lunedì 31 dicembre 2007

Fra incanto e furore.

di Dario Bellezza

I rapporti con i contemporanei, si sa, sono sempre difficili. Quanto più facile amare i morti, che si lasciano docilmente amare, privi ormai della loro miserabile corporeità, lontana e misteriosa perché imperscrutabile la loro quotidianità! Non sappiamo come si muovevano, che cosa dicevano lontano dalla scena del mondo, mentre guardavano un fiore dentro un vaso, o cercavano una saponetta da uno speziale per una loro irritazione alla pelle. Quando avranno capito che la partita era persa, e la luce una volta intravista, forse luce d'infanzia, non ci sarebbe stata mai più, forse filtrata da un salotto buio dove la luce rincuorava i normali alla vita! Sono quelli gli attimi che sempre ci sfuggiranno dei morti, e solo le opere, per loro fortuna, ci parlano di loro. Non così i vivi, destinati al logorio incessante dei giorni prima di eternarsi in un esilio duraturo che nessuno potrà rompere. Occhi indiscreti possono spogliare di colpo un corpo umano e metterlo alla gogna, deridere un'anima sensibile con una parola spesa male, con indecenza e cattiveria, e tanto basta a me per non voler proferire parola su una scrittrice per la quale tutta la teoria dei vari aggettivi che la critica in genere spende a iosa nelle recensioni settimanali, o il carosello dei premi letterari, «sublime», «altissima» ecc... sono inadeguati e non raggiungono la vera «verità».La scrittrice è Anna Maria Ortese, ed io poche volte nella mia vita ho avuto il senso della grandezza umana, che poi è quella che ci importa in un vivo, perché per le opere si pronunceranno i posteri, se ormai posteri ci saranno, in questa epoca atomica, come davanti, dicevo, a questa umile, esile ma gloriosa e virile donna.Pur avendo conosciuto e frequentato Palazzeschi, e Jean Gênet, Sandro Penna e Elsa Morante, Pasolini e Borges, devo dire che nessuno, a me, mi stimolò una forza morale così proverbiale e mitica alla distanza come la Ortese. E questo è un punto a suo merito, almeno per me. In un mondo scisso e disgregato la Ortese brilla nel suo cielo d'ansia, pura e inavvicinabile, destriero ferito che dalla vita non ha avuto nulla.La conobbi quando ero già preciso, formato: non subivo più, conformisticamente, alcun influsso letterario, ero libero e limpido nel giudizio. Anzi, all'inizio, la lessi con un po' di distrazione: altri erano i miei amori, altra la mia sensibilità, fragile e malata, verso il mondo. Avevo già il mio Olimpo letterario, con tutti i valori a posto, da Proust aLeopardi, a Gadda a Kavafis, perché potesse ormai trovarci posto alcunché. La conobbi in una cena, dove ricordo c'era anche Moravia, e lei era certo come me l'avevano descritta, avanti con gli anni ma bella, minuziosamente spagnolesca, circonfusi da un carisma: santa, innocente. Non aveva nessuna importanza il suo aspetto fisico: la Ortese fu subito una Voce, anzi la Voce, divina, melodiosa, inafferrabile, greca. Forse bisogna conoscere certi scrittori per capire la loro grandezza, e qui sembro quasi contraddirmi con l'assunto iniziale. Certo è che ripensando alla sua opera che conoscevo poco e male, e rileggendola fino al suo ultimo libro Il porto di Toledo, non solo afferrai la sua grandezza, capii la grandezza, ma riconobbi in una scrittrice poco frequentata dalla critica, e snobbata dai circoli più idiotamente intellettuali che si fanno travolgere da tutti gli «ismi» contemporanei senza sapere mettere un centro al loro abbietto modo di guardare il mondo, fra pettegolezzo e mondanità, riconobbi appunto il massimo di capacità sperimentale che uno scrittore avesse perseguito in Italia, anche andando contro corrente e con il rischio di non vendere una copia dei suoi libri. Perché le ragioni della Ortese sono puramente espressive, e non puntano alla cassetta. In altri anni la sua presenza sul prestigioso «Il Mondo» di Pannunzio testimoniava non solo l'amore per la cultura di quel gruppo liberale, ma anche la possibilità di poter pubblicare racconti, anche lunghi, che oggi l'industria culturale ha distrutto riducendo le pagine culturali, le famose terze pagine, valga per tutti quella di «La Repubblica» ad un'accozzaglia di articoli femministi o sociologici, dove però, tranne qualche nome troppo celebre come Landolfi o Moravia, nessuno più può fare della buona letteratura. Oggi infatti non ci sono più scrittori di racconti. Da Angelici dolori pubblicato da Bompiani nel 1937 e presentato da Bontempelli (da cui le venne, all'Ortese, l'equivoco di ascriverla fra i continuatori del realismo magico) fino al Porto di Toledo, anche nel filone più intimista e neorealistico della scrittrice e che riguarda i racconti sceneggiati a Napoli e a Milano, è la novità tematica e strutturale che rende quei suoi racconti e i suoi esigui romanzi non solo interessanti e nuovi, ma li sottrae ai vizi letterari del tempo che uscirono, fra poetica della memoria e neorealismo.
