigente, nel momento in cui da sessantottini diventano sessantottenni». Edoardo Castagna

La caduta del centro sinistra.

Alle origini del fallimento

di Ernesto Galli Della Loggia

La fine del governo Prodi evoca innanzi tutto un'importante questione storica destinata, temo, ad accompagnarci a lungo: la costante minorità numerica della sinistra italiana, e dunque la sua costante debolezza elettorale di partenza. L'Italia profonda non è un Paese progressista. Ciò costringe la sinistra, per avere qualche probabilità di andare al governo, ad allearsi con forze diverse da lei, più o meno dichiaratamente conservatrici. Il che, tuttavia, come si capisce, può avvenire in momenti e su spinte eccezionali (per esempio l'antiberlusconismo) ma è difficile che duri a lungo. Si aggiunga — come concausa di questa minorità, e sua aggravante — la paralizzante eredità comunista. La vicenda italiana indica quanto sia difficile che da quell'eredità nasca un'evoluzione di tipo uniformemente socialdemocratico. La stragrande maggioranza degli eredi del vecchio Pci, infatti, come si sa, ha rifiutato tale evoluzione e il suo nome, preferendo invece, al suo posto, quello alquanto vago di «democratici ».
Accanto a loro è nato dal tronco del vecchio partito un blocco di tenace radicalismo (le tre o quattro formazioni che ancora si dicono «comuniste ») il quale include almeno un terzo dell'antico elettorato di Botteghe Oscure: insomma un ulteriore fattore di debolezza. C'è poi da ultimo la sinistra cattolica proveniente dalla vecchia Democrazia cristiana. Per avere qualche speranza di vincere è necessario dunque assommare e combinare queste tre componenti, e in più, come dicevo, è necessario trovare un'alleanza con il centro. Un'impresa non da poco, bisogna ammettere; proprio per riuscire nella quale si è spinti a ricorrere a una personalità a suo modo autonoma e di prestigio, per esempio Romano Prodi, la quale però a sua volta tenderà per forza di cose a concepire anch'essa prima o poi una sua personale strategia, a costituire un suo personale polo politico. Portando così al massimo il potenziale divisivo e la confusione delle lingue. Il governo Prodi, già nato sulla base di queste difficoltà strutturali, le ha aggravate di suo con una serie di errori e di insufficienze. Innanzi tutto con la faccenda del programma. Invece di provare a superare la fortissima disomogeneità dell'alleanza accordandosi preliminarmente su cinque, al più dieci, cose importanti da fare nella legislatura, invece di perdere anche magari qualche settimana prima delle elezioni a discutere priorità e stabilire modalità a quel punto davvero vincolanti, si è preferito soddisfare le esigenze identitarie dei circa dieci-dodici componenti della coalizione e compilare un ridicolo programma «monstre» di 280 e passa pagine, impossibile da attuare ma solo fonte di discussioni e rivendicazioni continue, da parte di tutti contro tutti, appena si è cominciato a governare: e da cui nessuno, ovviamente, si è mai sentito impegnato. Anche su queste secche si è incagliata la capacità realizzativa del governo. La cui portata assai limitata, del resto, si è però vista già all'inizio, nell' estate del 2006, quando il ministro Bersani presentò un pacchetto di riforme liberalizzatrici che, pur se nella sostanza cautissime, furono ancor di più sterilizzate finendo per partorire il più classico dei topolini.
Egualmente, di qualunque vera riforma dell'ordinamento giudiziario— un'altra questione cruciale che mina la vita del Paese — non si è sentito mai parlare. Lo stesso dicasi poi per quella che pure il centrosinistra aveva presentato come la più urgente ed essenziale delle riforme: la legge sul conflitto d'interessi. Sono pure cadute nel dimenticatoio grandi questioni nazionali, come l'infame legislazione sulla sanità pubblica, le condizioni delle reti infrastrutturali, lo stato disastrato dell'istruzione. Per quanto riguarda i conti pubblici, infine, anche qui all'urgenza da tutti invocata di ridurre la spesa pubblica non è stato dato alcun seguito, nel mentre si è ricorso come sempre all'aumento del carico fiscale. Insomma, la coalizione di centrosinistra, presentatasi come portatrice di volontà e di visioni realizzative assai superiori a quelle dei suoi avversari, è mancata clamorosamente alla promessa creando un sentimento di disillusione profonda nell'opinione pubblica. Sentimento accresciuto dalla presenza, anche ai vertici, di un personale politico troppo di frequente demagogico, vuotamente assertivo quanto inconcludente, di cui il ministro Pecoraro Scanio è stato l'esempio ormai emblematico.
Un personale politico che su un altro versante ancora ha mostrato peraltro la sua scarsa qualità: su quello dell'occupazione del potere. A cominciare dal presidente del Consiglio il centrosinistra ha condotto dappertutto una sistematica politica lottizzatrice. I suoi uomini di governo, favoriti dalla vasta influenza sociale e culturale a loro omogenea, frutto della storia della Repubblica, non hanno mai fatto spazio a nulla e nessuno che non portasse la loro etichetta politica. Posti, incarichi e finanziamenti sono andati solo a persone e cose della loro parte. Per quella che non era ritenuta tale, invece, non si è mancato di fare ricorso a pressioni dirette e indirette, intrecciate a più o meno sottili intimidazioni. In questo modo, e abbastanza paradossalmente, la coalizione di centrosinistra è venuta costruendo un'immagine di sé sempre più identificata con le oligarchie e i poteri tradizionali, con le nomenclature più tenaci della Repubblica. E ben prima che il verdetto del Senato sono stati lo scoramento e la delusione che tutto ciò, insieme al resto, ha provocato nei suoi stessi elettori, che hanno scavato la fossa in cui alla fine il governo è precipitato.

Così muore il centrosinistra.

