lunedì 31 dicembre 2007

Fra incanto e furore.

di Dario Bellezza

I rapporti con i contemporanei, si sa, sono sempre difficili. Quanto più facile amare i morti, che si lasciano docilmente amare, privi ormai della loro miserabile corporeità, lontana e misteriosa perché imperscrutabile la loro quotidianità! Non sappiamo come si muovevano, che cosa dicevano lontano dalla scena del mondo, mentre guardavano un fiore dentro un vaso, o cercavano una saponetta da uno speziale per una loro irritazione alla pelle. Quando avranno capito che la partita era persa, e la luce una volta intravista, forse luce d'infanzia, non ci sarebbe stata mai più, forse filtrata da un salotto buio dove la luce rincuorava i normali alla vita! Sono quelli gli attimi che sempre ci sfuggiranno dei morti, e solo le opere, per loro fortuna, ci parlano di loro. Non così i vivi, destinati al logorio incessante dei giorni prima di eternarsi in un esilio duraturo che nessuno potrà rompere. Occhi indiscreti possono spogliare di colpo un corpo umano e metterlo alla gogna, deridere un'anima sensibile con una parola spesa male, con indecenza e cattiveria, e tanto basta a me per non voler proferire parola su una scrittrice per la quale tutta la teoria dei vari aggettivi che la critica in genere spende a iosa nelle recensioni settimanali, o il carosello dei premi letterari, «sublime», «altissima» ecc... sono inadeguati e non raggiungono la vera «verità».La scrittrice è Anna Maria Ortese, ed io poche volte nella mia vita ho avuto il senso della grandezza umana, che poi è quella che ci importa in un vivo, perché per le opere si pronunceranno i posteri, se ormai posteri ci saranno, in questa epoca atomica, come davanti, dicevo, a questa umile, esile ma gloriosa e virile donna.Pur avendo conosciuto e frequentato Palazzeschi, e Jean Gênet, Sandro Penna e Elsa Morante, Pasolini e Borges, devo dire che nessuno, a me, mi stimolò una forza morale così proverbiale e mitica alla distanza come la Ortese. E questo è un punto a suo merito, almeno per me. In un mondo scisso e disgregato la Ortese brilla nel suo cielo d'ansia, pura e inavvicinabile, destriero ferito che dalla vita non ha avuto nulla.La conobbi quando ero già preciso, formato: non subivo più, conformisticamente, alcun influsso letterario, ero libero e limpido nel giudizio. Anzi, all'inizio, la lessi con un po' di distrazione: altri erano i miei amori, altra la mia sensibilità, fragile e malata, verso il mondo. Avevo già il mio Olimpo letterario, con tutti i valori a posto, da Proust aLeopardi, a Gadda a Kavafis, perché potesse ormai trovarci posto alcunché. La conobbi in una cena, dove ricordo c'era anche Moravia, e lei era certo come me l'avevano descritta, avanti con gli anni ma bella, minuziosamente spagnolesca, circonfusi da un carisma: santa, innocente. Non aveva nessuna importanza il suo aspetto fisico: la Ortese fu subito una Voce, anzi la Voce, divina, melodiosa, inafferrabile, greca. Forse bisogna conoscere certi scrittori per capire la loro grandezza, e qui sembro quasi contraddirmi con l'assunto iniziale. Certo è che ripensando alla sua opera che conoscevo poco e male, e rileggendola fino al suo ultimo libro Il porto di Toledo, non solo afferrai la sua grandezza, capii la grandezza, ma riconobbi in una scrittrice poco frequentata dalla critica, e snobbata dai circoli più idiotamente intellettuali che si fanno travolgere da tutti gli «ismi» contemporanei senza sapere mettere un centro al loro abbietto modo di guardare il mondo, fra pettegolezzo e mondanità, riconobbi appunto il massimo di capacità sperimentale che uno scrittore avesse perseguito in Italia, anche andando contro corrente e con il rischio di non vendere una copia dei suoi libri. Perché le ragioni della Ortese sono puramente espressive, e non puntano alla cassetta. In altri anni la sua presenza sul prestigioso «Il Mondo» di Pannunzio testimoniava non solo l'amore per la cultura di quel gruppo liberale, ma anche la possibilità di poter pubblicare racconti, anche lunghi, che oggi l'industria culturale ha distrutto riducendo le pagine culturali, le famose terze pagine, valga per tutti quella di «La Repubblica» ad un'accozzaglia di articoli femministi o sociologici, dove però, tranne qualche nome troppo celebre come Landolfi o Moravia, nessuno più può fare della buona letteratura. Oggi infatti non ci sono più scrittori di racconti. Da Angelici dolori pubblicato da Bompiani nel 1937 e presentato da Bontempelli (da cui le venne, all'Ortese, l'equivoco di ascriverla fra i continuatori del realismo magico) fino al Porto di Toledo, anche nel filone più intimista e neorealistico della scrittrice e che riguarda i racconti sceneggiati a Napoli e a Milano, è la novità tematica e strutturale che rende quei suoi racconti e i suoi esigui romanzi non solo interessanti e nuovi, ma li sottrae ai vizi letterari del tempo che uscirono, fra poetica della memoria e neorealismo.
La Ortese non ha mi sfruttato il suo pur vasto mondo poetico, nel senso dell'asfittica ripetizione dei temi. Per lei scrivere è un atto religioso, irripetibile, trasumanante e accecante, che si confronta con il sacro e il diverso e va nel cuore del reale. Poteva fare di Napoli, città immensamente teatrale, ombelico e oriente del mondo, in cui ha vissuto per anni e che dà titolo al suo libro più fortunato, Il mare non bagna Napoli, un teatrino continuo e di successo (tipo Marotta ed Eduardo) e invece subito Napoli è sparita dai suoi interessi, sostituita da Milano, per riapparire, città di sogno, ispanica, terribile, leggendaria e mortuaria nel suo romanzo più angelico e infernale, summa di tutte le sue maniere narrative, Il porto di Toledo. Solo la cecità di critici frettolosi nel catalogare i libri di stagione ha permesso di rimuovere questo libro fondamentale e totale, pur con le sue sbandate di struttura e alcune arditezze stilistiche che la Ortese si è presa più per capriccio o per una scommessa giocata con il caso, che non sempre è casuale, ma come preordinato da forze ignote. Un libro che è un viaggio nel tempo mistico della sua distruzione, dove l'immagine umana è quasi cancellata in un pulviscolo memorabile di flusso emotivo che rasenta, nella sua ardua spiritualità, le vette del grande misticismo teresiano. Il libro è disseminato dentro l'inferno della memoria, del vissuto: è anche per la forma scelta - misto di prosa e versi, prose a commento di poesia e racconti di anni andatissimi - un romanzo di formazione, uno dei pochi libri anche rimbaudiani scritti da un italiano. Infatti la sua struttura ricorda Una stagione all'inferno passata attraverso la grazia disorganica di un Apollinaire, anche se i nomi in genere che vengono fatti per la Ortese novellista sono la Mansfield, Cecov e Poe. Libro anche attentamente paranoico, di una moderna paranoia nel disegnare un ritratto in piedi di ragazzina volante e poeta che persegue, sopra ogni cosa la poesia vista come restitutrice di realtà in un mondo ottenebrato, infetto dall'Irrealtà. La Damasa del Porto di Toledo ritorna all'hidalgo Hilario, il ragazzino poeta di cui è innamorata l'Iguanuccia e che provoca tutta la trama dell'Iguana.Ma la Ortese anche quando si è cimentata con il romanzo, e stupendamente, resta, appunto una scrittrice di racconti, e il suo racconto più illuminato rimane l'Iguana per il quale unica parola accessibile agli umani è: capolavoro. Si tratta di un racconto, o breve romanzo che non ha termini di confronto nella narrativa contemporanea. Adombra nella povera storia dell'Iguana e del suo innamorato Aleardo milanese che se ne va a morire nell'isola maledetta di Ocaña non solo la polemica stringente e apocalittica che la Ortese intrattiene con il suo tempo (e che per la scelta esistenziale della povertà come unico termine di paragone umano contro la nuova barbarie la avvicina al Pasolini corsaro, ma con più purezza e platonico disinteresse verso il mondo) ma tutta una visione del mondo piagata da un farsi narrativo che nell'ironia e nella favola trova la più grande e vivida realtà della vita, dimenticata, calpestata e nascosta. Nella polemica fra natura e cultura la Ortese ci dà in regalo questo essere mostruoso, mezzo umano e mezzo animale, che sa soffrire e piangere come in un'infanzia smarrita la certezza di un bene inarrivabile anche se qualcuno pensasse di attribuirsi il Male. In una rosa che diventa girasole per mancanza d'acqua, come si racconta nell'Iguana (di cui non anticiperò la vera storia, considerati gli accenni già fatti per non togliere al lettore il piacere della lettura mossa e avvincente) tutta la violenta rivolta di una donna braccata e calpestata da un mondo che guarda in faccia solo chi vince, distruggendo tutto il resto.Dalla parte della non-storia, della semplicità, della bontà, nell'Estrellita, la Perdita che metaforizza per gli umani il Male, il Demonio, la oscurità viscerale dell'Inconscio non solo la Ortese ci dà a tutto tondo una metafora di se stessa, ma un Personaggio inedito che nella favola moderna si atteggia beckettianamente nella spazzatura, giocando con dei sassi simbolo del dio denaro, ma per accedere ai più insondabili misteri della vita e dell'amore. Perché il messaggio della Ortese, combattuto fra pietà cristiana e laica ragione non sta solo nella condanna del mondo, ma nella sua non accettazione funesta una volta che coloro che lo reggono sappiano che lo stanno distruggendo. Anche una povera isola deve vedere nella ragione l'unico porto per portarsi a salvamento. Favola politica, dunque, e non sarà mai apprezzata però sotto la durezza della richiesta metafisica e le spiegazioni inattuali e «cristiane» che la Ortese dà di continuo. Così per non continuare a parafrasare un testo che spiega da sé i suoi misteri riporto qui, di seguito, un'intervista «esemplare» scritta di pugno dalla Ortese che può darci al di là delle convenzioni critiche un autoritratto di Anna Maria Ortese anno 1978, sospesa fra incanto e lucido furore.

Danilo Dolci

Dieci adulti su cento a Hiroshima ignorano,
molti più in Giappone –
e quanti al mondo ne trasalgono?
Si è ricostruito muri divisori
di case a caso, una vecchia città
coi poveri e coi ricchi, chinandosi
al modello che ha vinto:
incravattarsi, cocacolizzarsi,
spaghetti e pesci plasticati nelle vetrine,
intimi vibratori per femmine sole,
l'orinatoio sciacqua automatico
fotoelettricamente.
Dove era scoppiato lo sterminio,
in squadrati giardini
posano ignare colombe
all'orlo di vaschette con pesci rossi
e curvi schizzi di fontanelle
presso il museo commemorativo.
La cancrena delle macerie
doveva restare intatta –
gli orologi fusi a segnare le 8,15
quando le carni bruciavano
fondevano alla pelle i vestiti
tegole colavano bottiglie liquide
porcellane antiche evaporavano
ferro torceva come erba
fuoco rodeva le pietre,
e chi alla troppa luce copriva gli occhi
avvampavano le mani.
Intatto doveva restare il Marchio di Little Boy
calcolata con le tecniche più raffinate
a distruggere seminando cancro.
Si è trapiantato nell'erbetta verde
rose spedite dai pietosi di altri paesi
invece di invitare a meditare.
Si è tentato di coprire lo squarcio?
Ma questa era una ferita da tenere nuda.
La terra costa cara?
Altra se ne doveva trovare per costruire.
Costa, viaggiare?
Ma quanto costa la vita?