La Ortese non ha mi sfruttato il suo pur vasto mondo poetico, nel senso dell'asfittica ripetizione dei temi. Per lei scrivere è un atto religioso, irripetibile, trasumanante e accecante, che si confronta con il sacro e il diverso e va nel cuore del reale. Poteva fare di Napoli, città immensamente teatrale, ombelico e oriente del mondo, in cui ha vissuto per anni e che dà titolo al suo libro più fortunato, Il mare non bagna Napoli, un teatrino continuo e di successo (tipo Marotta ed Eduardo) e invece subito Napoli è sparita dai suoi interessi, sostituita da Milano, per riapparire, città di sogno, ispanica, terribile, leggendaria e mortuaria nel suo romanzo più angelico e infernale, summa di tutte le sue maniere narrative, Il porto di Toledo. Solo la cecità di critici frettolosi nel catalogare i libri di stagione ha permesso di rimuovere questo libro fondamentale e totale, pur con le sue sbandate di struttura e alcune arditezze stilistiche che la Ortese si è presa più per capriccio o per una scommessa giocata con il caso, che non sempre è casuale, ma come preordinato da forze ignote. Un libro che è un viaggio nel tempo mistico della sua distruzione, dove l'immagine umana è quasi cancellata in un pulviscolo memorabile di flusso emotivo che rasenta, nella sua ardua spiritualità, le vette del grande misticismo teresiano. Il libro è disseminato dentro l'inferno della memoria, del vissuto: è anche per la forma scelta - misto di prosa e versi, prose a commento di poesia e racconti di anni andatissimi - un romanzo di formazione, uno dei pochi libri anche rimbaudiani scritti da un italiano. Infatti la sua struttura ricorda Una stagione all'inferno passata attraverso la grazia disorganica di un Apollinaire, anche se i nomi in genere che vengono fatti per la Ortese novellista sono la Mansfield, Cecov e Poe. Libro anche attentamente paranoico, di una moderna paranoia nel disegnare un ritratto in piedi di ragazzina volante e poeta che persegue, sopra ogni cosa la poesia vista come restitutrice di realtà in un mondo ottenebrato, infetto dall'Irrealtà. La Damasa del Porto di Toledo ritorna all'hidalgo Hilario, il ragazzino poeta di cui è innamorata l'Iguanuccia e che provoca tutta la trama dell'Iguana.Ma la Ortese anche quando si è cimentata con il romanzo, e stupendamente, resta, appunto una scrittrice di racconti, e il suo racconto più illuminato rimane l'Iguana per il quale unica parola accessibile agli umani è: capolavoro. Si tratta di un racconto, o breve romanzo che non ha termini di confronto nella narrativa contemporanea. Adombra nella povera storia dell'Iguana e del suo innamorato Aleardo milanese che se ne va a morire nell'isola maledetta di Ocaña non solo la polemica stringente e apocalittica che la Ortese intrattiene con il suo tempo (e che per la scelta esistenziale della povertà come unico termine di paragone umano contro la nuova barbarie la avvicina al Pasolini corsaro, ma con più purezza e platonico disinteresse verso il mondo) ma tutta una visione del mondo piagata da un farsi narrativo che nell'ironia e nella favola trova la più grande e vivida realtà della vita, dimenticata, calpestata e nascosta. Nella polemica fra natura e cultura la Ortese ci dà in regalo questo essere mostruoso, mezzo umano e mezzo animale, che sa soffrire e piangere come in un'infanzia smarrita la certezza di un bene inarrivabile anche se qualcuno pensasse di attribuirsi il Male. In una rosa che diventa girasole per mancanza d'acqua, come si racconta nell'Iguana (di cui non anticiperò la vera storia, considerati gli accenni già fatti per non togliere al lettore il piacere della lettura mossa e avvincente) tutta la violenta rivolta di una donna braccata e calpestata da un mondo che guarda in faccia solo chi vince, distruggendo tutto il resto.Dalla parte della non-storia, della semplicità, della bontà, nell'Estrellita, la Perdita che metaforizza per gli umani il Male, il Demonio, la oscurità viscerale dell'Inconscio non solo la Ortese ci dà a tutto tondo una metafora di se stessa, ma un Personaggio inedito che nella favola moderna si atteggia beckettianamente nella spazzatura, giocando con dei sassi simbolo del dio denaro, ma per accedere ai più insondabili misteri della vita e dell'amore. Perché il messaggio della Ortese, combattuto fra pietà cristiana e laica ragione non sta solo nella condanna del mondo, ma nella sua non accettazione funesta una volta che coloro che lo reggono sappiano che lo stanno distruggendo. Anche una povera isola deve vedere nella ragione l'unico porto per portarsi a salvamento. Favola politica, dunque, e non sarà mai apprezzata però sotto la durezza della richiesta metafisica e le spiegazioni inattuali e «cristiane» che la Ortese dà di continuo. Così per non continuare a parafrasare un testo che spiega da sé i suoi misteri riporto qui, di seguito, un'intervista «esemplare» scritta di pugno dalla Ortese che può darci al di là delle convenzioni critiche un autoritratto di Anna Maria Ortese anno 1978, sospesa fra incanto e lucido furore.

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