di EZIO MAURO


Nemmeno due anni dopo il voto che ha sconfitto Berlusconi e la sua destra, Romano Prodi deve lasciare Palazzo Chigi e uscire di scena, con il suo governo che si arrende infine al Senato dove Dini e Mastella gli votano contro, dopo una settimana d'agonia. È lo strano - e ingiusto - destino di un uomo politico che per due volte ha battuto Berlusconi, per due volte ha risanato i conti pubblici e per due volte ha dovuto interrompere a metà la sua avventura di governo per lo sfascio della maggioranza che lo aveva scelto come leader. Con Prodi, però, oggi non finisce soltanto una leadership e un governo, ma una cultura politica - il centrosinistra - che tra alti e bassi ha attraversato gli anni più importanti del nostro Paese, segnando la storia repubblicana. Ciò che è finito davvero, infatti, è l'idea di un'ampia coalizione che raggruppi insieme tutto ciò che è alternativo alla destra, comunque assemblato, e dovunque porti la risultante. Prodi è morto politicamente proprio di questo. È morto a destra, per la vendetta di Mastella e gli interessi di Dini, ma per due anni ha sofferto a sinistra, per gli scarti di Diliberto, Giordano e Pecoraro, soprattutto sulla politica estera. Mentre faceva firmare ai leader alleati un programma faraonico e velleitario di 281 pagine e un impegno di lealtà perfettamente inutile per l'intera legislatura, Prodi coltivava in realtà un'ambizione culturale, prima ancora che politica: quella di tenere insieme le due sinistre italiane (la riformista e la radicale), obbligandole a coniugare giustizia e solidarietà insieme con modernità e innovazione, in un patto con i moderati antiberlusconiani. Quell'ambizione è saltata, o meglio si è tradotta talvolta in politica durante questi due anni, mai in una cultura di governo riconosciuta e riconoscibile. I risultati positivi di un governo che ha rovesciato il proverbio, razzolando bene mentre continuava a predicare male, non sono riusciti a fare massa, a orientare un'opinione pubblica ostile per paura delle tasse, spaventata dalle risse interne alla maggioranza, disorientata dalla mancanza di un disegno comune capace di indicare una prospettiva, un paesaggio collettivo, una ragione pubblica per ritrovare il senso di comunità, muoversi insieme, condividere un percorso politico. Anche le cose migliori che il governo ha fatto, sono state spezzettate, spolpate e azzannate dal famelico gioco d'interdizione dei partiti, incapaci di far coalizione, di sentirsi maggioranza, di indicare un'Italia diversa dopo i cinque anni berlusconiani: ai cittadini, le politiche di centrosinistra sono arrivate ogni volta svalutate, incerte, contraddittorie e soprattutto depotenziate, come se la rissa interna - che è il risultato di una mancanza di cultura comune - avesse succhiato ogni linfa. Ancor più, avesse succhiato via il senso, il significato delle cose. Fuori dal recinto tortuoso del governo, la destra non ha fatto molto per riconquistarsi il diritto di governare. Le sue contraddizioni sono tutte aperte, e la crisi della sinistra regala a Berlusconi una leadership interna che i suoi alleati ancora ieri contestavano. Ma la destra, questo è il paradosso al ribasso del 2008, è in qualche modo sintonica e addirittura interprete del sentimento italiano dominante, che è insieme di protesta e di esclusione, forse di secessione individuale dallo Stato, probabilmente di delusione repubblicana, certamente di solitudine civica. Nella grande disconnessione da ogni discorso pubblico, che è la cifra nazionale di questa fase, il nuovo populismo berlusconiano può trovare terreno propizio, perché salta tutte le mediazioni, dà agli individui l'impressione di essere cercati dalla politica e non per una rappresentanza, ma per una sintonia separata con la leadership, una vibrazione, un'adesione, ad uno ad uno. Intorno si è mossa e si muove la gerarchia cattolica, che ormai lascia un'impronta visibile non nel discorso pubblico dov'è la benvenuta, ma sul terreno politico, istituzionale e addirittura parlamentare, dove in una democrazia occidentale dovrebbe valere solo la legge dello Stato e la regola di maggioranza, che è la forma di decisione della democrazia. Un'impronta che sempre più, purtroppo, è quella di un Dio italiano fino ad oggi sconosciuto, che non si preoccupa di parlare all'intero Paese ma conta le sue pecore ad ogni occasione interpretando il confronto come prova di forza - dunque come atto politico - , le rinchiude nel recinto della precettistica e se deve marchiarle, lo fa sul fianco destro. Un contesto nel quale poteva reggere soltanto una politica in grado di esprimere una cultura moderna, cosciente di sé, risolta, capace di nascere a sinistra e parlare all'intero Paese. Tutto questo è mancato, per ragioni evidenti. La vittoria mutilata del 2006 ha messo subito il governo sulla difensiva, preoccupato di munirsi all'interno, col risultato di una dilatazione abnorme di ministri e sottosegretari. Ma i partiti, mentre si munivano l'uno contro l'altro, si disconnettevano dal Paese. Nel loro mondo chiuso, hanno camminato a passo di veti, minacce e ricatti, indebolendo la figura dello stesso Presidente del Consiglio, costretto a mediare più che a indirizzare. Si sono sentite ogni giorno mille voci, a nome del governo. La voce del centrosinistra è mancata. Oggi che Mastella ha firmato un contratto con il Cavaliere e Dini ha onorato la cambiale natalizia, risulta evidente che Prodi salta perché è saltato quell'equilibrio che univa i moderati alle due sinistre, e come tale poteva rappresentare la maggioranza dell'Italia contemporanea. Tuttavia, senza il trasformismo (non nuovo: sia Dini che Mastella sono ritornati infine a casa) Prodi non sarebbe caduto. Barcollando, il governo avrebbe ancora potuto andare avanti, e questa è la ragione che ha spinto il premier ad andare al Senato, per mettere in piena luce sia la doppia defezione da destra e verso destra, sia l'assurdità di una legge elettorale che dà allo stesso governo la vittoria alla Camera e la sconfitta al Senato. Da qui partirà il presidente Napolitano con le consultazioni, nella sua ricerca di consolidare un equilibrio politico e istituzionale che ritrovi un baricentro al sistema e al Paese. Il Capo dello Stato dovrà dunque tentare, col suo buonsenso repubblicano, di correggere queste legge elettorale prima di riportare il Paese al voto. La strada è quella di un governo istituzionale guidato dal presidente del Senato Marini, formato da poche personalità scelte fuori dai partiti, sostenuto dalle forze di buona volontà per giungere al risultato che serve al Paese. Riformare la legge elettorale, e se fosse possibile, riformare anche Camera e Senato, cambiando i regolamenti, riducendo il numero dei parlamentari, correggendo il bicameralismo perfetto. Un governo non a termine, ma di scopo. Che può durare poco, se i partiti sono sinceri nell'impegno e responsabili nelle scelte, col Capo dello Stato garante del percorso e dell'approdo. Berlusconi è contrario a questa soluzione perché vuole votare al più presto, con i rifiuti per strada a Napoli (altra prova tragica d'impotenza del centrosinistra, locale e nazionale), con piazza San Pietro ancora calda di bandiere papiste, con il volto di Prodi da esibire in campagna elettorale come un avversario già battuto, in più in grado di imbrigliare l'avversario vero, che è da oggi Walter Veltroni.

domenica 27 gennaio 2008

Il Giorno della Memoria.

La storia del genere umano ha conosciuto innumerevoli eccidi e stermini. Quello attuato in Europa nel Novecento contro gli ebrei differisce dagli altri per le sue caratteristiche di radicalità e scientificità. Mai era accaduto, ad esempio, che persone abitanti nell'isola di Rodi o in Norvegia venissero arrestate per essere deportate in un luogo (Auschwitz) appositamente destinato ad assassinarle con modalità tecnologicamente evolute. Per questo si parla di "unicità" della Shoah; definizione che pertanto costituisce il risultato di una comparazione storica, e non un pregiudiziale rifiuto di essa.
Shoah è un vocabolo ebraico che significa catastrofe, distruzione. Esso è sempre più utilizzato per definire ciò che accadde agli ebrei d'Europa dalla metà degli anni Trenta al 1945 e in particolar modo nel quadriennio finale, caratterizzato dall'attuazione del progetto di sistematica uccisione dell'intera popolazione ebraica.
Tale progetto venne deciso e concretizzato dal Terzo Reich nel corso della seconda guerra mondiale; venne attuato con la collaborazione parziale o totale dei governi o dei movimenti politici di altri Stati; venne interrotto dalla vittoria militare dell'Alleanza degli Stati antifascisti e dei movimenti di Resistenza. Se invece i vincitori fossero stati la Germania nazista, l'Italia fascista, la Francia di Vichy, la Croazia degli ustascia ecc…, non un solo ebreo sarebbe rimasto in vita nei ferri tori controllati da questi.
Ricordarsi di quelle vittime serve a mantenere memoria delle loro esistenze e del perché esse vennero troncate. E la memoria di questo passato serve ad aiutarci a costruire il futuro.
Molti Stati hanno istituito un "giorno della memoria". L'Italia lo ha fissato al 27 gennaio: la data in cui nel 1945 fu liberato il campo di sterminio di Auschwitz. In effetti altri ebrei, d'Italia e d'Europa, vennero uccisi nelle settimane seguenti. Ma la data della Liberazione di quel campo è stata giudicata più adatta di altre a simboleggiare la Shoah e la sua fine.
Ovviamente la Shoah fu un evento storico interrelato con gli altri avvenimenti storici; per questo la legge italiana indica altri gruppi di persone la cui memoria va mantenuta viva: coloro che, a rischio della propria vita, combatterono il fascismo e il nazismo e coloro che comunque contrastarono lo sterminio e salvarono delle vite.
"Dov'era Dio ad Auschwitz?"
e',
naturalmente,
Dio non c'era ad Auschwitz.
Oppure si era addormentato
solo per cinque minuti.
Come sta dormendo ancora oggi
mentre
gli eccidi nel mondo
si succedono
come niente fosse.
In questo momento proprio,
c'e' un eccidio
in Africa.
E nessuno dice niente.
I giornalisti sono molto occupati
in questi giorni
a filmare e descrivere
il dolore in Israele ed in Palestina.
Dell'Africa se ne parlerà quando
le sue anime
si saranno spente.
Non ci sono Popoli Santi, ne' Santi, ne Santi Popoli:
c'e' solo un piccolo pianeta
che sta andando a rotoli nello spazio,
e c'e' anche un genere umano
che sta perdendo i suoi colori
ed i suoi profumi.

Infanzia Miserabile

Infanzia miserabile, catena
che ti lega al nemico e alla forca 1.
Miserabile infanzia, che dentro il
suo squallore
già distingue il bene e il male 2.
Laggiù dove l’infanzia dolcemente
riposa
nelle piccole aiuole di un parco
laggiù, in quella casa, qualcosa si è spezzato
quando su me è caduto il disprezzo:
laggiù, nei giardini o nei fiori
o sul seno materno, dove io sono nato
per piangere ….

Alla luce di una candela m’addormento
forse per capire un giorno
che io ero una ben piccola cosa,
piccola come il coro dei 30.000 3,
come la loro vita che dorme
laggiù nei campi,
che dorme e si sveglierà,
aprirà gli occhi
e per non vedere troppo 4
si lascerà riprendere dal sonno …
Zanus Zachenburg

DIO MIO, PERCHÉ MI HAI ABBANDONATO?