Danilo Dolci

domenica 30 dicembre 2007

Il primato dei poveri

padre Alex Zanotelli



Pellegrino sulle strade d'Italia, ho letto e riletto un libro: "Vicari di Cristo. I poveri nella teologia e nella spiritualità cristiane" (EDB), a cura del teologo spagnolo González Faus.
Mi ha molto impressionato vedere come la tradizione biblica, o meglio la tradizione mosaico-profetica-gesuana continui per tutti i venti secoli di storia della chiesa: cioè il primato dei poveri. È interessante notare come i papi si siano appropriati dell'appellativo di "vicari di Cristo", mentre i dottori della chiesa lo avevano dato ai poveri: sono i poveri il volto di quel povero Cristo.
"Avido è colui che non si contenta del necessario e ladro è colui che toglie agli altri quanto è loro - diceva Basilio nel IV secolo -. E tu non sei forse avido o ladro, nel momento in cui ti appropri di ciò che ti fu dato soltanto perché tu lo amministrassi? Se diamo il nome di ladro a chi spoglia dei propri abiti uno che è vestito, daremo forse altro nome a chi non veste un ignudo, pur potendolo fare? Il pane che tu tieni per te è quello dell'affamato".
È questa tradizione che dura, costante, con tutte le mediazioni che González Faus ci spiega così bene, fino al Vaticano II. L'ultimo brano di questa antologia stupenda è infatti un testo di padre Ellacuría, ucciso in El Salvador insieme ad altri tre gesuiti, che afferma con molta durezza che "nel Salvador anche l'estrema destra è arrivata nel suo complesso a riconoscere che, nel paese, il problema principale non è la povertà ma la miseria, la quale colpisce più del 60% della popolazione. Questo accade oggi a pochi chilometri da quello che è il cuore stesso del capitalismo internazionale".
E padre Ellacuría chiede "che si vada verso una civiltà della povertà, che si contrapponga a quella civiltà della ricchezza che sta portando il mondo alla propria consunzione senza per altro conseguire lo scopo di dare agli uomini la felicità che loro spetta". Da Basilio a Ellacuría abbiamo una tradizione ininterrotta che mette al centro i poveri e domanda che lo "spezzare il pane" sia il cuore dell'esperienza cristiana. E questo vale per i singoli cristiani come per le comunità e per l'istituzione chiesa.
Ne troviamo una splendida esemplificazione in un testo di sant'Ambrogio, vescovo di Milano e dottore della chiesa, quando parla dei beni della chiesa: "Colui che inviò senza oro gli apostoli (Mt 10,9) fondò anche la chiesa senza oro. La chiesa possiede oro non per tenerlo custodito, ma per distribuirlo e soccorrere i bisognosi. Dunque che bisogno c'è di conservare ciò che, se lo si custodisce, non è in alcun modo utile? Non è forse meglio che i sacerdoti fondano l'oro per il sostentamento dei poveri, piuttosto che di esso si impadroniscano sacrilegamente i nemici? Forse non ci dirà il Signore: Perché avete tollerato che tanti poveri morissero di fame, quando possedevate oro con il quale procurarvi cibo da dare loro? Meglio sarebbe stato conservare i tesori viventi che non i tesori di metallo".
E questo suggerimento di Ambrogio viene ripreso da Giovanni Paolo Il nella Sollicitudo rei socialis, che raccomandava di ritornare a quell'antica pratica.
Proprio in questi giorni mi è capitata tra mano un'inchiesta della Fondazione Tonino Bello su come le diocesi italiane abbiano risposto al suggerimento papale. Lettera morta.
Quando le nostre chiese italiane così cariche di oro e di beni troveranno il coraggio di muovere i primi passi verso questa prassi? Davanti all'immane tragedia dei poveri, le nostre chiese resteranno ancora titubanti? "L'addobbo dei sacramenti è la redenzione, ossia il riacquisto dei prigionieri - scrive Ambrogio -. Vasi autenticamente preziosi sono quelli che servono a redimere gli uomini dalla morte. Tesoro vero è quello che realizza ciò che il Signore operò col proprio sangue".

Ode al primo giorno dell'anno.

Il primo giorno dell'anno porta con sé attese e speranze: con le parole di Neruda il più sentito augurio di vederle realizzate.

Lo distinguiamo dagli altri come se fosse un cavallino diverso da tutti i cavalli. Gli adorniamo la fronte con un nastro, gli posiamo sul collo sonagli colorati, e a mezzanotte lo andiamo a ricevere come se fosse un esploratore che scende da una stella.

Come il pane assomiglia al pane di ieri, come un anello a tutti gli anelli: i giorni sbattono le palpebre chiari, tintinnanti, fuggiaschi, e si appoggiano nella notte oscura.

Vedo l'ultimo giorno di questo anno in una ferrovia, verso le piogge del distante arcipelago violetto, e l'uomo della macchina, complicata come un orologio del cielo, che china gli occhi all'infinito modello delle rotaie, alle brillanti manovelle, ai veloci vincoli del fuoco.

Oh conduttore di treni sboccati verso stazioni nere della notte. Questa fine dell'anno senza donna e senza figli, non è uguale a quello di ieri, a quello di domani?
Dalle vie e dai sentieri il primo giorno, la prima aurora di un anno che comincia, ha lo stesso ossidato colore di treno di ferro: e salutano gli esseri della strada, le vacche, i villaggi, nel vapore dell'alba, senza sapere che si tratta della porta dell'anno, di un giorno scosso da campane, fiorito con piume e garofani.
La terra non lo sa: accoglierà questo giorno dorato, grigio, celeste, lo dispiegherà in colline lo bagnerà con frecce di trasparente pioggia e poi lo avvolgerà nell’ombra.

Eppure piccola porta della speranza, nuovo giorno dell’anno, sebbene tu sia uguale agli altri come i pani a ogni altro pane,ci prepariamo a viverti in altro modo,ci prepariamo a mangiare, a fiorire, a sperare.

Ti metteremo come una torta nella nostra vita, ti infiammeremo come un candelabro, ti berremo come un liquido topazio.
Giorno dell'anno nuovo, giorno elettrico, fresco, tutte le foglie escono verdi dal tronco del tuo tempo. Incoronaci con acqua, con gelsomini aperti, con tutti gli aromi spiegati, sì, benché tu sia solo un giorno, un povero giorno umano, la tua aureola palpita su tanti cuori stanchi e sei, oh giorno nuovo, oh nuvola da venire, pane mai visto, torre permanente!