Noi siamo gli sradicati
i rifugiati che non hanno un ruolo
i confinati nei campi di concentramento
condannali ai lavori forzati
condannati alle camere a gas
bruciali nei forni crematori
e le ceneri disperse
Siamo il tuo popolo di Auschwitz
di Buchenwaid
di Belsen
di Dachau
Con la nostra pelle hanno fatto abat-jour
e con il nostro grasso han fatto sapone
Come pecore al macello
tu hai permesso che ci portassero
alle camere a gas
Hai lasciato che ci deportassero
Hai messo in vendita a poco prezzo il tuo popolo
e non si trovava un compratore
Andavamo come bestie
assiepati nei vagoni
verso i campi illuminati da riflettori
e circondati da filo spinato
ammucchiati nei camion verso le camere a gas
dove entravamo nudi
chiudevano le porte
spegnevano le luci
e tu ci coprivi con l'ombra della morte
Di noi non son rimasti che mucchi di vestiti
mucchi di giocattoli
e mucchi di scarpe.

Ernesto Cardenal
NON SENTITE L'ODORE DEL FUMO
AUSCHWITZ STA FIGLIANDO

Le più grandi risorse
erano la speranza e la dignità.
Chi si rassegna, muore prima.
Non so se i giovani hanno appreso.
Se ci si lascia chiudere, terrorizzare
se ci si lascia cristallizzare
si diventa una cosa
gli altri ci diventano cose.
Molti ancora non sanno:
Auschwitz è tra noi. è in noi.
Non so se i giovani sanno
in ogni parte del mondo:
non c'è rivoluzione se si trattano gli uomini come sassi,
ai giovani occorre
l'esperienza creativa di un mondo
nuovo davvero.
Ad Auschwitz ci torno volentieri.
mi da la misura dei fatti.

Danilo Dolci

sabato 26 gennaio 2008

Lo studio / il Mezzogiorno di Gaetano Salvemini e i dati contemporanei.

di MARCO BRANDO


ANALFABETISMO


Il Sud che non sapeva leggere e scrivere
oggi non sa navigare su Internet

« I Comuni più poveri - cioè quasi tutti quelli dell'Italia meridionale... - non possedevano i mezzi per le costruzioni ( di scuole) che erano favorite dai sussidi governativi; in conseguenza, i Comuni più benestanti dell'Italia settentrionale avrebbero inghiottito i fondi che si voleva far credere sarebbero serviti a costruire scuole contro l'analfabetismo in tutta l'Italia: una nuova iniquità si accumulava sulle antiche » . Sono parole scritte nel 1955 da Gaetano Salvemini ( Molfetta 1873 - Sorrento 1957) - politico e storico, uno dei padri del liberalsocialismo - nella prefazione del volume dedicato ai suoi Scritti sulla questione meridionale , pubblicati allora da Einaudi.Quelle parole - che si riferivano agli interventi governativi del 1910 - vengono in mente leggendo che Bari è oggi al terzo posto, tra le grandi città italiane, per numero di analfabeti, preceduta solo da Catania e da Palermo. La notizia è stata fornita l'altro ieri dal professor Saverio Avveduto, presidente dell'Unione nazionale per la lotta all'analfabetismo. L'indagine ha messo in evidenza che in Italia ci sono 2 milioni di analfabeti veri e propri ( per lo più anziani) e quasi 36 milioni di persone, il 66% della popolazione, senza titolo di studio o con la sola licenza elementare. Con dati più preoccupanti al Sud. Nella classifica la Puglia è, col 10%, al quarto posto tra le regioni più « analfabete » , preceduta da Calabria, Molise e Sicilia.Fatto sta che Salvemini, nella prefazione, contribuì a ricordare che l'analfabetismo, dall'Unità d'Italia, è stato uno dei fattori che ha segnato il divario tra Nord e Sud. Il primo censimento del Regno d'Italia, svolto nel 1861 su una popolazione di poco meno di 22 milioni d'abitanti, contava la media nazionale del 78% di analfabeti, quasi il 90% nel Sud. Nello stesso periodo nei Paesi anglosassoni gli analfabeti erano in media il 20 per cento. In Italia l'analfabetismo calò al 21% nel 1931 ( in quell'anno era superiore al 38% nel Mezzogiorno), al 13% nel 1951 ( 28% nel Sud). Nel 1961, a un secolo dall'unificazione del Paese, gli analfabeti erano l' 8,4%, ma più del 15% nel Mezzogiorno; e, a livello nazionale, il 6,6% dei maschi e il 10,1% delle femmine. I decenni successivi avvicinarono l'Italia alla situazione dell'Europa continentale: nel 1971 la percentuale era scesa al 5,2 e nel 1981 al 3,1, anche perché riguardava soprattutto la popolazione più anziana.
Per altro su un fronte non meno preoccupante, quello dell'alfabetizzazione informatica, oggi il nostro Paese può vantare, si fa per dire, percentuali simili - incluso il divario tra Nord e Sud - a quelle che quasi un secolo fa sottolineavano la distanza tra Italia e Paesi europei più sviluppati. Tanto è vero che l'analfabetismo informatico riguarda quasi due terzi degli italiani, contro un terzo degli altri Paesi sviluppati: la diffusione dell'accesso ad Internet in Italia è relegata ( Cnel, 2004) al 28,5% della popolazione, mentre si registra il 60% in Germania, il 54% in Gran Bretagna, il 43% in Francia, il 68% negli Stati Uniti. Inoltre c'è, appunto, una differenza interna all'Italia: la penetrazione più elevata della rete si rileva in Liguria ( 36,7 per cento), seguita dalla Lombardia ( 36,4), mentre il Sud è in fondo alla classifica con Puglia ( 25,2), Sicilia ( 18,7), Basilicata e Calabria ( 17,8).
Fenomeni con alcune analogie, dunque. Salvemini nel 1955 contribuì a ricordare che la battaglia oggi non ancora vinta sul fronte dell'alfabetizzazione « normale » , è stata all'inizio del Novecento una guerra campale, combattuta anche sul confine tra progressismo e conservatorismo. Nella prefazione a quel volume si può intravedere una delle cause storiche del ritardo che il Mezzogiorno ancora patisce. Cause che trovarono linfa pure nella diffidenza verso il Meridione: lo storico molfettese la percepiva persino nel padre del socialismo italiano, Turati. « Una esperienza mi riuscì più penosa di qualunque altra » , scriveva Salvemini nel 1955. « Eravamo nel 1910. Il Parlamento doveva discutere la legge cosiddetta Daneo- Credaro, che, si diceva, mirava a combattere l'analfabetismo, specialmente nell'Italia meridionale. Mi frequentava Giuseppe Donati, studente universitario a Firenze e democratico- cristiano fervente… Gli detti da studiare quali effetti avrebbe avuto quella legge nell'Italia meridionale » .Poi: « Donati mi portò le conclusioni, perfettamente documentate, del suo studio. La legge combatteva non l'analfabetismo, ma la fame dei maestri; e quello certo era bene. Ma metteva a carico del Governo centrale gli aumenti di stipendio ai vecchi maestri e gli stipendi interi dei nuovi: ora, sic come il maggior numero di maestri si trovava nell'Italia settentrionale, ne conseguiva che i pastori della Sardegna, i zolfatari della Sicilia e i braccianti delle Puglie, che avevano maestri in scarsa quantità o non ne avevano affatto, avrebbero pagato gli aumenti e i nuovi stipendi dei maestri che lavoravano nelle scuole dell'Italia settentrionale; bene inteso che, anche qui, le città, meglio attrezzate, inghiottivano bocconi più abbondanti che i Comuni rurali meno ricchi di scuole.La legge, inoltre, aumentava i sussidi governativi per la costruzione dei nuovi edifici scolastici, ma lasciava sempre a carico dei Comuni una parte della spesa » . Con le conseguenze deleterie sui « Comuni più poveri, cioè quasi tutti quelli dell'Italia meridionale » , richiamate all'inizio.« Quando ebbi preso in esame e controllato i dati raccolti da Donati - riportò Salvemini - andai a Milano a spiegare che bisognava riformare la legge, se si voleva combattere seriamente l'analfabetismo nell'Italia meridionale. Fiasco su tutta la linea! Mi stavano ad ascoltare dissimulando per cortesia fino a che punto li seccavo, e non assumevano impegni di verun genere. In una riunione all'Umanitaria, alla quale intervenne anche il direttore generale dell'Istruzione elementare, Camillo Corradini, cercai di far capire ragione: ben presto mi resi conto che nessuno badava a me, e non feci più perdere tempo a nessuno. La legge Daneo- Credaro rappresentava un vantaggio notevole per i maestri elementari che stavano nei collegi del Nord. Perché dovevano i socialisti del Nord interessarsi di stipendi ed edifici scolastici del Sud, cioè fuori del Nord? » .Cosicché, col varo del suffragio universale nel 1911 ( andarono alle urne anche gli analfabeti: i maschi; per votare le donne dovranno attendere ancora più di un trentennio) Salvemini giunse alla conclusione che « in questa nuova fase della vita nazionale, i socialisti meridionali dovevano far tutto da sé e non impetrare nessuna elemosina di benevolenza dai socialisti settentrionali » : « Avevo perduto ogni speranza di interessare i socialisti del Nord a nessun problema di giustizia che interessasse le classi lavoratrici meridionali » . Risultato: lasciò il Partito socialista.
Di certo, all'epoca Salvemini segnalò i lacci e lacciuoli, politici e culturali, che ritardarono anche l'alfabetizzazione del Mezzogiorno. Oggi ci sono ancora vincoli che frenano lo sviluppo. « Quando sarà la maggior parte delle persone, e non una ristretta cerchia, a cercare e sfruttare le informazioni messe in rete, allora potremo dire che il cervello di Internet avrà iniziato davvero a funzionare » . Lo ha sostenuto Paolo Zocchi, presidente dell'associazione « Una Rete » ( www. unarete. org) e autore del libro Internet, una democrazia possibile ( Guerini e Associati). Vi spiega che l'ostacolo principale alla diffusione di Internet, nello stesso Sud Italia, non è tanto l'estensione delle infrastrutture di connessione e neanche il gap dell'alfabetizzazione informatica ( facilmente superabile): lo scoglio vero è l' « alfabetizzazione sociale » , la propensione delle persone alla ricerca di conoscenza. Oggi, infatti, il 73% cento degli italiani accede ad Internet soltanto per scaricare la posta elettronica (o per scrivere e scaricare pensierini legati alla propria frustrazione). Come avere un'automobile e usare solo la prima marcia.

giovedì 24 gennaio 2008

Nasceranno uomini migliori.

Nazim Hikmet

“Nasceranno uomini migliori”

Nasceranno da noi
uomini migliori.
La generazione
che dovrà venire
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
dal ferro e dal fuoco.
Senza paura
e senza troppo riflettere
e nostri nipoti
si daranno la mano
e rimirando
le stelle del cielo
diranno:
"Com'è bella la vita!"
Intoneranno
una canzone nuovissima,
profonda come gli occhi dell'uomo
fresca come un grappolo d'uva
una canzone libera e gioiosa.
Nessun albero
ha mai dato
frutti più belli.
E nemmeno la più bella delle notti di primavera
ha mai conosciuto
questi suoni, questi colori.
Nasceranno da noi
uomini migliori.
La generazione
che dovrà venire
sarà migliore
di chi è nato
dalla terra,
dal ferro e dal fuoco.

Tom Joad.

"Le grandi società non sanno che la linea di demarcazione tra fame e furore è sottile come un capello. E il denaro che potrebbe andare in salari va in gas,in esplosivi, in fucili, in spie, in polizie e in liste nere.Sulle strade la gente formicola in cerca di pane e lavoro, e in seno ad essa serpeggia il furore, e fermenta" J. Steinbek, Furore"
And The highway is alive tonight Nobody's foolin' nobody is to where it goes I'm sitting down here in the campfire light Searchin' for the Ghost of Tom Joad" B. Springsteen, The ghost of Tom Joad
Mezzadri, piccoli proprietari, famiglie che da sempre vivono della terra che lavorano, se la sono ipotecata un anno in cui il raccolto era scarso, adesso è un altro anno di carestia, la terra è povera, il clima ostile e non ci sarà granturco da raccogliere. Ma le banche non accettano dilazioni, vogliono essere pagate, chi non paga deve andarsene, deve lasciar posto al progresso, che vuol dire latifondo, che vuol dire macchine che, da sole, svolgono il lavoro di intere famiglie. E da mezzadri che erano si trasformano in nomadi, abbandonano le terre che non sono più loro, truffati da abili speculatori che comprano per niente le loro cose, che gli vendono rottami di macchine a prezzi esosi. E i nomadi caricano sui rottami tutto quello che possono caricare, e dall'Oklahoma e dai paesi vicini si mettono in marcia, invadono coi loro carretti la Highway 66, diretti verso la California, dove c'è lavoro, lo dicono i volantini che c'è lavoro -perché spendere i soldi per farli stampare se non fosse vero? E dove c'è lavoro per 100 si presentano in migliaia, e i salari scendono, e le speranze di una vita nuova si infrangono contro lo sfruttamento, la fame, la paura dei locali, che reagiscono con violenza a questa invasione di straccioni sporchi e denutriti. E' l'America della Grande Depressione, ma è anche una storia che abbiamo già letto - in Rulli di tamburi per Rancas di Scorza, in Fontamara di Silone, in Una terra chiamata Alentejo di Saramago, in Cacao di Amado -una storia che abbiamo già visto e che - come ci ricorda Springsteen -continuiamo a vedere tutti i giorni. La storia della miseria umana, dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo, ma anche la storia della solidarietà tra gli ultimi, della progressiva presa di coscienza dell'ingiustizia sociale e dell'idea che, unendo le forze, il mondo si può - si deve - cambiare. Una storia che Steinbeck racconta con impareggiabile maestria, intrecciando, in un romanzo corale, le vicende di una famiglia, i Joad, con notizie di cronaca e pagine in cui viene lasciato spazio alle voci e alle storie di altri personaggi senza volto, protagonisti o spettatori di questa vicenda tragica- tra i tanti, segnalo il capitolo XV, dove Steinbeck ci trascina nell'angolo visuale di una cameriera, che assiste dal suo ristorante alla sfilata di straccioni sulla Highway 66. Una scrittura intensa e pure pacata, mai frenetica, esente da ogni moralismo o gratuito filosofeggiare, capace di tratteggiare in poche righe psicologie complesse, personaggi a tutto tondo. E i personaggi di Furore sono di quelli che non si dimenticano, di quelli che dispiace abbandonare alla fine del libro. Si vorrebbe quasi che la storia non finisse -e la storia, infatti, continua ancora, da qualche altra parte, meno lontano di quanto si vorrebbe. Searchin' for the Ghost of Tom Joad

mercoledì 23 gennaio 2008

Ai miei amici.

I miei amici veri, purtroppo o per fortuna, non sono vagabondi o abbaialuna, per fortuna o purtroppo ci tengono alla faccia: quasi nessuno batte o fa il magnaccia. Non son razza padrona, non sono gente arcigna, siamo volgari come la gramigna. Non so se è pregio o colpa esser fatti così: c'è gente che è di casa in serie B. Contandoli uno a uno non son certo parecchi, son come i denti in bocca a certi vecchi, ma proprio perchè pochi son buoni fino in fondo e sempre pronti a masticare il mondo. Non siam razza d' artista, nè maschere da gogna e chi fa il giornalista si vergogna, non che il fatto c' importi: chi non ha in qualche posto un peccato o un cadavere nascosto? Non cerchiamo la gloria, ma la nostra ambizione è invecchiar bene, anzi, direi... benone! Per quello che ci basta non c'è da andar lontano e abbiamo fisso in testa un nostro piano: se e quando moriremo, ma la cosa è insicura, avremo un paradiso su misura, in tutto somigliante al solito locale, ma il bere non si paga e non fa male. E ci andremo di forza, senza pagare il fìo di coniugare troppo spesso in Dio: non voglio mescolarmi in guai o problemi altrui, ma questo mondo ce l' ha schiaffato Lui. E quindi ci sopporti, ci lasci ai nostri giochi, cosa che a questo mondo han fatto in pochi, voglio veder chi sceglie, con tanti pretendenti, tra santi tristi e noi più divertenti, veder chi è assunto in cielo, pur con mille ragioni, fra noi e la massa dei rompicoglioni....
Francesco Guccini

martedì 22 gennaio 2008

Ad Arrigo Boldrini.

Lo avrai camerata Kesserling
il monumento che pretendi
da noi italiani
ma con che pietra si costituirà
a deciderlo tocca a noi
non coi sassi affumicati
dei borghi inermi e straziati
dal tuo sterminio
non colla terra dei cimiteri
dove i nostri compagni giovinetti
riposano in serenità.
Non colla neve inviolata delle montagne
che per due inverni ti sfidarono
non colla primavera di queste valli
che ti videro fuggire
ma soltanto col silenzio dei torturati
più duro di ogni macigno
soltanto con la roccia di questo patto
giurato tra uomini liberi
che volontari si adunarono
per dignità e non per odio
decisi a riscattare la vergogna
e il terrore del mondo
su questre strade
se vorrai tornare
ai nostri posti ci ritroverai
morti e vivi collo stesso impegno
popolo serrato intorno al monumento
che si chiama
ORA E SEMPRE RESISTENZA.
Piero Calamandrei

Vittorio Foa.