Pablo Neruda

Carlo Rosselli

Il socialismo liberale
Il saggio sul socialismo liberale rappresenta il momento centrale dell’elaborazione teorica di Carlo Rosselli ed esprime, al contempo, il punto d’arrivo di un complesso travaglio politico – ideologico e quello di partenza per una nuova teorizzazione. Esso rappresenta il momento di maturità di Carlo Rosselli come pensatore politico. Si può affermare che Carlo Rosselli rappresenta il punto di congiunzione tra due diverse esigenze di chiarimento: una, che riguarda il rapporto tra l’espressione organizzata del socialismo ed il grande dibattito sulla funzione del marxismo e l’altra, che investe la generazione socialista più giovane.
Carlo Rosselli si propone con il proprio lavoro di aprire un’indagine teorico – storico – politica della vicenda socialista italiana. “Socialismo liberale” ha, infatti, questa triplice dimensione: teorica, in quanto Rosselli vuole andare a fondo in un’opera di rivisitazione analitica dei principi che hanno ispirato l’azione del socialismo italiano soprattutto considerato alla luce della sconfitta; storica, in quanto Rosselli non si limita ad analizzare le idee ma si interessa ai comportamenti concreti, alle scelte politiche viste in correlazione con gli ideali socialisti e, di conseguenza, con le sue attese pratiche; politica, perché Rosselli è spinto da un interesse molto forte per ricomporre le basi di un’iniziativa socialista nel quadro di una situazione caratterizzata dalla stabilizzazione della dittatura.
Rosselli aveva ben presente il fatto che, per rendere credibile il futuro del socialismo, una volta battuto il fascismo, occorreva innovare fortemente le idee del movimento. Rosselli fissa il suo fine: innovare il pensiero politico socialista. Tale compito si impegna ad assolverlo convinto di un’esigenza di natura superiore; vale a dire della necessità del suo espletamento sia per reinventare un avvenire al movimento socialista sia quale azione propedeutica alla riconquista della libertà perduta.
Carlo Rosselli approda in Francia nel settembre 1929. Il saggio dedicato al “Socialismo liberale” è già stato scritto ed egli ne compendia il significato in un’intervista raccolta dal giornale repubblicano “l’Italia del Popolo”.
Le dichiarazioni di Rosselli hanno un valore indicativo per connotare la cifra ideologica che affida al proprio lavoro. Dice Carlo: <>.E riferendosi in specifico a “Socialismo liberale” sottolinea che il rapporto socialismo e libertà costituisce l’argomento essenziale del mio libro.
Quando Carlo Rosselli intraprende la stesura del “Socialismo liberale” egli sembra essere sollecitato dall’esigenza primaria, di fare chiarezza nelle idee e nella vicenda storica del socialismo. Di fronte al fallimento del socialismo italiano egli si pone come un giovane intellettuale colpito nei propri convincimenti ideali dalle dure repliche della realtà storica ma deciso, tuttavia, a non mollare il terreno della politica e ben determinato nel riannodare, su un terreno nuovo, i fili di un ragionamento che poteva riproporsi come originale.
Da qui la definizione del libro come <>. In tal modo Rosselli già si posiziona rispetto alla stessa tradizione socialista. Egli si colloca all’interno della stessa crisi socialista facendosi interprete delle istanze dei giovani più accorti tanto da conferire alla propria riflessione un valore esplicitamente emblematico. “Socialismo liberale” va letto, perciò, con un’ottica che tenga conto dei propositi più intimi del suo autore.
Da tale angolazione il libro rappresenta anche una specie d’esame di coscienza, quasi un analisi critico – introspettiva, per meglio chiarire a se stesso i propri convincimenti.Rosselli, infatti, con un’immediatezza di per se espressiva del proprio stato d’animo, riporta la crisi politica, di cui ha deciso di farsi interprete, alla crisi del marxismo. La messa in parallelo dei termini della crisi è quanto mai significativa; essa, a parere di Rosselli, è giunta ad uno stadio più acuto di quando apparve, nel 1899, il noto libro di Bernstein su “I presupposti del socialismo ed i compiti della socialdemocrazia”.
Ma cosa significa per Rosselli uno stadio più acuto?
Per ben inquadrare l’espressione rosselliana occorre necessariamente riportarsi al periodo nel quale il libro fu concepito e scritto. Il 1928, infatti, fu un anno di crisi abbastanza generalizzato per la politica europea, caratterizzato, da un lato, dal riconosciuto fallimento d’alcune democrazie tradizionalmente liberali e, dall’altro, dalla dimostrazione provata dell’insufficienza del movimento socialista italiano; infine il radicalizzarsi del fenomeno stalinista in URSS. Ed è proprio agli ultimi due punti che Rosselli sembra riferirsi quando denuncia l’insoddisfazione per la filosofia, la morale, la concezione politica marxista. L’intento è di ridare freschezza al socialismo liberandolo da ciò che lo ha portato alla disfatta, ossia attraverso una coraggiosa revisione delle sue premesse morali ed intellettuali.
Fin dalla prefazione, quindi, l’intento principale del libro è motivatamente revisionista; fare opera di revisione del socialismo significa, per Rosselli, non solo ammodernarlo ma, essenzialmente, renderlo cosciente delle questioni del tempo in cui è chiamato ad operare.
Il convincimento revisionista denota in Rosselli più un fine. Anche se con un processo di revisione si propone lo scopo di passare in rassegna critica la storia, le idee ed i protagonisti del socialismo italiano sempre avendo a riferimento mirato le già richiamate premesse morale ed intellettuali. “Socialismo liberale” ha, a ben guardare, un altro fine che attiene in termini abbastanza aderenti alla storia delle idee; vale a dire di revisione storica dei meccanismi elaboratori del pensiero socialista. Il saggio di Lipari si configura, quindi, come il punto d’approdo di tutto un intero percorso revisionista.
Tutto il lavoro rosselliano è informato da una forte volontà di critica al marxismo. Tale intento introduce subito ad un tema quanto mai importante nella struttura della visione rosselliana, quello del volontarismo che, nel pensiero marxista, vede negato a favore del momento economico considerato quale unico centro motore del divenire storico. Tramite il richiamo al significato del volontarismo Rosselli avvia la tematica revisionista. Esso, così, si configura come un elemento interpretativo centrale per la comprensione dell'intento ideologico rosselliano.
L’istanza volontarista non si pone però in Rosselli come mero risvolto antitetico di quella determinista. Assume un significato più corposo fondato su un’esigenza filosofica protesa ad evidenziare la necessità di recuperare la dottrina socialista ad un nuovo umanesimo. Rosselli, quando elabora il suo saggio, tiene presente anche il dibattito che si era svolto in precedenza nella cultura socialista e, soprattutto, sembrano influire due riferimenti: uno di natura più immediata e tutto interno alla ricerca politica del movimento socialista, vale a dire l’impostazione riformista di Ivanoe Bonomi, e l’altro, la polemica antimarxista sviluppata dal Sorel sulla fine dell’Ottocento.
Era stato infatti, Ivanoe Bonomi, nel tracciare con il libro “Le vie nuove del socialismo” una prospettiva storica riformista per il socialismo italiano, a mettere in risalto l’importanza del cosiddetto elemento umano come fondamentale per una grande trasformazione sociale. E Sorel, che significativamente Rosselli richiama nelle prime pagine del libro insieme al Labriola ed al Mondolfo aveva, soprattutto con il saggio “La necessità ed il fatalismo del marxismo”, polemizzato con la previsione marxiana che <>.
Dopo aver richiamato succintamente la visione marxiana della storia Rosselli osserva: <>.
La riduzione del processo storico alla pura dialettica economica rappresenta, per Carlo Rosselli, una visione falsante la realtà delle cose e significa anche togliere al socialismo una possibilità vera di essere un’espressione elevata delle esigenze dell’uomo; l’estrinsecarsi, appunto, di un nuovo umanesimo. Così, se per il marxismo il concetto di necessità riveste una posizione centrale, Rosselli, basandosi sulle risposte della storia, si prefisse di dimostrare come la necessità marxista possa non condurre al socialismo che, al contrario, può essere costruito su una visione volontarista. Il volontarismo rappresenta, perciò, la base su cui si sviluppa il duplice lavoro di Rosselli: la critica al marxismo e lo sviluppo della tesi revisionista.
La polemica con il marxismo rappresenta per Rosselli il tramite cui dare robustezza storica ed ideologica al revisionismo che è la piattaforma di base della teoria socialista liberale. Nel procedere lungo questa strada Rosselli mette in chiaro com’egli nutra fiducia nel metodo riformista in quanto il riformismo è l’altra faccia coerente del volontarismo. La spia di siffatto atteggiamento ci è fornita dall’interesse che nutre verso la storia del movimento sindacale. Perché il movimento sindacale? Perché esso testimonia di un’esperienza storica che contraddice il marxismo. Però, la visone socialdemocratica di Rosselli – da intendersi nel senso letterale di congiunzione tra socialismo e democrazia – si avverte nel richiamo dell’importanza per il movimento socialista dell’esercizio parlamentare.
La valutazione che egli dà sull’importanza del Parlamento è oltremodo significativa in quanto rappresenta un punto fondante la stessa visione revisionista che è tale perché essa si fonda sul riconoscimento dell’essenzialità del momento istituzionale democratico, ai fini di un’affermazione di rinnovamento delle forze socialiste.
Valutato da un punto di vista storico, <>.
Sul piano più propriamente ideologico egli vuole sottolineare come il revisionismo sia improntato dall’inserimento del dato della volontà nel processo storico.
<>.
Il riferimento a Bernstein ed a Sorel è quasi obbligato; anche se Rosselli matura la visione revisionista che dobbiamo ricondurre soprattutto alla riflessione dialettica che conduce su i testi di Rodolfo Mondolfo.
Ossia mentre la critica che sviluppa al Mondolfo rappresenta un passaggio obbligato per l’elaborazione della propria dottrina, le idee di Sorel e di Bernstein gli servono essenzialmente per dimostrare l’artificiosità della costruzione marxista. Da Sorel Rosselli mutua la concezione del socialismo come questione morale non legata alla legge economica assolutizzata da Carlo Marx.
Su questa strada il Sorel veniva congiungendosi al Bernstein, particolarmente attento alla tematica pedagogico – morale.
In Bernstein, poi, tale attitudine si scioglieva in una specie d’indicazione metodologica di comportamento per le masse socialiste con il richiamo costante e martellante ai valori della democrazia, al tempo stesso come mezzo e scopo, per combattere il capitalismo e le sue degenerazioni; la democrazia, secondo Bernstein, <<è il mezzo della lotta per il socialismo, ed è la forma della realizzazione del socialismo>>.
La democrazia rappresenta l’ambito morale d’estrinsecazione per un’azione positiva del socialismo e Bernstein indica nei suoi meccanismi la chiave di volta in grado di influenzare positivamente la crescita del socialismo. Quindi un sistema di convivenza fondato sulla<>.
In Bernstein, Rosselli vi trova i punti fondanti quel binomio della giustizia e della libertà che nello scrittore tedesco rappresentano i capisaldi di un assetto democratico; principi costitutivi di un regime democratico ma anche mete cui riportare lo sviluppo complessivo della società. A Rosselli, bisogna riconoscere il merito, di portare in “Socialismo liberale” ad una nuova sintesi, tutti questi filoni del dibattito socialista classico.
Rosselli però non fa proprio il revisionismo bernsteiniano il quale, pur criticando il marxismo vuole correggerne la metodologia scientifica. Per quanto Bernstein finisca per giungere a conclusioni che sono ben lontane da quelle di Marx, l’intento è ancora interno ad una logica scientifica per la conquista del socialismo. Rosselli si propone un fine diverso; scindere la risultanza socialista dalla dimensione scientifica e, quindi, dimostrare che si può fondare una visione socialista anche oltre la dottrina marxista. Il revisionismo, quindi, gli serve quale tappa argomentativa intermedia per arrivare al fine che è il socialismo liberale.
Per corroborare la propria tesi d’argomentazioni comprovate, Rosselli ripercorre a larghe tappe la vicenda del pensiero socialista in Italia premettendo che <>. L’affermazione ha un carattere storico e politico molto preciso. Denuncia una mancanza di coerenza, uno scarto tra i principi e la prassi; soprattutto il proclamare un’attesa rivoluzionaria sapendo bene che questa era cosa vana. Denuncia l’insufficienza teorica e pratica del socialismo italiano.
Il distacco tra teoria e prassi non favorì nemmeno la nascita di un serio riformismo poiché <>.
E’ chiaro che il soffermarsi sui valori del revisionismo assume il significato di una scelta di campo politica, culturale – filologica ma anche morale.
Analizzando lo sviluppo del pensiero politico di Carlo Rosselli non bisogna infatti dimenticare che esso si venne chiarendo in un momento particolare della propria vita, mentre era al confino. Nonostante tutto, il carcere ed il confino gli danno, per la forzata inattività cui è costretto, l’opportunità di riflettere sulle ragioni di una sconfitta. In tal senso la ricerca e la critica socialista hanno un intrinseco valore morale poiché espressioni del senso del dovere per un dirigente che non vuole mollare la lotta ma, al contrario, innovarla e rilanciarla. Tale consapevolezza morale si lega e si intreccia con un’altra morale che ritiene necessario affermare proprio nel momento in cui vengono prese le distanze dal marxismo per ancorare ad un dato certo un socialismo indipendente dal determinismo.
Alla scelta revisionista, che pure supererà integrandola di un elemento qualificante proprio l’accezione morale, Rosselli arriva ben convinto che il socialismo comporti un’alta considerazione del momento collettivo quale risultante della costruzione morale dei singoli. Ritorna tra le righe di “Socialismo liberale” il rapporto tra socialismo ed idealismo.
Per sviluppare il proprio intendimento – che con una formula si potrebbe definire di revisione del revisionismo - Rosselli ha ben presente come l’analisi del pensiero di Rodolfo Mondolfo rappresenti un passaggio obbligato. Per quanto egli abbia presente il ruolo svolto anche da Labriola e da Croce; assegna giustamente al filosofo socialista una posizione centrale.
<>.
Il rovesciamento della prassi rappresenta il perno intorno al quale ruota tutta l’elaborazione mondolfiana. Esso esprime il motivo dominante delle “Orme”, il volume fondamentale per seguire lo sviluppo della critica marxista operata dal Monfolfo.
<>.
Il Mondolfo faceva discendere questa sua visione direttamente dallo studio del pensiero di Marx ed, in particolare, dalla prima delle “Tesi su Feuerbach”, là dove Marx definisce la prassi come attività pratico – critica, ossia attività umana sensibile nella quale si risolve il reale che è concepito soggettivamente. L’interpretazione mondolfiana si può affermare che aggiorna quell’idealistica, facendo riferimento al genere umano quale soggetto unico delle trasformazioni dell’ambiente da esso creato.Il Mondolfo slarga ed aggiorna l’impostazione gentiliana facendo riferimento alle classi sociali, che sono le componenti attive del genere umano, ed ai loro conflitti, vale a dire alla soppressione da parte di una delle classi delle forme d’organizzazione sociale create dall’altra.
Che cosa significava sul piano politico e dell’elaborazione di un pensiero politico socialista, il richiamo al rovesciamento della prassi? Mondolfo, attivo testimone della vicenda socialista, per elaborare la propria visione, partiva dalla concretezza della storia. Di tendenza riformista egli aveva lucidamente capito come dall’occupazione delle fabbriche e dal loro fallimento n’era uscita sconfitta proprio la cultura riformista. Così, riandando appunto sulle orme di Marx, aveva mosso una duplice critica, al volontarismo rivoluzionario ed alla prassi gradualista e riformista. Vedeva nel volontarismo soreliano un pericolo d’autosufficienza che andava ben aldilà della risposta al determinismo economicistico per sconfinare nell’esaltazione di un insieme astratto.
Per Mondolfo il volontarismo ha un carattere essenzialmente creativo e, come tale, non può prescindere dalla realtà da cui n’è, in qualche misura, condizionato: ha, quali dati di partenza, le condizioni oggettive di una realtà che pure vuole cambiare.
Per Mondolfo, quindi, <>.
Il cambiamento altro non era che la realizzazione di un assetto socialista che non poteva, tuttavia, scaturire da un mero sentire etico né non tener conto, così come rimproverava al riformismo, la dimensione protagonista della classe operaia, legato alla viva presenza di una consapevolezza teorica entro la sua prassi storica. Attraverso il rovesciamento della prassi il Mondolfo vede legarsi i due momenti.
Ed ecco come spiega il nesso dialettico insito nel rovesciamento della prassi: <>.
Per Carlo Rosselli la via indicata dal Mondolfo non conduce necessariamente al socialismo in quanto, a suo avviso, egli non esce dal determinismo marxista. Infatti, a parere del Rosselli, non esiste nel metodo mondolfiano nulla che lasci intravedere lo sbocco socialista.
Rosselli aveva riflettuto a lungo sulle teorie di Mondolfo e le pagine ed i giudizi di “Socialismo liberale” trovano la loro prima decantazione in un mannello di carte zeppe di appunti dedicati proprio alla Umwalzende Praxis. Annota Rosselli: <>.
Le considerazioni sull’impostazione filosofica di Mondolfo sembrano confermare Rosselli in un convincimento radicato sull’insufficienza del marxismo a soddisfare ogni vera esigenza di socialismo. Il commento al Mondolfo diviene quasi una confessione; scrive, infatti: <>.
In “Socialismo liberale” Rosselli finisce per tirare le somme di tutta questa riflessione e le conclusioni cui arriva sono quanto mai esplicite. Scrive: <>.
Rosselli, al contempo, finisce per negare e per riconoscersi nel pensiero di Mondolfo; lo nega poiché il suo revisionismo, volendo rimanere entro i confini della dottrina marxista, esprime un metodo non caratterizzato da una finalità ad esso intrinseca; vi si riconosce in quanto la conclusione liberale che egli gli attribuisce lo conferma nel proprio assunto di fondo: che la crisi del socialismo fu essenzialmente dovuta ad un’insufficienza di eticità.
Il giudizio finale cui perviene è quanto mai netto: tra socialismo e marxismo vi è una frattura insanabile. Rosselli, infatti, nella sua opera di critico del pensiero socialista è interessato a sviluppare quello che è il risultato implicito dello stesso revisionismo, ossia l’immissione del liberalismo nel corpo dell’esigenza politico – dottrinaria del socialismo.
Acclarata la rottura tra il marxismo ed il socialismo, quale punto di approdo del ragionamento revisionista, Rosselli acquisisce tre concetti fondamentali: il primo riguarda il revisionismo che ha valorizzato del marxismo alcune tesi filosofiche come il materialismo storico e la lotta di classe che, avendo valore scientifico, hanno un carattere oggettivo e, per questo, non appartengono in esclusiva al marxismo; il secondo che si può essere marxisti senza essere socialisti ed il terzo che il marxismo non è più un principio informatore del socialismo.
La rottura del determinismo marxista non permette però a Rosselli di affermare un punto cui crede molto, vale a dire ammettere la validità di un fondamento etico per il socialismo. Il sostenere che il marxismo non è più il principio informatore del socialismo significa non escludere che vi possa essere un socialismo marxista così come non esclude che vi possa essere un socialismo non marxista che nasce per libera scelta di accettazione di un percorso che ha il suo presupposto nella preminenza della democrazia politica, nell’affermazione e nel consolidarsi della libertà e delle libertà, nell’organizzazione di un sistema sociale basato su riforme che garantiscano il progresso delle classi inferiori. In questo socialismo l’aspetto politico è preminente e ritrova il suo spessore ideologico solo alla fine.
E’ qui, infatti, che il dato volontaristico si reinserisce diventando elemento fondamentale della vocazione etica. A questo punto del ragionamento di Rosselli si comprende perché gli interessi veramente il revisionismo; in quanto rifiutando ogni elemento finalistico, che continua ad essere tipico del meccanismo marxista, fa emergere una pluralità di possibili soluzioni; collegando, poi, le posizioni filosofiche con quelle pratiche esso sbocca nel liberalismo.
<>.
Il liberalismo che interessa Rosselli ha uno spessore sociale; solo in parte, infatti, è un metodo per leggere la storia. Gli accenni che Rosselli esplicita hanno un profilo essenzialmente pratico, di osservazione empirica ma questo dato non ci sembra cogliere in pieno il nesso tra socialismo e liberalismo. Se appare chiaro il passaggio dal socialismo al liberalismo fino alla risoluzione del primo nel secondo, allora perché socialismo? Non sembra esservi coincidenza tra un socialismo revisionista ed il liberalismo e quindi, se per socialismo si intende un assetto sociale retto secondo giustizia, per liberalismo non può che intendersi l’elemento principale fondante la dottrina e la prassi stessa del socialismo.
Rosselli nei passaggi del suo libro riguardanti questi problemi rimane abbastanza oscuro. Però, se l’interpretazione dell’approdo liberale può essere intesa, come dicevamo, allora si comprendono le ragioni della specificazione liberale del socialismo; come deduzione logica da libertà; l’aggettivo liberale perché liberamente fondante assetti di libertà liberatoria. Ma l’uso del termine liberale significa anche un’altra cosa, esso delinea una risposta al socialismo marxista di impronta deterministica e, quindi, di per se stesso recupera la piena libertà del singolo e la sua volontà di arrivare ad un socialismo nella libertà.
Il liberalismo viene così a sciogliersi nel socialismo, in un socialismo liberale come natura genuina del socialismo che è una dottrina che assume la libertà come mezzo e come fine.
Il perché dell’aggettivo liberale accanto a quel sostantivo è Rosselli stesso a spiegarlo. Perché, scrive, <<è forse venuta l’ora di mettere l’accento sul momento della libertà, di ricordare che in ogni caso è ai partiti riformatori che spetta esagerare l’elemento volontaristico, mentre è a quelli conservatori che spetta di esagerare le resistenze. Il determinismo marxista induce all’accettazione o ad un eccessivo rispetto a priori della realtà esistente, appunto perché esistente. Esso umilia l’umanità ricordandole di continuo la sua pochezza di fronte alle formidabili forze ambientali, naturali e sociali; e più facilmente condurre a forme di rassegnazione sul tipo di quella cattolica>>.
Con ciò Carlo Rosselli si considera oramai fuori dal marxismo e proteso verso una definizione del socialismo che lo interessa, forte delle suggestioni che gli provengono dall’opera di Henry De Man, “Au dela du marxisme”. Il lavoro di De Man colpì Rosselli a fondo; in esso di riconobbe in maniera quasi acritica e lo affascinò soprattutto il passaggio nel quale De Man recupera alla volontà del singolo la conoscenza della storia e delle sue dinamiche e quello in cui l’ideale futuro diviene spinta all’iniziativa umana.
La visione del teorico belga sembra confortare Rosselli in quella che è la sua esigenza di fondo, rifondare il socialismo fuori dal determinismo marxista riportando a ragione prima di ogni impulso che tende al socialismo la soggettività umana che si traduce per Rosselli in un’esigenza di carattere morale. De Man conferma Rosselli nella necessità di procedere lungo il cammino intrapreso per liberale il socialismo dalle formule e ridargli il suo significato originario, di grande impulso morale sentito dall’uomo per la liberazione dalla schiavitù del bisogno e dell'ingiustizia e per la piena affermazione dell’umanismo.
Il socialismo, quindi, per Rosselli è, <>.
Il superamento del marxismo nel pensiero di Rosselli può ormai considerarsi acquisito; il socialismo è l’attuazione di un ideale e, perciò, la realizzazione di uno status etico. Il volontarismo altro non è che il risveglio di un sentimento che alberga nel cuore degli uomini.
Alla critica del marxismo Rosselli vuol far seguire una linea propositiva in positivo, dare corpo alla concezione centrale del proprio pensiero politico che è, appunto, il socialismo liberale.
La prima definizione che Rosselli dà del socialismo liberale dimostra una certezza di ordine storico ed una abbastanza evidente incertezza di ordine teorico. La prima dipende direttamente dal fallimento del socialismo marxista; la seconda dalla commistione con il liberalismo.
L’uso consapevole che Rosselli fa dell’aggettivo liberale va riportato alla concezione della libertà considerata come una conquista, come motore interno dell’operare socialista e, quindi, del socialismo che è liberale perché teoria della libertà e di libertà. Ciò implica che un sistema politico fondato sulla libertà ha come conseguenza diretta l’affermazione della democrazia per cui il metodo liberale sul terreno politico si potrebbe definire <>.
Il liberalismo è ciò che dà concretezza storica all’idea socialista che è originata da un esigenza morale di giustizia e di libertà. Il processo dialettico, che il metodo liberale gli permette di cogliere, è un insieme ben più complesso influenzato dalla volontà dell’uomo che persegue nuovi livelli di libertà e di democrazia in un assetto garantito di svolgimento della lotta politica. L’impulso etico del liberalismo è, secondo Rosselli, sorgente e conquista di democrazia la quale, allargandosi progressivamente per la dinamica delle lotte sociali, si sviluppa fino a raggiungere un assetto socialista, ossia un assetto fondato sulla giustizia e sulla libertà.
Ecco la genesi del socialismo liberale; Rosselli, nelle ultime pagine del suo saggio, recupera la veste del leader politico. Spiega della sua rivisitazione storico – teorica del socialismo. Il travaglio che era stato richiamato quale elemento provocativo della riflessione che lo condurrà al socialismo liberale sembra essersi acquistato ed ha oramai lasciato totalmente il campo alla finalizzazione politica del lavoro svolto.
Dalla crisi del socialismo si esce con una forte consapevolezza realistica ed in questa vi è insita la necessità di una rifondazione anche organizzativa del movimento socialista; le ultime righe di “Socialismo liberale” contengono un programma ben preciso. Scrive Rosselli: sarebbe augurabile il sorgere di una nuova formazione politica. Non essendo più legata formalmente al passato, essa sarebbe assai più sciolta da ogni obbligo di coerenza coi programmi e metodi antichi, e potrebbe più liberamente elaborare, sulla base delle straordinarie esperienze del quindicennio un programma rinnovatore.