Effetti dell'attivismo giellista

Ecco: noi abbiamo preso queste due cose da Piero Gobetti e su queste due cose noi, ossia il Partito d'Azione, siamo stati sconfitti. Ci siamo dovuti accorgere tra il '43 e il '46 che queste due cose non funzionavano. Abbiamo dovuto prendere atto che il socialismo tradizionale era ben vivo e per una ragione profonda, che noi non riuscivamo a vedere. Vedevamo che i socialisti non erano presenti nelle fabbriche e nel movimento partigiano o che vi erano presenti solo in forza di accordi di vertice, che noi, naturalmente, disprezzavamo e nelle prime elezioni dopo la Liberazione non ci aspettavamo davvero il successo del Partito Socialista. Non capimmo che esso nasceva dalla voglia diffusa, dopo tante sofferenze, di cambiare, sì, qualcosa, ma senza traumi, senza violenza. I socialisti, per la verità, facevano uso di un linguaggio violento, di tipo sovietico, ma la gente non li prendeva sul serio e votò socialista nel '46 - persino la regina Maria Josè votò socialista - perché voleva qualcosa di nuovo, ma in modo pacifico. Noi eravamo alla ricerca di un socialismo autonomo e libertario, intimamente rivoluzionario e siamo stati sconfitti dal riemergere del socialismo tradizionale come fattore di rassicurazione. L'altro elemento su cui siamo stati gobettiani sino in fondo, e abbiamo perduto, è stato - lo ripeto - il disgusto per la democrazia classica. Disgusto è forse una parola sbagliata. Però… Ho riletto recentemente il Manifesto di Ventotene, quello dei federalisti europei, scritto da Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. È tutta una polemica contro la democrazia rappresentativa. L'azionismo è venuto fuori a dire basta con questa roba, bisogna fare qualcosa che venga direttamente dal popolo e che attivi la volontà popolare. Che ci volesse la democrazia rappresentativa l'abbiamo capito, ma, in fondo, la consideravamo un elemento non dico marginale, ma quanto meno da integrare con la democrazia diretta, con l'autonomia operaia, con l'iniziativa dal basso, che sola avrebbe dato alla democrazia un contenuto di liberazione vera, perché la democrazia rappresentativa di per sé non ha contenuti, fornisce, tutt'al più delle garanzie formali. Questa convinzione dell'insufficienza della democrazia rappresentativa l'abbiamo ereditata da Gobetti. Certo, l'eredità gobettiana era anche un elemento di forza. Sul quale, però, abbiamo perduto. L'intransigenza che abbiamo adottato come insegna ci ha fatto fraintendere dalla gente quando abbiamo dovuto affrontare la costruzione di uno Stato e la formulazione della sua costituzione. Abbiamo creduto per molto tempo, proprio perché eravamo intransigenti, e perché le cose non andavano come avremmo voluto, che fosse in corso una restaurazione. E invece no. Era qualcos'altro, che non era ciò che volevamo noi, ma non era neppure una restaurazione. Era una cosa diversa, nuova. Franco Venturi, uno dei nostri grandi torinesi, diceva che il Termidoro non era stato una restaurazione, ma, piacesse o meno, qualcosa di nuovo. Ho ricordato questa frase nella prefazione degli scritti politici di Venturi. Venturi viveva a Parigi, perché suo padre era emigrato lì, ma era un torinese e ha fatto tutta la Resistenza a Torino, come dirigente del Pd'A. Venturi nel suo realismo, agli insoddisfatti della democrazia parlamentare, che vedevano dappertutto Termidoro (e con Termidoro intendevano la restaurazione) non si stancava di ripetere che stava invece nascendo in Italia qualcosa di nuovo e che quando nasce qualcosa di nuovo, bisogna innanzi tutto cercare di capire che cosa è.Carlo Levi ha raccontato la nostra sconfitta nell'Orologio, dove ha fatto l'apologia di Parri e ha dipinto me e Spinelli come giovani dirigenti del partito tutti presi dai giochi della politica-tecnica. Fede, quello che veniva dalla prigione, ero io. Dice che Fede viveva nel cielo sacro della prigione, così alto e lontano che non riusciva a vedere il contadino in carne e ossa. In questo un po' mi ci riconosco: quel giudizio l'ho registrato e accettato. Quando sono entrato nel sindacato, ho cercato appunto di riprendere il contatto con la realtà, con la realtà del lavoro proletario. Quando scopro negli uomini esperienze e valori che prima non conoscevo, vengo trascinato dall'entusiasmo. La scoperta del lavoro proletario è stata uno di questi momenti. Ne Il Cavallo e la Torre, ho raccontato che quando sono entrato nella segreteria confederale, e ho cominciato a girare, sono venuto a contatto con settori per me nuovi del lavoro, dai contadini del Piemonte ai coloni del Mezzogiorno e non più soltanto con i metalmeccanici di Torino, a cui si era rivolta la mia prima attività di sindacalista. Nell'Orologio Levi dice che Fede, cioè io, voleva tutto, ma non sapeva che cosa voleva. In realtà io volevo l'azione, volevo dei fatti. Ero circondato dai poeti. Nell'Orologio Ferruccio Parri è descritto come una figura piena di fascino, così incapace di fare il Presidente del Consiglio da apparire, nelle parole di Levi cariche di amore, un poeta. Allora ho avuto modo di conoscere molto bene Parri e anche a me appariva un poeta. Poi c'era Lussu, questo grande signore sardo, che dava grandi, divertenti sciabolate. Da Don Chisciotte vedeva la vita come una grande battaglia, come un torneo. Poi c'era Dorso, l'erede di Gobetti. Allora era apparso a noi come il grande campione del Mezzogiorno. Era un gobettiano meridionale, che diceva che la piccola borghesia meridionale fregava sempre i contadini e quando sembrava voler fare qualcosa di nuovo, finiva per fregarli nuovamente. Secondo Dorso si doveva fare la rivoluzione. Io avevo letto di Dorso la Rivoluzione meridionale, nell'edizione di Gobetti del 1924, un bel libro che mi era rimasto impresso. Ma il vero meridionalista era Rossi Doria, che cominciò a dire che esistevano diversi tipi di Mezzogiorno, quello interno e quello costiero, per esempio, e che non si poteva fare la rivoluzione, ma bisognava invece fare delle cose. Il vero azionista meridionale, che voleva fare delle cose, e poi le ha fatte davvero con la Democrazia Cristiana e con i socialisti, era Rossi Doria. Guido Dorso era il poeta, Rossi Doria era il politico, il tecnico. Dorso lo avevamo fatto responsabile dell'azione meridionalista e fu un fallimento, perché entrò subito in conflitto con altri meridionalisti, anche del nostro partito. Dorso parlava con il suo tono profetico e sottolineava lo schifo della situazione, la necessità della rivoluzione, ma non ricordava mai i contadini: non li aveva ancora scoperti. A un certo punto sia Levi sia Rossi Doria si avvicinarono a Dorso e nelle elezioni del'46 inventarono, su sua richiesta, una lista non di partito, una lista di meridionalisti rivoluzionari, che si presentò a Bari con Pasquale Fiore e a Potenza con Guido Dorso. Gli azionisti di Bari, tra cui Calace, che era stato in prigione per molti anni, accettarono questo tentativo e ci si buttarono con entusiasmo. Anche Levi e Rossi Doria, che erano su posizioni più concrete di Dorso, ci si buttarono con entusiasmo. Fu una sconfitta spaventosa, che parve ancora più grande per le illusioni che ci eravamo fatti vedendo i comizi sempre affollati. Ma la gente, allora, andava a tutti comizi. Una vera sconfitta gobettiana… Insomma, io, rispetto ai politici-poeti, ero un politico-tecnico. Lo dico con un po' di autoironia, come dire, vi guardo, poeti, vi ammiro, sono in ginocchio, sono un povero diavolo che vive la sua politica-tecnica... È una canzonatura di me, naturalmente, non di loro. Anche perché, poi, chissà, anch'io, forse, ero un po' poeta...

lunedì 21 gennaio 2008

David Maria Turoldo.