Tommaso Fiore

Un socialista liberale.


Un "cafone", dopo morto, si ritrovò davanti alla porta del Paradiso. Bussò per entrare, ma gli dissero che non c'era posto. Allora scese in Purgatorio. Ma anche qui non c'era posto per lui. Scese ancora e si ritrovò a bussare alla porta dell'inferno. Qui il posto c'era e lo fecero entrare. Dopo un periodo di permanenza in quel luogo di punizione, Lucifero, il capo dei diavoli, volle sapere dal nuovo arrivato come si trovasse. "Bene" disse il cafone. "Mi trovo molto bene". E Lucifero sorpreso e preoccupato da quella risposta gli chiese: "Ma da dove vieni?". "Dal Tavoliere delle Puglie. Quello si che è un inferno". Lucifero, però, non volle credere alle parole del cafone. Chiamò un diavolo e gli disse di andare in missione nel Tavoliere delle Puglie per verificare le parole del nuovo arrivato. "Vai e fammi sapere". Dopo un po' di tempo il diavolo ritornò con le ali bruciacchiate, con la faccia combinata male e con il corpo che non si riconosceva. "Allora?" Gli chiese Lucifero. "Aveva ragione il cafone. Quel posto sulla terra è un vero inferno. Qui da noi sono rose e fiori". E Luciferò: "Radunate armi e bagagli, da domani ci trasferiamo nel Tavoliere delle Puglie".

Questa è molto in sintesi la storiella dalla quale prende corpo uno dei più bei romanzi di inchiesta sociale che siano mai stati scritti in lingua italiana "Il Cafone all'Inferno", il cui autore è Tommaso Fiore. Egli fu allievo di Benedetto Croce, dal quale si separò allorché il latifondista napoletano, che proprio nelle terre daune aveva parte dei suoi latifondi, gli domandò: "Ma tu poi, in fondo, in questi cafoni cosa ci trovi?". Fu quella ingenua domanda di Benedetto Croce che fece comprendere nel Nostro come il suo Maestro non aveva più nulla da insegnare.

Fiore nacque ad Altamura, provincia di Bari, il 7 marzo 1884. Di famiglia operaia, fu indirizzato agli studi classici. All'Università divorava i saggi di Labriola su Marx che lo aiutarono ad interpretare, in termini socio-economici, la situazione dei "cafoni di Puglia" e finì, irrimediabilmente, per occuparsi delle condizioni del Mezzogiorno, ed in special modo dei contadini, il mondo a lui più vicino, e al riscatto dei quali dedicò l'intera sua vita. Le opere di Benedetto Croce gli fornirono invece il senso dell'operare storico. Fu per questo che, ritornato al suo paese dopo l'esperienza bellica, si impegnò a fianco dei suoi "cafoni" e divenne sindaco di Altamura nel 1920. Pagò un tributo alto al fascismo. L'antifascismo più radicale si organizzò attorno alla sua figura durante il ventennio. Questo costò a lui e a due dei suoi figli, Enzo e Vittore, l'arresto ed il confino. Caduto il fascismo, nel 1943 il figlio Graziano, da poco diciottenne. si mise alla testa dei dimostranti che andavano a liberare dal carcere i prigionieri politici. Tra essi c'era anche Tommaso Fiore. Il giovane figlio cadde sotto i colpi dei soldati di Roatta e di Badoglio che volevano impedire la sollevazione popolare. Fiore divenne poi collaboratore dell'Unità di Salvemini, ma si impegnò anche con "la Rivoluzione liberale" di Gobetti. E fu proprio su richiesta di quest'ultimo che scrisse le "Lettere Pugliesi", nelle quali descriveva l'operosita dei piccoli proprietari, braccianti agricoli giornalieri, contadini, fittavoli, paragonandoli a delle formiche. Come le formiche, lavorando instancabilmente, con sangue e sudore, hanno trasformato la fascia della costa pugliese, da un ammasso di sterili sassi in un rigoglioso giardino di mandorli, ulivi e viti. Ma vi è prima di tutto una minuziosa analisi del contrasto secolare tra i proprietari ed i contadini e braccianti. Ventisette anni dopo quelle lettere vennero ripubblicate sotto il titolo di "Un popolo di formiche" e gli valsero il premio Viareggio.

In questi scritti Tommaso Fiore si rivela anche un tenace federalista contro il centralismo statale e della riorganizzazione in chiave regionalistica dello Stato. Nel socialismo liberale Fiore vedeva lo strumento di azione più efficace per il raggiungimento del federalismo. Morì a Bari il 4 giugno 1973.

Destra e sinistra nei secoli dei secoli.

di Renzo Grassano (con contributi alla discussione ed allo stesso arricchimento del testo di Carlo Fracasso e Guido Marenco).