di Gianmario Lucini
Nacque nel 1916 a Coderno, in Friuli da famiglia poverissima e molto religiosa. Nel 1940 fu ordinato sacerdote entrando nell'Ordine religioso dei "Servi di Santa Maria". Soggiornò a Milano negli anni '40 fino a circa il 1953. Fu poi inviato, forse su pressione di esponenti della Curia Romana, all'estero dove il suo ordine religioso amministra diversi conventi. L'avvento di papa Giovanni XIII e il nuovo corso conciliare, favorì il suo ritorno in Italia, all'inizio degli anni '60. Si trasferì infine, dopo la morte di Giovanni XXIII, presso il Convento dei Servi di Maria in Sotto il Monte, paese del quale divenne cittadino onorario, istituendovi un Centro Studi, presso il quale attualmente alcuni confratelli studiosi stanno organizzando la sua vasta produzione letteraria e saggistica.
Socialmente e politicamente impegnato, aderì alla resistenza con il gruppo de "L'uomo", per una "scelta dell'umano contro il disumano". Ma questo suo impegno durò per tutta la vita (anche se egli esplicitamente non aderì a nessun partito politico), convinto che la "Resistenza sia sempre attuale" e interpretando il comando evangelico "essere nel mondo senza essere del mondo" come un "essere nel sistema senza essere del sistema". Il suo impegno politico e sociale fu anche caratterizzato da una profonda umanità che lo portava non certo ad odiare ma a cercare un confronto di idee deciso e talvolta duro, ma sempre dialettico ("Credo di non avere dei nemici… posso avere avversari, questo sì"). Non di rado le sue prese di posizione crearono notevole imbarazzo e furono causa di scandalo in taluni ambienti cattolici. Ma anche la politica e l'impegno sociale non furono che ambiti, luoghi nel quale il poeta entrò senza mai soggiornarvi, cosciente del fatto che la sua vita era al servizio della Parola (e del Silenzio), in senso cristiano ma anche artistico, da poeta investito di una vocazione artistica. Scrive Andrea Zanzotto: "Turoldo ha percepito dunque da sempre la centralità della parola, … e l'ha percepita proprio come una delle sedi più alte in cui la parola (che cristianamente è il Verbo, "era ed è presso Dio") verifica se stessa e il mondo".
Le sue doti retoriche si esprimono in maniera straordinaria non solo nella sua opera letteraria, ma anche (per chi ebbe l'occasione di ascoltarlo) nelle sue omelie, negli innumerevoli discorsi che egli "predicatore" tenne in oltre 50 anni di attività, negli incontri con gruppi di ogni ambito culturale e sociale. Fu, tra l'altro, predicatore incaricato presso il duomo di Milano dal 1943 al 1953 Mi piace ricordare questo aspetto (di cui abbiamo anche qualche documento filmato), perché rappresenta forse la testimonianza più forte del suo slancio, della sua intelligenza, della sua creatività e capacità nel porgere una parola vera, allusiva, profonda. Passione per l'uomo e passione per Dio, forse queste sono le note caratteristiche, anche della sua poesia. "Difficilmente, infatti - scrisse Giovanni Giudici - si potrebbe reperire negli annali un esempio di così perentoria, sorprendentemente trasgressiva, coincidenza e inscindibilità tra vita ed opera, tra vocazione alla parola e testimonianza della parola".
Turoldo è anche il poeta cristiano che più d'ogni altro nel nostro secolo esprime la passione per il contrasto, lo stare fermamente dentro la Chiesa ma nello stesso tempo starvi criticamente, senza mollare mai d'un millimetro a minacce e lusinghe, opponendo fermamente ad ogni luogo comune e ad ogni perbenismo bigotto, una dialettica controllata da una coscienza aliena da compromessi, ostile a qualsiasi tentativo di distrarlo dalla coerenza con i suoi principi morali e religiosi, dall'imperativo della sua coscienza. In questo senso, la sua poetica si differenzia nettamente per una sua peculiarità, all'interno di una coscienza critica del cristianesimo contemporaneo, che vede ad esempio in Testori una diversa espressione: quest'ultimo infatti è lacerato dal dubbio e visibilmente a disagio di fronte all'incongruenza fede / vita, Turoldo invece è rivoluzionario proprio perché si abbandona a una fede cieca senza mai oscillare, facendone l'arma della sua cultura. Egli (con altri, come Padre Balducci, Don Milani , Padre Dossetti, Don Primo Mazzolari, ecc.) è uno degli esponenti più rappresentativi di un rinnovamento del cristianesimo e assieme di un nuovo umanesimo sociale che esprime una autentica novità socio-religiosa, certo ancora troppo superficialmente intesa e studiata, della seconda metà del '900.
Dopo la prima stagione della predicazione a Milano, Turoldo dunque viene inviato all'estero. Il suo peregrinare termina infine nell'eremo di Sotto Il Monte, paese nativo di Giovanni XXIII, in cerca di silenzio, e mantenendo comunque stretti e continui contatti con gli amici.
Se si pensa alla particolarità della poesia di Turoldo come "genere", nel '900 letterario, il pensiero corre a Rebora, soprattutto al primo Rebora. Ma non tanto (condividendo l'acuta osservazione che Vigorelli fa in un articolo apparso su "Il Giorno" del 13.1.1991) per le superficiali affinità che li accomunano (sacerdoti ambedue, dediti alla poesia di tema religioso, ambedue legati alla costruzione tradizionale della frase e del verso, senza particolari teorie estetiche movimentiste o di "scuola", ecc.). Ciò che li accomuna e che essi rappresentano in modo particolare (specialmente il Rebora (il primo Rebora, laico, e non il religioso, al quale tutto il '900 è debitore per questo aspetto) è l'uso di un linguaggio altamente espressivo (espressionistico), denso di spigolosità, metafore e immagini che urlano dentro la coscienza del lettore (e non nel segno o in fonemi reboanti, irati, stizziti come, ahimè!, capita troppo spesso di leggere - annoiandosi) con il proposito di scuoterlo, di porre la sua coscienza alle corde davanti alle domande scomode della vita. Anche come poeta che parla al lettore dunque, oltre che come uomo e religioso, Turoldo è un autore spigoloso, dialettico, scandaloso, che non conforta certo una paciosità borghese ma impone alla coscienza una dura lotta che reclama una scelta di campo, etica se non religiosa. Si potrebbe però anche dire che Turoldo, nel secolo delle incertezze, è il poeta di quella certezza (pur se problematica e sempre precaria) che venga subito dopo il dubbio. E di una certezza che non trae consistenza dalla razionalità filosofica, ma dallo slancio poetico ad un amore assoluto, universale, per gli uomini, Dio, la natura. Non si può infatti eludere il dubbio filosofico, perché, com'egli spiega, "è difficile dire di credere: credere è un'autentica rivoluzione". Più che ermetico (anche se indubbiamente lo è, specie nelle prime raccolte) il suo linguaggio mi sembra dunque espressionista, se pur di un espressionismo particolare, concettuale più che iconico.
Fra i motivi ricorrenti della sua poesia (non solo delle ultime opere) è il sentimento della morte, in un tempo che fa di tutto per dimenticarla e fuggirla ("per me la morte è sempre stata una coinquilina … sentita come una presenza che aiuta a vivere" - dice in una intervista). La morte per Turoldo è "senso della vita e concretezza di tutto quello che ho cantato". La morte aiuta a vivere perché aiuta a misurare le cose, a ritrovare il senso della speranza - altro tema ricorrente: ("vorrei tramandare questo scandalo della speranza" dice, mentre è già minato dal cancro allo stomaco).
È il poeta del salmo e della lode nel secolo del rapporto conflittuale fra poesia e trascendenza (si pensi ad esempio a Testori, a Ungaretti, a Pasolini). A noi piace immaginare (senza per questo voler contraddire ciò che Abramo Levi nel breve saggio citato in bibliografia, esprime sul rapporto simbolico del nome "David" con il Golia del "grande male" del nostro tempo) che Turoldo si sia scelto il nome "David" pensando a Re-poeta dei Salmi (il suo nome di battesimo è infatti Giuseppe, cambiato al momento di esprimere i voti religiosi e, come ci riferisce l'amico di sempre, Camillo De Piaz, in seminario i confratelli veneti lo chiamavano affettuosamente Bepo Rosso, per via dei capelli, allora fulvi). Scrive ancora Zanzotto "La formazione di Padre David in quanto poeta è evidentemente biblica, è anzi un continuo confronto con la Bibbia, un continuo richiamarsi ad essa, ai suoi temi, valori e personaggi … ma è fondata in generale su una buona conoscenza dei classici e dei moderni". Come fecero i profeti, si affida a Dio con una sicurezza istintiva, una intuizione così limpida da apparire ingenua, nel secolo dello smarrimento di tutte le certezze. Ritrova così la serenità del salmo, della laude, della cantica, proprio nel secolo delle grandi sperimentazioni formali e linguistiche delle avanguardie. Tutta la vita di Turoldo è una pro-vocazione, fino a quella morte così penosa: muore infatti di cancro il 6 febbraio del 1992. Il telegiornale di quel giorno ci fece ascoltare le ultime parole della sua ultima omelia che pronunciò smagrito e consumato dal suo male, e ripresa appena alcuni giorni prima di morire: furono parole di incitamento ad assistere le persone più bisognose, i malati, i poveri, gli oppressi di tutta la società. L'ultima parola pubblica che pronuncia è "cantare … portando il Cristo fra le braccia". E mi pare che questa sia la sintesi di tutta la sua vita di grande mistico, predicatore e poeta. Il suo linguaggio dunque è unico, come unica, testarda e passionale fino all'ossessione è la direzione della sua vita (anche se, come ho scritto sopra,dal punto di vista dello stile, è evidente l'influsso del primo Ungaretti e dell'ermetismo, del gusto neorealista nel dopoguerra, ma anche talvolta di una passione espressionista e di una sensibilità esistenzialista). Ogni suo scritto rimanda a un esame della relazione interpersonale fra Dio e l'uomo. Turoldo diventa quindi, anche nei suoi versi, salmista, predicatore, poeta, uomo infatuato dal divino, lucido teologo, mistico, appassionati difensore dei poveri, coscienza critica dell'ingiustizia e dell' "Epulone".
Il verso di questo poeta è pertanto, in prima istanza, popolare, perché semplice nel linguaggio, immediato nella metrica, breve nel fraseggio, denso di significati e simbolismi. Anche se talvolta sembri che la poesia venga usata solo come forma per esprimere concetti teologici, in realtà la carica di sentimento, di incontenibile passione per Dio e l'uomo e l'emozione con cui vengono usate le figure retoriche, lo salva ampiamente dal pericolo di "fare della teologia" o, peggio, "predicare" usando il linguaggio della poesia. Nel leggere Turoldo bisogna essere consapevoli di questo trabocchetto che è anche un luogo comune - che il linguaggio mistico e religioso sia per forza di cose antitetico alla poesia: in effetti è vero che non è facile scrivere poesie su argomenti religiosi, ma nel caso di Turoldo la religione si fa poesia e la poesia si fa religione in un unico, straordinario linguaggio. Scrive ancora Zanzotto: "Anche di questo conflitto riappare lungo tutta l'opera di Turoldo la più sottile e tormentata consapevolezza. Una possibile valutazione in un certo senso limitativa… del poeta Turoldo, viene quindi immediatamente a cadere, data la potente "capacità inclusiva" dell'atto poetico in generale e del suo in particolare". È difficile trovare un verso più appassionato, più carico di sentimento e di emozioni, di eros &endash; neppur così sublimato - in tutto il nostro novecento letterario. La carne, il sangue, gridano assieme allo spirito, con tutto l'uomo, in questi versi.
Ma l'opera di Turoldo merita un particolare sguardo anche dal punto di vista filosofico. Non bisogna infatti dimenticare che la sua formazione culturale è teologica e filosofica: si laurea infatti in filosofia all'Università Cattolica di Milano e per un certo periodo è assistente di Bontadini all'Università di Urbino. Ma questo aspetto forse non è coscientizzato nella poesia di Turoldo, non è presente come obiettivo esplicito, ma come disciolto nell'orizzonte entro il quale i suoi temi si intessono e raccontano il nostro tempo. Egli può dunque essere considerato il poeta del Nulla, come sottolinea Luciano Erba, oltre che dell'Essere. Il Nulla opposto all'Essere è il grande Tema che da Nietzsche in poi appassiona la filosofia occidentale: l'angoscia dell'uomo è infatti angoscia del Nulla, del non-senso, del relativo che scardina ogni certezza e consegna lo spirito e la mente al caos dell'insignificanza. Turoldo affronta da poeta questo argomento non tanto con intento "speculativo" ma perché, da mistico, lo sente sulla propria pelle. La lotta contro il Nulla si risolve nella costante riaffermazione dell'Essere, che è emozione poetica prima ancora che certezza religiosa o slancio mistico. Scrive Erba: "Vi è una simbologia, una topografia addirittura, del Nulla… col risultato che l'immagine, proprio perché tale, finisce col mettersi al servizio dell'Essere che voleva negare". E questa scoperta emotiva non ha neppure bisogno di una certezza di questo Essere: poco importa se Egli sia certezza mentale o reale, "se tale presenza verbale non sia poi la vera, la sola Presenza, il Vivente che fa muovere tutte le cose, il Verbo. Quand'anche Dio non fosse che una consonante: "e neppure quella"". Più che l'influsso della filosofia heideggeriana o degli esistenzialisti cristiani, troviamo qui l'influsso di Meister Eckhart e della scolastica. O anche del Cusano.
L'opera di David Maria Turoldo potrebbe essere anche considerata, dal punto di vista formale, come un lunghissimo libro diviso in libri più brevi (a parte le ultime due raccolte che, come osserva acutamente Amedeo Giacomini, rappresentano "due vette letterariamente mai raggiunte all'interno della prolifica e spesso discontinua opera poetica" dell'autore). Pur nella discontinuità infatti, pochissime sono le differenze di tono e forse anche di stile fra le prime poesie e le ultime, e le più importanti tematiche sono presenti in ogni opera. Turoldo individua quasi da subito il "suo" stile vi rimane fedele; servendosene come strumento per costruire questo dialogo religioso (che non è solo misticismo ma attenta riflessione sulla vita culturale e sociale). Ed è una scrittura, immediata, viva, densa di rimandi e riprese delle Sacre Scritture (talvolta non solo come semplice allusione ma anche come esplicito richiamo intertestuale, come in Pianto della figlia di Iefte, Canto di Ruth, Mulieres nolite flere, ecc.), appunto perché venga usata anche da altri come uno strumento di meditazione e di ascesi. Dunque, un poeta che certo non ha l'ossessione dei perfezionismi, dei virtuosismi, ma punta sempre ai contenuti (dal carattere, quindi, concreto), usando un linguaggio fortemente allusivo, denso di simboli e archetipi che colpiscono per la loro pregnanza e lo spessore dei sentimenti evocati, ma nello stesso tempo comprensibile a tutti. Scrive a questo proposito Giudici: "… la sua opera si destina oggettivamente a un pubblico assai più vasto che il pur eletto "pubblico della poesia"". Se volessimo condensare in poche parole la sua poesia dovremmo dire: passione e insieme serenità, ricerca del silenzio per trovarvi la dimensione della trascendenza, abbandono di ogni velleità dell'Io e annullamento in Dio, sguardo fisso nel Nulla per evocare l'inesauribilità dell'Essere, e una immensa carità (agàpe) per l'uomo: "per me la poesia è lo stesso che continuare a pregare, a vivere, a respirare". E, come afferma in un'intervista, "quando si inizia con una preghiera e si finisce con una preghiera, si può cantare tutti i drammi del mondo".
E NON CHIEDERE NULLA