In Grecia ci furono democratici ed aristocratici, a Roma si cominciò con patrizi e plebei; persino nella Palestina ai tempi di Gesù si ebbero farisei e sadducei, e forse altre correnti ancora. Tutte queste divisioni sono riconducibili a scontri di classe da un lato ed a scontri di idee dall'altro. In termini marxiani la politica e la cultura sono sovrastrutture funzionali alla struttura economica. Quindi anche le divisioni dovute alle idee, alle fedi religiose e così via trovano una quasi automatica corrispondenza nella classe sociale di appartenenza. Io non sono marxista e sono quindi portato a contestare questa semplicistica visione del mondo. C'è dell'altro oltra alla lotta di classe, e la storia vera è certamente più complicata perché nel gioco subentrano ambizioni individuali ed interessi di fazioni che portano ad incroci molto complessi. Giulio Cesare, ad esempio, era di destra o di sinistra? Certo, veniva dalla sinistra dei tribuni della plebe, ma era di famiglia aristocratica e tutta la sua carriera politica si giocò su questa ambiguità di fondo: apparentemente lavorava per fare gli interessi del popolo, in realtà coltivava l'ambizione di resuscitare l'istituto monarchico ed io non credo che questa possa essere considerata un'idea di sinistra, perché rappresenta la negazione di ciò in cui i veri democratici hanno sempre creduto.Cesare era dunque un "populista", un demagogo, un opportunista che approfittava della situazione generale per volgere le cose al suo vantaggio. Poi, può essere che egli credesse fermamente nel fatto che un impero non si governa con istituzioni paralizzanti come un senato composto solo di rappresentanti di famiglie patrizie, ed incarichi consolari troppo brevi; credeva ci volesse, insomma, una sovranità forte e stabile per mettere fine alla litigiosità politica ed alla guerra per bande. E fu anche per questo che si ritenne "un uomo del destino" (oggi si direbbe un "unto"). In altre parole, credeva in quello che faceva non solo per sé, ma per il presunto bene di Roma e dei Romani.La storia è nota, si sa come finì. Ma a noi interessa comprendere un concetto: destra e sinistra rischiano oggi di essere dei contenitori vuoti, delle divise che chiunque potrebbe indossare, come accadde ai tempi di Cesare. Il suo era un partito di sinistra, egli era il capo indiscusso di questa fazione. Indiscutibilmente fece molto per le plebi romane, "per farle star meglio e partecipare alla grande abbuffata della divisione delle terre strappate ai nemici". Ma questa politica coloniale potrebbe definirsi di sinistra? Certo che no, però leggendo la vicenda in chiave moderna, dopo che nei secoli è venuto a chiarimento che i poveri, i senza terra, gli operai, i diseredati e gli emarginati, in fondo, non hanno nazionalità e quindi non hanno patria. Il loro interesse è di unirsi sotto un'unica bandiera. In questa luce, quindi, non può essere considerata di sinistra una politica che miri ad avvantaggiare i poveri di casa propria a danno dei ricchi e dei poveri di un'altra parte del mondo. Ai tempi di Cesare ciò era ancora possibile per un altro fatto: Roma stava unificando il mondo antico, mettendo ordine nel disordine e portando la legge ed il diritto laddove non esistevano che parvenze. Oggi, in Occidente si ha la pretesa di esportare la democrazia. Allora, si coltivava la pretesa di esportare il diritto e l'ordine di Roma,oltre che la sua civiltà di opere pubbliche, di strade e di acquedotti.Siamo, come si vede, alle prese con una strana mistura di analogie e differenze, di continuità e rotture, ed io vedo solo che non si può risolvere il quesito su che sono oggi destra e sinistra senza raccontare, anche se a larghi tratti, e quindi in modo necessariamente sommario, la storia delle idee e degli uomini che le hanno sostenute e chiarite, dando quindi largo spazio alla storia della filosofia politica.Da quel che s'è detto finora, appare chiaro che per trovare una prima divaricazione politica significativa tra i membri di una stessa società non serve ancora una definizione topografica di tipo orizzontale; basta guardare alla divisione politica secondo un alto ed un basso, secondo un'ottica che consenta di individuare governanti (dominanti) e governati (dominati). Ciò potrebbe dare ragione all'interpretazione marxista della storia (come mi ha suggerito ad esempio Carlo Fracasso insistendo sull'istanza della divisione sociale del lavoro ), se non fosse che all'interno dei governanti ed all'interno dei governati non si fossero prodotte, da subito, diverse risposte e diverse tattiche ai problemi che via via andavano ponendosi. La verità potrebbe essere, insomma, (tesi di Guido Marenco) che sia all'interno dell'alto che all'interno del di sotto cominciarono a germinare posizioni diverse circa la migliore tattica da seguire per procurarsi vantaggi. E non si parla di strategia a ragion veduta perché dal lato del basso non si trattava ancora di prevedere una rivoluzione da prepararsi secondo fasi o tappe, ma semplicemente di ottenere vittorie parziali in base a rivendicazioni minimali, oppure abbattere tout court tirannie insopportabili perché giudicate irriformabili.Allo stesso tempo, dal punto di vista dell'alto, si trattava semplicemente di scegliere: se impartire punizioni esemplari, appendere i capi della protesta a qualche croce e sterminare i rivoltosi più decisi, oppure di introdurre qualche riforma, accogliere qualche richiesta compatibile con la continuazione del sistema, e poi studiare soluzioni in grado di sfruttare al meglio la nuova situazione.Su questa base, insisteva Marenco, non si potrà parlare di destra e sinistra basandoci su canoni attuali, ma certamente si potrebbe cominciare a parlare di propensione alla ragionevolezza ed alla moderazione da un lato e propensione ad una condotta estremistica dall'altro. Divisioni, dunque, che comincerebbero a tagliare in diversi pezzi la semplicistica e primitiva opposizione tra governanti ricchi e governati poveri.Ma attenzione - diceva Marenco - le categorie estremismo e moderazione non hanno nulla a che vedere sia con i concetti di alto e basso sia con quelli di destra e sinistra. Definiscono atteggiamento, comportamento ed intenzione possibili sia in campo che nell'altro. Hanno a che fare con la saggezza, l'astuzia, il calcolo politico, ma non determinano l'appartenenza ad una posizione preconcetta; semmai, in misura diversa a seconda delle situazioni, possono concorrere a vincere ed a perdere. "Non è scritto da nessuna parte che per vincere bisogna essere moderati, e che estremizzare porta a sconfitta sicura. Nemmeno in democrazia. Forse, soprattutto in democrazia. Gli esempi storici, purtroppo, non solo non lo escludono, ma a volte lo confermano. I dittatori che sono andati al potere con il consenso popolare sono innumerevoli. L'opzione per il moderatismo è di tipo etico-morale. Una persona saggia preferisce sempre limitare i danni e quindi il numero di morti e feriti, anche in campo avverso. Una persona veramente saggia non ama la rissa e la calunnia, preferisce un clima di confronto amichevole pur sapendo che esso può favorire l'ipocrisia, la menzogna, l'inganno o l'illusione. Una persona saggia, infatti, sa che menzogna, inganno ed illusione prevalgono più facilmente in un clima di rissa isterica."E allora, come trovare il filo di una genesi dei nostri concetti di destra e sinistra? Secondo Marenco, essi sono antagonismi della politica che vengono pienamente alla luce solo in epoca moderna, dopo la Rivoluzione francese. Ma prima non è che non esistano, hanno solo altri nomi, oppure non ne hanno nemmeno uno. Sono afferrati e portati misticamente alla luce da qualche eletto, o coltivati più razionalmente da qualche intellettuale aristotelico poco ortodosso come Teofrasto, che condannava la schiavitù.Il profetismo di Amos, ad esempio, è un profetismo di sinistra, indiscutibilmente. Non è teologia della liberazione, ovviamente, ma comincia a suonare la tromba del dissenso e della critica ai potenti, agli sfruttatori, agli accaparratori, agli speculatori dell'edilizia.La contrapposizione tra civitas dei e città dell'uomo, in Agostino, è forse troppo netta ed immatura per avere un che di pregnante sia ai suoi tempi, e tanto più ai nostri; tuttavia mostra una tensione alla giustizia sociale che non può che essere leggibile in termini di sinistra.Ma, probabilmente è solo con l'illuminismo che viene in chiaro che il famoso appello del poeta Dante Alighieri - fatti non foste a viver come bruti... - non era rivolto ai rampolli dei ricchi ma all'intero genere umano. Era un appello ai poveri perché essi stessi si emancipassero lottando per coltivare virtute e conoscenza.Con Kant, insomma, è chiaro che siamo tutti uguali e che dobbiamo uscire dallo stato di minorità usando la ragione. Ma che è la ragione senza una cultura ed un'istruzione? Può Bertoldo, scarpe grosse e cervello fino, averla vinta sugli Azzeccagarbugli con quattro lauree appese al muro dello studio? La vera sinistra, dunque, si propone certamente un superamento delle diseguaglianze più clamorose, quelle economiche, ma soprattutto si propone di eliminare l'ingiustizia in campo educativo, la discriminazione di casta nell'ambito della formazione culturale e professionale. Discriminazione che non si può abbattere solo con proclami astratti e la retorica dei meritevoli, ma con una scuola concreta, una scuola che porti tutti sullo stesso piano di partenza. Utopia. Dunque, la conclusione di Marenco era: Comenio e Don Milani. Questa è la sinistra vera. Non può non essere un poco utopica. Lo faremo sapere a Nanni Moretti: ecco che abbiamo detto qualcosa di sinistra, qualcosa che è la quintessenza eterea della sinistra, altrimenti non è.Che sono dunque destra e sinistra ancor oggi?Prima di dare per scontato che esistono ancora, e che una simile divisione possa essere ancora feconda sia per lo studioso, sia per chi cerca solo di informarsi, bisognerebbe però anche chiedersi se ci si possa accontentare di una separazione così netta. Personalmente, ad esempio, pur ritenendomi di sinistra, non solo non sono un marxista, ma capisco anche che molte mie idee non sono affatto di sinistra, vengono dalla tradizione cattolica e da quella liberale, o persino dalla destra vera e propria. Perché, allora, non parlare anche di un "centro", da considerarsi non come un momento di mediazione e di moderazione, ma come un polo ideale e politico ancora in grado di produrre idee e proposte utili al miglioramento della società e della convivenza?Provo a rispondere asserendo che in realtà un centro non esiste, e forse non è mai esistito, se non come forma di attenuazione di idee o di destra o di sinistra. Esistono gli eclettici, se vogliamo anche gli opportunisti, esagerando persino dei traditori (di un'idea, s'intende) e degli annacquatori, ma idee di centro in quanto tale, secondo me non esistono. Il centro, in sostanza, è nient'altro che la neutralizzazione stessa del conflitto politico fino ad un improbabile azzeramento delle differenze. Quindi, io credo piuttosto esistano diverse destre e diverse sinistre e che indubbiamente, esistano anche movimenti politici e culturali trasversali, come i verdi e gli ecologisti, che si differenziano dalle tradizioni politiche consolidate perché antepongono un certo valore (la difesa dell'ambiente) a tutti gli altri, ma che essi siano poi misurabili di volta in volta per le posizioni concrete che prendono e per le prospettive che assumono.Ecco perché, in definitiva, non mi è parso utile ai fini di una storia problematica e critica della filosofia politica introdurre un criterio ulteriore.Piuttosto, sarei incline a considerare con molta serietà la categoria storica del camaleonte, cioè quel tipo di animale politico in grado di cambiare pelle ad ogni volgere di situazione. Ecco, se c'è qualcosa che ha veramente a che fare con "un"centro, potrei dire che è questo tipo di politico. Se ha avuto l'abilità di non esporsi troppo, se nel tempo ha sempre saputo usare toni di moderazione e di ipocrisia, il suo oscillare tra destra e sinistra non potrebbe essere tacciato o tacciabile di incoerenza.

sabato 29 dicembre 2007

Natale 1944.

Radiomessaggio di Pio XII per il Natale 1944 "il Problema della democrazia".