Ora invece la terra
si fa sempre più orrenda:

il tempo è malato
i fanciulli non giocano più
le ragazze non hanno
più occhi
che splendono a sera.

E anche gli amori
non si cantano più,
le speranze non hanno più voce,
i morti doppiamente morti
al freddo di queste liturgie:

ognuno torna alla sua casa
sempre più solo.

Tempo è di tornare poveri
per ritrovare il sapore del pane,
per reggere alla luce del sole
per varcare sereni la notte
e cantare la sete della cerva.
E la gente, l'umile gente
abbia ancora chi l'ascolta,
e trovino udienza le preghiere.

E non chiedere nulla.
Ancora un'alba sul mondo:
altra luce, un giorno
mai vissuto da nessuno,
ancora qualcuno è nato:
con occhi e mani
e sorride.


Tutto deve ancora avvenire
nella pienezza:
storia è profezia
sempre imperfetta.

Guerra è appena il male in superficie
il grande Male è prima,

il grande Male
è Amore-del-nulla.


E i torturati
in grumi neri
inutilmente
urlano.


Perdona le chiese, i preti
prima fra tutti:
dei filosofi non cancellare il nome
dalla tua anagrafe.


Per favore, non rubatemi
la mia serenità.

E la gioia che nessun tempio
ti contiene,
o nessuna chiesa
t'incatena:

Cristo sparpagliato
per tutta la terra,
Dio vestito di umanità:

Cristo sei nell'ultimo di tutti
come nel più vero tabernacolo:

Cristo dei pubblicani,
delle osterie dei postriboli,
il tuo nome è colui
che-fiorisce-sotto-il-sole.


Solo parole, o papa:
parole, e di contro
la irreparabile morte
della Parola.

Le chiese, un frastuono
gli uomini sempre
più soli
e inutili.

E il cielo è vuoto:
Dio ancor più che morto
assente!

domenica 20 gennaio 2008

Socialismo liberale: ossimoro o tautologia.