Ci troviamo di fronte al documento più importante nella storia della dottrina sociale della Chiesa sul problema della democrazia; sollevò entusiasmo anche tra non credenti. Distinguendo la "vera" democrazia dalla democrazia falsa e illegittima, vengono esposti alcuni importanti concetti sulla pace.
Vera democrazia e democrazia illegittima. Si sente prossima la conclusione della seconda guerra mondiale e vengono fatti i bilanci terribili di poteri e di scelte che hanno condotto alla distruzione ed alla morte milioni di persone. In questo clima anche Pio XII avverte che la democrazia diventa una speranza di buon governo: "La tendenza democratica investe i popoli e ottiene largamente il suffragio e il consenso". Finora la democrazia, se non ostilmente, è stata guardata con diffidenza e, citando Leone XIII, Pio XII afferma che "secondo gli insegnamenti della Chiesa non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica circa l'origine e l'uso del potere pubblico" anche se "la Chiesa non riprova nessuna delle varie forme di governo, purché adatte per sé a procurare il bene dei cittadini". La fondamentale distinzione fra “popolo e massa” ci riporta al mondo dei governati. ''Popolo e moltitudine amorfa ('massa') sono due concetti diversi. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali - al proprio posto e nel proprio modo – è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l'impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gli istinti e le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell'altra bandiera. Dalla esuberanza di vita di un vero popolo la vita si effonde, abbondante e ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato; nelle mani ambiziose di uno solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato spesso può, con l'appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l'interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è spesso difficilmente guaribile. “La massa " è la nemica capitale della vera democrazia", mentre la vera democrazia rispetta un limite sotto cui non si può scendere ed è la libertà delle persone, delle famiglie e delle loro spontanee aggregazioni… promuovendo uno "spirito di comunità e di fratellanza". Essa ha, come caratteristica propria (che la distingue da altre forme di governo, peraltro ugualmente legittime), una certa "uguaglianza civile" dei cittadini nei rapporti politici. Tutte le ineguaglianze derivanti non dall'arbitrio, ma dalla natura stessa delle cose, ineguaglianze di cultura, di averi, di posizione sociale - senza pregiudizio beninteso della giustizia e della mutua carità - non sono affatto un ostacolo al bene comune e ai fini propri dello Stato democratico”. Quanto ai governanti, essi devono anzitutto riconoscere un limite oltre cui non andare ed è costituito dalla dipendenza dell'autorità da Dio e dalla legge morale. Nella democrazia, infatti, esiste il rischio di superare ogni limite morale, ritenendo che tutto quanto è deciso dalla maggioranza sia vero e buono, anche se in contrasto con la legge morale e religiosa di cui non si riconosce più il valore. “Una sana democrazia, fondata sugli immutabili principi della legge naturale e delle verità rivelate, sarà risolutamente contraria a quella corruzione, che attribuisce alla legislazione dello Stato un potere senza freni né limiti e che fa anche del regime democratico, nonostante le contrarie ma vane apparenze, un puro e semplice sistema di assolutismo”. Il regime democratico, per i suoi meccanismi di selezione dei governanti, richiede pure una particolare cautela nella scelta: "La questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere". Nella riflessione molto matura e molto concreta si svelano le tentazioni e i giochi di chi ha potere. Il testo è ancora oggi di una attualità sconcertante. Occorrerà scegliere uomini "che si considerino come i rappresentanti dell’intero popolo, e non già come i mandatari di una folla… Tale scelta non sia stretta ad alcuna professione o condizione, bensì che sia l'immagine della molteplice vita di tutto il popolo". Dove invece in democrazia mancano uomini capaci di essere davvero "guide e capi", "altri vengono ad occupare il loro posto, per fare dell'attività politica l'arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe, mentre la caccia agli interessi particolari fa perdere di vista e mette in pericolo il vero bene comune".

venerdì 28 dicembre 2007

La crocifissione

“Ma noi predichiamo Cristo crocifisso: scandalo pe’ Giudei, stoltezza pe’ Gentili” Paolo, Lettera ai Corinti

Tutte le piaghe sono al sole ed Egli muore sotto gli occhi di tutti: perfino la madre sotto il petto, il ventre, i ginocchi, guarda il Suo corpo patire. L’alba e il vespro Gli fanno luce sulle braccia aperte e l’Aprile intenerisce il Suo esibire la morte a sguardi che Lo bruciano. Perché Cristo fu ESPOSTO in Croce? Oh scossa del cuore al nudo corpo del giovinetto... atroce offesa al suo pudore crudo... Il sole e gli sguardi! La voce estrema chiese a Dio perdono con un singhiozzo di vergogna rossa nel cielo senza suono, tra pupille fresche e annoiate di Lui: morte, sesso e gogna. Bisogna esporsi (questo insegna il povero Cristo inchiodato?), la chiarezza del cuore è degna di ogni scherno, di ogni peccato di ogni più nuda passione... (questo vuol dire il Crocefisso? sacrificare ogni giorno il dono rinunciare ogni giorno al perdono sporgersi ingenui sull’abisso). Noi staremo offerti sulla croce, alla gogna, tra le pupille limpide di gioia feroce, scoprendo all’ironia le stille del sangue dal petto ai ginocchi, miti, ridicoli, tremando d’intelletto e passione nel gioco del cuore arso dal suo fuoco, per testimoniare lo scandalo.
P. P. P.: BESTEMMIA, L’usignolo della chiesa cattolica

Poeta corsaro e disperato amante del popolo.


Pier Paolo Pasolini:


Poeta corsaro e disperato amante del popolo
di Olivia Trioschi

Ricordiamo. Giovanotti nerboruti, esaltati, pieni di incoscienza e ardimento, con una gran voglia di saltare, urlare, emergere in qualche modo - qualsiasi modo - alla vita, alla violenza della vita, si trovavano a Napoli luccicante del mare d'autunno. Nelle orecchie avevano la voce stentorea e potente del loro capo, negli occhi i suoi pugni sui fianchi, le gambe divaricate, lo sguardo di vuoto e nero metallo. "O ci daranno il governo o lo prenderemo calando su Roma - gridava il capo - ormai si tratta di giorni, forse di ore!": grida, sventolio di bandiere, pugnali, fucili, mani, fazzoletti. Il sole fissava, immobile. La piazza ruggiva: voleva Roma, voleva l'Italia, voleva il mondo intero. Cinque giorni dopo aveva Roma e l'Italia. Poi avrebbe cercato di prendersi anche qualche fetta di mondo. Era il 1922. Cosa li aspettava - ai giovanotti -, cosa ci aspettava, noi tutti, generazioni presenti e future, è scritto nei testi di storia e nelle cicatrici fumanti d'Italia. Fascismo: parola corvina, lunga notte di paura. Notte senza fine, pensava Pier Paolo Pasolini.

È difficile, forse impossibile, parlare di Pasolini, anche solo di Pasolini poeta, senza andare a sbattere, più prima che poi, contro il fascismo. Per lui fu come un'ossessione perenne, prima sotto la forma del fascismo storico e poi in quella, più velenosa e strisciante, di categoria eterna che riassume in sé il conformismo, il disprezzo per il diverso, l'appiattimento intellettuale, il bla-bla politicante.
Tanto vale farlo subito, allora. Tanto più che la coincidenza tra le date è, se non simbolica, almeno suggestiva. Pasolini era nato a Bologna proprio in quel fatidico 1922, "anno immerso nel secolo", come dirà più tardi in un verso. Bologna, e per estensione l'Appennino tosco-emiliano, Casarsa in Friuli e Roma sono i tre luoghi della crescita intellettuale, della memoria struggente e della sfida di Pasolini critico, poeta e intellettuale "corsaro". Ultimo maledetto nel cercare scampo alla vita nella poesia, nel cercare di mettere tutto - passione, amore, odio, vita, morte - nei suoi versi. Nel restare ucciso, infine, per mano di un Narciso - di quelli tante volte cantati e amati - proprio dal sistema contro il quale si era scontrato, da sempre. Perché, tra le altre cose, Pasolini era un personaggio scomodo: spietatamente lucido, intelligente e diverso. E perciò solitario.
Di Pasolini resta molto. Gli scritti, tanti, di tutti i generi: poesie, romanzi, sceneggiature, interventi critici, articoli, saggi. Tutti concepiti sotto il segno della passione viscerale, uniti dal medesimo orgoglio intellettuale e, nonostante le inevitabili e necessarie differenze di stile, concentrati intorno ad alcuni nodi tematici fondamentali. Che, come vedremo, sono allo stesso tempo individuali-privati e universali-storici, testimoni di un contrasto mai sanato tra la condizione esistenziale del poeta e la sua necessità di farsi portavoce di un gruppo sociale, individuato diversamente nelle varie fasi della sua produzione ma sempre collocato al più basso gradino della scala sociale, tra i miseri, i diseredati, gli esclusi dalla storia dei grandi e dei potenti.
Ah, il popolo. Cos'è il popolo? Chi è il popolo? Pasolini se lo chiese per tutta una vita. Lui, il borghese figlio di borghesi, di antica famiglia ravennate - ma il padre aveva sperperato tutto il patrimonio, e perciò si era arruolato, povero in canna, per l'impresa di Libia - era dolorosamente consapevole di essere per sempre escluso dalla massa dei poveri (eccolo qui, il popolo) in cui, prima che una "classe" nel senso politico del termine, riconosceva una forma di vita innocente, incontaminata e pura. Da qui sono nate le sue prime poesie. Perché va anche detto che Pasolini, variamente definito "provocatore ideologico" piuttosto che "coscienza critica della cultura italiana" - tutto vero, naturalmente - volle essere e fu prima di tutto poeta. Come accadde, lo raccontò lui stesso, rifacendosi a un episodio accaduto quando aveva sette anni. "È stata mia madre che mi ha mostrato come la poesia possa essere materialmente scritta, e non solo letta a scuola. Misteriosamente, un bel giorno, mia madre infatti mi presentò un sonetto, composto da lei, in cui esprimeva il suo amore per me (non so per quali costrizioni di rima la poesia finiva con le parole 'di bene te ne voglio un sacco'). Qualche giorno dopo scrissi i miei primi versi: dove si parlava di rosignolo e di verzura. Credo che non avrei saputo distinguere allora un rosignolo da un fringuello, come del resto un pioppo da un olmo. Fatto sta che ho cominciato come rigidamente selettivo ed eletto". Pasolini non era certo tipo da usare le parole a caso. Selettivo ed eletto, dunque. Indubbiamente, lo è sempre stato. E poi, la madre, cui era legato da un "disperato amore" (sono sempre parole sue): "Parma, un viale, e il riso di mia madre" è il primo verso di una poesia. Col padre, invece, le cose non andavano proprio così. Presenza intermittente per molti anni a causa delle lunghe campagne militari, impersonava gli occhi del figlio il più cieco conformismo, la totale mancanza di naturalezza e spontaneità (doti che invece riconosceva e amava nella madre). E il fossato sarebbe col tempo diventato incolmabile, anche se il padre "gongolava" per i successi scolastici del figlio e per la sua evidente e precoce vocazione letteraria.

La prima raccolta, Poesie a Casarsa, uscì a spese di Pasolini nel 1942, a Bologna, città dove la famiglia era tornata dopo molti anni di traslochi continui legati ai trasferimenti di caserma in caserma dell'ufficiale Carlo Alberto Pasolini. Lì Pier Paolo frequentò l'università, laureandosi in lettere con una tesi su Pascoli (in cui riconosceva un maestro soprattutto per le scelte linguistiche, fondamentali per entrambi) e divenne amico di Roberto Roversi e Francesco Leonetti. Con loro visse la grande stagione dell'ermetismo, fondando nel 1941 una rivista dal significativo titolo Eredi. Nel 1942, dunque, aveva appena vent'anni. Le poesie pubblicate erano state scritte nei tre anni precedenti, a Casarsa ma più spesso lontano da lì. Casarsa era il paese della madre, e ogni estate Pasolini ci andava a passare l'estate nella "povera villeggiatura presso parenti che il magro stipendio di mio padre ufficiale ci permetteva". Questo come notazione storico-geografica. Nella poesia Casarsa diventò il luogo della purezza, della gioventù bella e accesamente sensuale, del mondo come doveva essere prima che iniziasse la Storia: un mondo deve la natura e l'uomo potevano ancora essere tutt'uno. In quest'ottica, la scelta del dialetto come lingua d'elezione si imponeva da sola. Fu una scelta emotiva, prima che intellettuale. In seguito Pasolini si accorse che poteva e doveva essere anche un rifiuto della cultura nazional-fascista che imponeva l'abbandono di idiomi e particolarismi locali in ossequio alle direttive del centro. Ma all'inizio fu, appunto, la scoperta emozionante dell'esistenza di una lingua che possedeva riserve intatte di gusto, sapienza, liricità, di contro alla lingua nazionale impoverita, sfruttata ed esausta. "Su quel poggiolo (a Casarsa) stavo disegnando oppure scrivendo quando risuonò la parola rosada. Era Livio, un ragazzo dei vicini oltre la strada.[º] La parola "rosada" pronunciata in quella mattinata di sole non era che una punta espressiva della sua vivacità orale. Certamente quella parola, in tutti i secoli del suo uso nel Friuli che si stende al di qua e al di là del Tagliamento, non era mai stata scritta. Era stata sempre e solamente un suono. Qualunque cosa quella mattina io stessi facendo, dipingendo o scrivendo, certo m'interruppi subito. E scrissi subito dei versi, in quella parlata friulana della destra del Tagliamento, che fino a quel momento era stata solo un insieme di suoni: cominciai per prima cosa col rendere grafica la parola rosada".