di Vittorio Valenza
I casi sono due: o si accosta ad una parola un’altra parola di senso contrario, oppure l’aggettivo ripete il concetto già contenuto nel sostantivo.
Da qualche tempo, sono tornati in uso gli appellativi di “socialismo liberale”, di “liberalsocialismo” e, perché no?, di “liberalismo sociale”. La cosa non è di quelle destinate a togliere il sonno al popolo e forse non merita neanche di essere sottolineata. Tuttavia, poiché, come sostiene un autorevole storico delle dottrine politiche, George Lichtheim, “la scelta della terminologia politica non è mai accidentale”, ma evidenzia “un modo nuovo di guardare il mondo” e tende “a creare forme di vita sociale”; forse è importante, per quanto ne siamo capaci, approfondire la questione. Norberto Bobbio scrive che “liberalismo” e “socialismo”, “sono storicamente considerati due termini antitetici”, tanto che “tutta la storia del pensiero politico dell’Ottocento, e in parte anche del Novecento, potrebbe essere raccontata come la storia del contrasto tra liberalismo e socialismo.” Il mettere insieme i due termini darebbe, quindi, vita a un “ossimoro”, cioè al procedimento retorico che consiste nell’accostare due parole di senso contrario. “Socialismo liberale” sarebbe, pertanto, una contraddizione in termini. Tuttavia, la critica che il socialismo rivolge alla dottrina liberale non è indirizzata, come quella dei reazionari o dei totalitari, contro i principi, i valori e i fondamenti del liberalismo. Per esempio, i socialisti non hanno mai messo in discussione la libertà di pensiero, di parola, d’associazione, di voto, e così via. Né i socialisti hanno mai contestato il principio d’isonomia, cioè l’eguaglianza di fronte alla legge. Neanche hanno mai inteso confutare quelli che sono i fondamenti del liberalismo: l’empirismo, l’anti-innatismo, cioè l’educazionismo, il contrattualismo sociale e la sovranità popolare. Anzi, il socialismo nasce proprio per dare concreta e universale realizzazione al progetto liberale. Come scrive Norberto Bobbio, “il socialismo fu concepito come un naturale sviluppo storico del liberalismo nel processo di emancipazione dell’umanità.” L’imputazione che il socialismo muove al liberalismo è, quindi, quella d’inadempienza: la mancata attuazione di qualcosa da parte di chi vi si dice impegnato. Che valore possono, infatti, avere le cosiddette “libertà di” (la libertà di religione, di parola, di stampa, di associazione, di partecipazione al potere politico, di iniziativa economica e così via), quando non sono supportate dalle “libertà da” e cioè la libertà dal bisogno, dall’incertezza per il domani, dall’ignoranza? Nello stato liberale, gli individui sono uguali davanti alla legge, ma sensibile e stridente rimane l’ineguaglianza economica e sociale. Anzi, quest’ultima rischia di vanificare la prima. Citiamo Carlo Rosselli: “Dice il socialismo: l’astratto riconoscimento della libertà di coscienza e delle libertà politiche a tutti gli uomini, se rappresenta un momento essenziale nello sviluppo della teoria politica, ha un valore ben relativo quando la maggioranza degli uomini, per condizioni intrinseche e ambientali, per miseria morale e materiale, non sia posta in grado di apprezzarne il significato e di valersene concretamente. La libertà non accompagnata e sorretta da un minimo di autonomia economica, dalla emancipazione dal morso dei bisogni essenziali, non esiste per l’individuo, è un mero fantasma. L’individuo in tal caso è schiavo della sua miseria, umiliato dalla sua soggezione; […]. Libero di diritto, è servo di fatto.” La critica socialista del liberalismo s’innesta, pertanto, in quelle contraddizioni che impediscono al liberalismo stesso di tener fede alle sue promesse. Per esempio, l’incoerenza tra i principi d’isonomia e di sovranità popolare con la pratica delle discriminazioni elettorali. Oppure la contraddizione tra la proclamata libertà d’associazione e la pratica delle leggi antisindacali sul modello della celebre “legge Le Châtelier”, che proibiva le associazioni operaie in quanto lesive della libera concorrenza e della cosiddetta “libertà di contratto”. La quale “libertà di contratto” evidenzia, peraltro, un’altra contraddizione. Infatti, il rapporto che fa entrare il “prestatore d’opera” nella produzione non è un contratto con mezzi di produzione, ma con chi li detiene, cioè con il capitalista. Questo rapporto prende la forma giuridica di un “libero contratto” che fissa le condizioni del lavoro: il salario, il tempo di lavoro e così via. I contraenti figurano come “due persone giuridiche sullo stesso piano” ma l’uno dispone di danaro, l’altro soltanto della sua forza di lavoro. La “libertà di contratto” nasconde, in realtà, la più completa disuguaglianza se non la più assoluta costrizione. Se non esce da questo schema, il “prestatore d’opera” può usufruire tutt’al più della libertà di morire di fame. Non si pensi che questi esempi appartengano a un lontano quanto non riproponibile passato. Ancora oggi fanno scuola le parole di uno dei più autorevoli pensatori liberali, Friedrich von Hayek: “Il campo in cui la mancata applicazione dei principi liberali ha comportato lo sviluppo di impedimenti sempre maggiori per il funzionamento del sistema di mercato è quello del monopolio del lavoro organizzato, ovvero i sindacati. […] Questa posizione dei sindacati operai, appunto, ha reso largamente inoperante in materia di determinazione dei salari il meccanismo di mercato ed è più che dubbio che un’economia di mercato possa continuare a sussistere quando la determinazione concorrenziale dei prezzi non vale anche per i salari.” Come si concilia questa realtà con il principio formulato dalla dottrina liberale secondo il quale la libertà può essere realizzata soltanto se, come afferma la famosa formula di Emanuele Kant, la libertà di ciascuno non va oltre ciò che è compatibile con una eguale libertà per tutti gli altri. Semplicemente, non si concilia. Gli effetti pratici del liberalismo tendono, infatti, a dar vita a forme di oppressione e di schiavitù di massa. Con il riservare le proprie conquiste a pochi, il liberalismo contraddice sé stesso. Si giunge così all’antinomia per eccellenza. Come sottolinea un più che autorevole storico del pensiero liberale, Guido De Ruggiero, per il liberalismo “la proprietà è un diritto naturale dell’individuo ” . Senza la proprietà ogni indipendenza o autonomia dell’individuo sarebbe resa del tutto vana: “Solo in quanto proprietario, egli è sufficiente a sé stesso e può resistere a tutte le invadenze degli altri individui e dello stato.” Questa legittimazione della proprietà, che ha un posto d’onore in tutte le dichiarazioni dei diritti dell’uomo, è comune a tutti i liberali. È rimasta immutata per più di trecento anni, da John Locke a Robert Nozick. Ma, usiamo sempre le parole di De Ruggiero, proprio da questa concezione “derivano alcune imprevedibili conseguenze, che l’intaccano alla base. Se la proprietà è essenziale allo spiegamento della libertà naturale dell’uomo, ciò vuol dire che non alcuni uomini soltanto debbono goderne come di un odioso privilegio, ma che tutti gli uomini debbono essere proprietari.” La contraddizione è più che evidente. Da un lato, la libertà dei liberali presuppone la proprietà, dall’altro, la pratica del liberalismo economico tende a negare la proprietà (e, quindi, la libertà) alla maggior parte degli individui. Infatti, benché i fondatori della teoria liberale, sostenessero che il motore della natura umana, l’amor di sé, può essere indirizzato in modo tale da promuovere, mediante quegli stessi sforzi che compie nel proprio interesse, l’interesse pubblico; si è dimostrato che gli effetti pratici del liberalismo, lasciato a sé stesso, contraddicono i principi del liberalismo stesso. La disuguaglianza, pur non essendo connaturata in senso stretto all’uomo, si sviluppa però inesorabilmente quando gli individui e le forze sociali entrano in concorrenza tra di loro. Come sintetizza Nicola Tranfaglia: il liberalismo, “favorisce la permanenza e l’accrescersi delle situazioni di privilegio e di disuguaglianza presenti nell’ordine capitalistico.” Parafrasando una celebre frase di Karl Marx, possiamo dire che là dove lo stato liberale raggiunge la sua vera fioritura, l’uomo conduce una vita doppia, per così dire “una vita celeste ed una vita terrestre”: la vita nella comunità politica e quella nella società civile. La prima nel regno dell’uguaglianza formale, la seconda nell’ineguaglianza reale. Per far sì che la libertà, diventi patrimonio di tutti, il “dogma” a cui il liberalismo deve rinunciare è, per i socialisti di tutte le scuole, il liberismo con la sua mitica parola d’ordine: “laissez faire, laizzez passer” (lasciar fare, lasciar correre). Non si esce, quindi, dall’ossimoro a meno di non espungere dal liberalismo il liberismo economico. Questa realtà non sfuggì nemmeno a quei liberali, come, per esempio, a John Stuart Mill o a Leonard Trelawney Hobhouse che diedero vita a un liberalismo socialisteggiante. Infatti, come spiega Friedrich von Hayek, per dare una risposta alla questione sociale, il liberalismo dei seguaci di Mill “rinunciò al dogma del non intervento dello Stato nella vita economica e sociale”, a cominciare dalla scuola. “Insomma, il pensiero liberale sperò almeno di poter ridurre le barriere sociali che vincolavano gli individui alla loro classe di origine, fornendo certi servizi a coloro che non erano ancora in grado di procurarseli da soli.” Se poniamo, quindi, una più che seria ipoteca sul liberismo, la formula “socialismo liberale” non dà più luogo a un ossimoro. In compenso, diventa, però, una tautologia. Infatti, se, come scrive Carlo Rosselli, “il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà”; allora dire “socialismo liberale” risulta, quantomeno, ridondante. È una sovrabbondanza e, come tutte le sovrabbondanze, è inutile: “frustra fit per plura quod potest fieri per pauciora” (è inutile fare con molti quel che si può fare con pochi). Pertanto, noi concordiamo con Ralf Dahrendorf: ci è sufficiente l’appellativo “socialista” e riteniamo che “la posizione di ciascuno vada definita soprattutto attraverso le azioni che compie.