Poesie a Casarsa uscì nel totale silenzio della critica, salvo che per una - ma illustrissima - voce: quella di Gianfranco Contini, che recensì il volumetto sul Corriere di Lugano proprio per le resistenze del regime a dare notorietà a un poeta dialettale. Ciò nonostante, fu per Pasolini un momento di felicità completa: "Chi potrà mai descrivere la mia gioia? - ricordava - Ho saltato e ballato per i portici di Bologna; e quanto alla soddisfazione mondana cui si può aspirare scrivendo versi, quella di quel giorno di Bologna è stata esaustiva: ormai posso benissimo farne per sempre a meno". Che differenza con quanto avverrà dopo, quando ogni prova pubblica di Pasolini sarà accompagnata da un coro di recensioni, premi, applausi, insulti, denunce, processi. Il volumetto, dunque, nasce così, come un gioiellino prezioso e nascosto. Prezioso perché tale è la lingua scelta: dialetto, sì, ma raffinato e coltivato come "lingua pura per poesia". Non a caso nella prima pagina si leggevano alcuni versi di Peire Vidal, poeta provenzale. Il richiamo a quella lirica ci fornisce un'indicazione importantissima sulle scelte dell'autore: Pasolini non è lontano dalla sua terra (anche se molti di questi versi furono effettivamente scritti a Bologna o altrove, quando più forte si faceva sentire la nostalgia) ma si sente ugualmente esule, tagliato fuori dalla possibilità di attingervi direttamente, di goderla in prima persona come i giovanetti (ideali proiezioni di se stesso) che si muovono leggiadri tra fontane e prati; lui, malato di un'altra civiltà e di un'altra sensibilità colta, sensuale e decadente. Il sentimento di pienezza e felicità che deriva dalla contemplazione della propria terra è quindi minato alla radice, e perciò le soavi e tenere immagini di cui sono fatte le liriche si concludono spesso con un richiamo alla morte. Il Friuli è evidentemente una terra mitica e il dialetto l'unica chiave possibile per tentare di recuperare quel mito che ha tuttavia in sé, fin dall'inizio, i germi della decadenza e della morte. Come se Pasolini proiettasse sulla terra di sua madre la madre stessa, e vivesse per Casarsa lo stesso genere di amore disperato per lei e per la sua infanzia felice. Ma finita, passata per sempre.

L'8 settembre 1943 Pasolini, militare da appena una settimana, rifiutò di consegnare le armi ai tedeschi e scappò insieme alla madre e al fratello (il padre era prigioniero di guerra in Africa) a Casarsa, dove rimase fino alla fine della guerra e oltre. A chi, in seguito, gli rimproverò di non aver fatto nient'altro che questo contro il fascismo, rispondeva che anzi, la sua partecipazione alla Resistenza era stata tale da farlo finire in camera di sicurezza; dopo di che era vissuto nascosto e terrorizzato all'idea di finire uncinato (fine riservata ai giovani del litorale adriatico renitenti alla leva o antifascisti). Ciò nonostante, non poteva restare inattivo almeno dal punto di vista della cultura. Insieme ad alcuni amici pubblicò il quaderno Stroligut di ca' de l'aga (L'indovino di qua dell'acqua, cioè della sponda destra del Tagliamento) dove la poetica dialettale viene approfondita diventando, ora sì, anche strumento di opposizione al regime e rivendicazione di dignità di lingua: le traduzioni in italiano sono abolite (mentre erano incluse nelle Poesie a Casarsa) e grandi poeti stranieri (come Verlaine e Wordsworth) vengono tradotti in friulano. Dopo la guerra quest'esperienza confluì nell'Academiuta di Lenga Furlana, un gruppo di studio che affiancava alle iniziative di tipo culturale (incluse lezioni private gratuite ai figli dei contadini poveri che avevano smesso di andare a scuola) anche precise richieste politiche in merito all'autonomia del Friuli nell'ambito della neonata repubblica. Intanto due morti avevano segnato la vita di Pasolini: quella della nonna materna, le cui fasi dall'agonia alla sepoltura Pasolini accompagnò con una serie di brevi componimenti in italiano (Guardaci timidamente / dal cielo / come quando nel buio / di questa casa, / sconfortata sedevi) e, poco dopo, quella del fratello partigiano, ucciso nel noto eccidio di Porzus, vicino al confine jugoslavo, in cui i partigiani di Tito, che intendevano allora annettersi il Friuli, massacrarono la brigata Osoppo.

Pasolini si stava dunque "storicizzando". La sua poesia, da questo momento, non fu più solo di disperato amore per il Friuli e la sua bella gioventù, non fu più solo rimpianto accorato. Vi entrò il popolo, questa nuova forza, vergine e potente, che sarebbe potuta irrompere nella storia con violenza inaudita e benedetta. C'era, doveva esserci, una possibilità di riscatto per il popolo, all'ombra delle belle bandiere (gli stracci rossi) che allora venivano sventolate; Cristo l'aveva promesso: "Piegatevi, gente cristiana, / a sentire un filo di voce, / fra tutto questo silenzio, / che scende dalla croce". Sono queste le componenti del "populismo evangelico" che animerà Pasolini. Una religione-passione, simboleggiata dalla figura del Cristo povero e sofferente e nutrita di simboli arcani, tratti dalla religione pagana e contadina dei suoi friulani ("Verrà il vero Cristo, operaio") in aperto contrasto con la religione-autorità, fortemente compromessa coi fascismi di tutti i tempi, e l'attesa della riscossa da parte del popolo, serbatoio di verità. La "scoperta di Marx" è del 1947, contemporanea a una vicenda reale. "L'ho detto tante volte, in tante interviste: ciò che mi ha spinto a essere comunista è stata una lotta di braccianti friulani contro i latifondisti, subito dopo la guerra (I giorni del lodo De Gasperi doveva essere il titolo del mio primo romanzo, pubblicato poi nel 1962 con il titolo Il sogno di una cosa). Io fui coi braccianti. Poi lessi Marx e Gramsci". Il sogno era per l'appunto la speranza di rinnovamento e giustizia sociale che si sentiva fortissima in Italia, dopo la guerra. Pasolini si impegnò in prima persona, con la passione di sempre, perché quel sogno diventasse realtà. Dopo l'iscrizione al PCI divenne segretario di sezione, e da quella posizione condusse le molte battaglie dell'epoca: quelle per le elezioni del 1946 e per il referendum istituzionale del 1948; quelle antidemocristiane e anticlericali; quelle per l'autonomia del Friuli. Pio XII scomunicava i comunisti e lui affiggeva tatzebao contro i preti sotto il loggiato della piazza di Casarsa. L'intellettuale, pensava Pasolini, aveva il dovere di creare una nuova cultura, una cultura che voleva "trasformare la preistoria in storia, la natura in coscienza" per usare le sue stesse parole. Utopiche, certamente. Come tutte le belle speranze dei bei momenti in cui sembra che tutto possa accadere fuorché una mutazione gattopardesca delle cose, delle persone, delle istituzioni.
Nell'inverno del '49, scrisse Pasolini, "fuggii con mia madre a Roma, come in un romanzo. Il periodo friulano era finito". Perché questa fuga a rotta di collo, come un braccato, come un delinquente, proprio in un periodo così pieno di speranza? Alcune biografie tacciono, ma i fatti sono ormai risaputi. Pasolini era diventato, per la legge, esattamente questo: un delinquente. In un paese come il nostro, dove il comune senso del pudore, con tutti i suoi necessari corollari di ipocriti silenzi e altrettanto ipocrite denunce a gran voce, ha sempre vinto tutte le sue battaglie e affossato tutte le sue vittime, forse non poteva finire altrimenti che così. Pasolini insegnava allora nella scuola media di un paese vicino a Casarsa. Nell'ottobre del 1949 venne accusato di "corruzione di minorenni e atti osceni in luogo pubblico". Pochi, forse nessuno, sapevano allora della sua omosessualità. Fu una vera bomba, probabilmente montata ad arte e strategicamente strumentalizzata dalla stampa cattolica locale. Fatto sta che il poeta si trovò insultato, accusato, minacciato, espulso dal PCI "per indegnità morale e politica" e, naturalmente, processato; processi dai quali uscì prosciolto, nel 1950 per l'accusa di corruzione di minorenne, e nel 1952 per quella di atti osceni in luogo pubblico (per insufficienza di prove). A Roma Pasolini abitò dapprima nel "ghetto" vicino al Portico d'Ottavia e in seguito a Rebibbia, vicino al carcere, nelle borgate lungo la Tiburtina. "Per due anni - raccontava - fui un disoccupato disperato, di quelli che finiscono suicidi; poi trovai da insegnare in una scuola privata a Ciampino per ventisettemila lire al mese". Di affitto ne pagava tredici. Furono anni "di lavoro accanito, di pura lotta". E in casa l'atmosfera non era certo serena, specie dopo il ritorno del padre. "E mio padre sempre là - continuava il poeta - in attesa, solo nella povera cucinetta, coi gomiti sul tavolo e la faccia contro i pugni, immobile, cattivo, dolorante; riempiva lo spazio del piccolo vano con la grandezza che hanno i corpi morti". Quel periodo di "pura lotta" cominciò a sciogliersi, all'inizio degli anni Cinquanta, grazie all'aiuto di alcuni amici. Il poeta dialettale Vittorio Clemente gli trovò il posto a scuola; lo scrittore Giorgio Bassani gli presentò registi di Cinecittà come Soldati, Fellini, Flaiano coi quali Pasolini collaborò alla preparazione di numerosi film (per La donna del fiume di Soldati scrisse la sceneggiatura, così come per Il prigioniero della montagna, insieme a Bassani; Fellini lo volle come filologo per curare le battute in romanesco delle Notti di Cabiria). Nel 1955 Pasolini fondò a Bologna, con Leonetti e Roversi (dell'antico gruppo di Eredi) una nuova rivista letteraria, Officina. Il ruolo di Officina come luogo di confronto e dibattito sui compiti della letteratura e degli intellettuali, come occasione di verifica ideologica (in un momento delicatissimo per il PCI quale fu quello seguito all'indimenticabile 1956), è noto. Alla rivista collaborò, entrando poi nel comitato di redazione, anche Franco Fortini, tanto per fare un nome. Più o meno nello stesso periodo furono pubblicate le poesie e le prose scritte da Pasolini dopo la guerra, dunque in parte risalenti ancora agli anni di Casarsa. Ragazzi di vita, il romanzo sulla periferia romana e i suoi abitanti, uscì nel 1955. Accusa di oscenità, nuovo processo. Riesplodeva il "caso" Pasolini. Non si sarebbe chiuso che vent'anni dopo, con la sua morte.

Le Poesie a Casarsa, più altre in dialetto, furono riunite nel volume La meglio gioventù e pubblicate nel 1954. Poi ci fu un'inversione cronologica. Nel 1957, infatti, usciva Le ceneri di Gramsci, poesie composte tra il '51 e il '56, e solo nel 1958 (per una serie di motivazioni editoriali e di stesura) L'usignolo della Chiesa cattolica, scritto molto prima, tra il 1943 e il 1949. Queste due raccolte costituiscono uno snodo fondamentale nella poetica pasoliniana, e pertanto è necessario tenere ben presente le date di composizione e non quelle di pubblicazione. Nell'Usignolo, infatti, vive ancora il mondo friulano arcaico e mitizzato cui si accennava prima, percepito dal poeta con tutti i suoi accesi sensi e al contempo con tutta la sua inquietudine esistenziale; e insieme si trova un cristianesimo primitivo e, per la Chiesa, sacrilego, nel quale Cristo è prima di tutto sofferenza della carne, sangue e patimento. Un Cristo eretico, diverso, il cui martirio fa nascere una domanda ineludibile: "Perché Cristo fu esposto in croce?" Perché "esibire la sua morte?" Bisogna esporsi, dunque. È questo l'insegnamento di quell'uomo dal "corpo di giovinetta", insanguinato e inchiodato al suo albero di dolore. E questo è il significato del crocefisso: "sacrificare ogni giorno il dono / rinunciare ogni giorno al perdono / sporgersi ingenui sull'abisso" e tremare "d'intelletto e passione nel gioco / del cuore arso dal suo fuoco / per testimoniare lo scandalo".
La vibrazione di questi versi è fortissima, ed è facile immaginare come la cognizione della sofferenza sulla gogna, col corpo esposto al ludibrio, fosse vissuta in tutta la sua drammaticità dal poeta. Dio è sempre più lontano, e sembra non ascoltare la voce di questo Cristo che chiede, invoca perdono. La religione, sia pure quella della tradizione contadina, che aveva animato secoli di feste paesane e liturgie nelle povere chiesette friulane, nelle ingenue e sante preghiere dei poveri, non basta più a Pasolini. La Storia rimette in gioco il popolo, e questa volta sembra dargli una possibilità nuova, concreta. Il marxismo, ora, è la speranza. "Pasolini - scrive Luigi Martellini - percorre razionalmente i sentieri periferici che lo portano istintivamente, e passionalmente, verso la ricerca della giustizia". È questo il passaggio fondamentale che avviene con Le ceneri di Gramsci. Passaggio contraddittorio - e Pasolini ne è tanto consapevole che parla, in un verso, di "scandalo del contraddirmi" - tra intelletto e passione, tra razionale e irrazionale, tra necessità di capire la realtà (quella nuova realtà delle borgate e del sottoproletariato romano in cui Pasolini si trova a vivere) e adesione emotiva a un ideale di riscatto che non può essere spiegato razionalmente. È la parte centrale delle Ceneri: "lo scandalo di contraddirmi, dell'essere / con te e contro di te; con te nel cuore / in luce, contro te nelle buie viscere" - Pasolini qui si rivolge direttamente a Gramsci; e più avanti: "attratto da una vita proletaria / a te anteriore, è per me religione / la sua allegria, non la millenaria / sua lotta: la sua natura, non la sua coscienza". Ma anche il marxismo, nella sua applicazione pratica, nella prassi militante dei suoi dirigenti, rivela presto l'incapacità di conoscere la millenaria vita proletaria del popolo; e ciò diventa ancor più evidente per Pasolini dopo i fatti del 1956, anno in cui scrive tre poemetti. Il popolo è stato tradito dai "compagni di strada" che chiedono "il mistico rigore di un'azione / sempre pari all'idea"; mentre "è all'errore / che io vi spingo, al religioso / errore"; e ancora, rivolgendosi ai dirigenti del PCI: "avete, accecati dal fare, servito / il popolo non nel suo cuore / ma nella sua bandiera: dimentichi / che deve in ogni istituzione / sanguinare, perché non torni mito, / continuo il dolore della creazione".

Negli anni Sessanta Pasolini scrive ancora poesie, molte, che confluiranno nelle raccolte La religione del mio tempo, Poesia in forma di rosa, Trasumanar e organizzar (l'ultima, nel 1971). In esse giunge a compimento la crisi poetica di Pasolini, che comincia a preferire nuove forme espressive (il cinema, com'è noto. Il primo film, Accattone, è del 1961).
Lo dichiara apertamente nel 1967: "non scrivo più poesie da due o tre anni. Questo non me lo sarei mai aspettato. Perché non scrivo più? Perché ho perduto il destinatario. Non vedo più con chi dialogare usando quella sincerità addirittura crudele che è tipica della poesia. Ho creduto per tanti anni che un destinatario delle mie 'confessioni' esistesse. Mi sono dunque accorto che non esiste".
Cos'era accaduto? La Storia era andata avanti, era penetrata nel sottoproletariato: gli aveva portato la televisione, le lotterie, i rotocalchi; gli aveva innestato bisogni fasulli, appiattendo quell'allegria fuori dal tempo in cui Pasolini riconosceva e identificava la propria religione. Il popolo era stato "organizzato", imborghesito a furia di elettrodomestici e automobili. "Altre mode / altri idoli, / la massa, non il popolo, la massa / decisa a farsi corrompere / al mondo ora si affaccia, / e lo trasforma, a ogni schermo / a ogni video / si abbevera, orda pura che irrompe / con pura avidità, informe / desiderio di partecipare alla festa. / E s'assesta là dove il Nuovo Capitale vuole".
Anche il miraggio dell'Africa, unica alternativa al disfacimento di cui si sentiva circondato, svanì ben presto. Il vero nemico, invincibile, è la borghesia antropofaga; ed è contro questo Leviatano del XX secolo che si batte negli ultimi anni della sua vita con sempre più numerosi interventi su giornali e riviste, con articoli di denuncia e pubbliche dichiarazioni, con prese di posizione apertamente polemiche: all'indomani degli scontri a Valle Giulia, preambolo del 1968, scrive rivolgendosi agli studenti: "I ragazzi poliziotti / che voi per sacro teppismo (di eletta tradizione risorgimentale) / di figli di papà, avete bastonato / appartengono all'altra classe sociale. A Valle Giulia, ieri, si è avuto così un frammento / di lotta di classe: e voi, amici (benché dalla parte / della ragione), eravate i ricchi, / mentre i poliziotti (che erano dalla parte del torto) erano i poveri. Bella vittoria, dunque, / la vostra!". La poesia di Pasolini è ora quasi prosa; ma si tratta ancora una volta di una scelta precisa: lontani i tempi delle sperimentazioni e delle infinite libertà espressive date dal dialetto, si impone l'urgente necessità di entrare, a partire dal linguaggio, nella realtà storica, per denunciarne, con ogni mezzo, il nuovo fascismo. Comincia la stagione di Pasolini intellettuale "corsaro", pubblico accusatore dei guasti della classe al potere, nella quale individua, facendo nomi e cognomi, i responsabili dello sfascio delle istituzioni e del paese intero. Stagione breve, tragicamente interrotta in una notte di novembre del 1975. In quella notte, alla periferia di Roma, Pasolini fu esposto, pesto e sanguinante, sulla sua croce. "Storia di froci", dissero.

Ricordiamo. Ragazzi e ragazze, uomini e donne, uniti dal silenzio, guardano passare una bara, alta sulle loro teste. Alcuni sollevano il pugno chiuso, altri abbassano la testa. Il popolo, qualsiasi cosa sia, saluta il suo disperato amante.

Olivia Trioschi

Lentamente muore

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine, ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marcia, chi non rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce. Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i" piuttosto che un insieme di emozioni, proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti. Lentamente muore chi non capovolge il tavolo, chi e' infelice sul lavoro, chi non rischia la certezza per l'incertezza per inseguire un sogno, chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati. Lentamente muore chi non viaggia, chi non legge, chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso. Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio, chi non si lascia aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante. Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo, chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce. Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare. Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.

P. Neruda

giovedì 27 dicembre 2007

Democrazia

Democrazia classica IV secolo AC

Atene fu la più importante città stato greca. In precedenza erano nate molte di queste città governate da tiranni in un primo momento e da clan successivamente.
Dato che queste città iniziarono un periodo di grande sviluppo si ebbe un notevole aumento della popolazione, così la classe popolare iniziava a influenzare sempre di più la classe dominante, costringendola a sempre maggiori concessioni e patti. Atene toccò l’apice di questa fiorente attività politica, infatti, abbiamo proprio in questa città, il primo esempio di democrazia.
Essa fu raggiunta grazie all’unione tra il suffragio universale (inteso con il voto di tutti i cittadini liberi maschi ateniesi di nascita) con la crescente alfabetizzazione del popolo che permise la stipulazione delle prime costituzioni. Per capire a fondo la democrazia classica ateniese, bisogna tener conto dei grandi pensatori dell’epoca, che hanno contribuito a formularla e descriverla.
Pericle nella sua opera “Orazione funebre” descrive gli ideali e gli scopi dell’antico popolo greco come la libertà, con la quale chiunque potrebbe accedere a qualsiasi carica pubblica solo in base alle proprie capacità e non al prestigio o alla ricchezza. La libertà intesa a rispettare le leggi auto-imposte nell’interesse della maggioranza più tosto che le leggi tiranniche.
Aristotele nella sua opera “Politica”, descrive i meccanismi del sistema democratico ateniese. L’equilibrio che si raggiunge dando al popolo (quindi la classe più povera) maggiore influenza, permette di stabilizzare il potere con le classi più potenti (minoranza). Aristotele descrisse anche alcuni importanti accorgimenti che vennero presi per salvaguardare la libertà e l’eguaglianza, quali: l’eliminazione del censo, il divieto di rieleggibilità, la retribuzione della partecipazione politica, lo stesso peso del voto politico a tutti, il suffragio aperto a una fascia larghissima della popolazione e infine l’assenza di una carica veramente sovrana.
Lo schema del potere era il seguente: La cittadinanza era il corpo sovrano che veniva diviso in distretti che davano vita alle assemblee generali nelle quali si eleggevano i generali, i magistrati e i membri del consiglio esecutivo che guidava la vita delle assemblee e che a sua volta era diretta da un presidente non rieleggibile e in carica un solo giorno.
Senofonte, attraverso i suoi racconti, mette in evidenzia i difetti e i problemi legati a questo sistema democratico. Giudicava infatti il popolo troppo impulsivo e irrazionale nelle questioni pubbliche, per questo si commettevano dei gravi errori politici data la sua diretta influenza nelle questioni pubbliche.
Infine, ma non meno importante, Platone arricchisce la conoscenza di questa antica civiltà grazie alla sua opera “Repubblica”, scaturita dallo studio di varie forme di governo (tirannia, democrazia, oligarchia..) ne concluse una forte critica alla democrazia, definita non ideale per governare, in quanto non sollecita i governanti a fare le scelte giuste a causa della dipendenza dal consenso. Propose addirittura un governo oligarchico di filosofi, giudicati gli unici capaci di governare con saggezza.
Il sistema ateniese alla fine crollò. La sua economia basata sullo schiavismo e indipendente da una politica di mercato statale, fallì definitivamente. Ma l’esperienza ateniese lascerà un importante primo passo verso la democrazia.

Contributi di Hobbes e Locke 1600/1650

Hobbes, afferma che la politica è fondata sul perseguimento dell’interesse privato e sostenendo che l’uomo si trova in uno stato di natura conflittuale, pone la necessità di un accordo tra gli uomini al fine di regolamentare questo diverbio umano limitandone le conseguenze. L’accordo sarebbe la cosciente cessione del diritto di auto-governo dei cittadini ad una singola autorità autorizzata legalmente attraverso il voto.
Grazie a questo sistema, il popolo resterebbe obbediente al governante, proprio perché si tratta di una libera scelta voluta e necessaria. E’ quindi il consenso del popolo l’elemento principale del funzionamento di un sistema. Ma Hobbes, nonostante fosse liberale, finisce per contraddirsi quando afferma che il consenso è l’unico vincolo posto a chi governa, lasciando nelle mani dell’eletto un eccessivo potere.
Locke fu un precursore della democrazia protettiva, smentendo la tesi di Hobbes e affermando che se l’uomo è in stato di abituale conflitto per il perseguimento dei propri interessi, come potrebbe rimettere la propria fiducia in un sovrano?
Come Hobbes, Locke, si proponeva di capire come si potesse definire un governo legittimo, ma le sue deduzioni lo porteranno a risultati molto distanti dal suo predecessore. Innanzitutto pone che lo stato di natura in cui vive l’uomo, non è uno stato di guerra, ma è uno stato di libertà pura, dove ognuno esercita giustamente il diritto di auto-governarsi. Ci sono però alcuni inconvenienti che devono essere risolti con la necessaria presenza di un governo sovrano, che ha quindi, solo lo scopo di difendere il cittadino dai soprusi alla propria libertà, la propria vita e la proprietà privata.
Il governo andrebbe quindi limitato nelle sue funzioni, attraverso delle costituzioni che mettono in chiaro i principi della sua esistenza e i diritti inviolabili dei cittadini. Nel momento in cui il governo non si attiene più a questi principi, al popolo resterebbe il potere di revocarlo. Nelle lacune lasciate da Locke c’è il fatto che non si propose una scadenza periodica (tornate elettorali) del mandato legale nei confronti del governante. Locke comunque ispirerà profondamente il moderno modello rappresentativo.

Contributi dei federalisti e di Madison 1750

Madison, con la sua opera “federalista” integrò i principi maggiori di Hobbes, Locke e Montesquieu. D’accordo con Hobbes, affermò che la politica fosse fondata sull’interesse privato. Da Locke riprese l’ideale di libertà individuale da difendere come fine principale di un governo. Infine dal pensiero di Montesquieu trattenne il concetto della divisione dei poteri.
Madison criticava la democrazia classica ritenendola ingiusta, intollerante e instabile. Sostenne che anche nell’esperienza greca dove ci si nascondeva dietro l’interesse pubblico, in realtà i governanti curavano soltanto i propri interessi.
Nella società moderna, la nascita delle fazioni era inevitabile, afferma Madison, a causa della distribuzione diseguale della ricchezza. Il governo, dunque, avrebbe lo scopo di regolarne i contrasti.
Il modello sostenuto ottimale da Madison, era quello di un potente stato americano federalista, che avrebbe promesso la funzione prevista, attraverso periodiche elezioni unite all’impossibilità di una dittatura della maggioranza data la vastità del corpo elettorale e di un sistema parlamentare rappresentativo. Si pone quindi favorevole a un governo veramente popolare, ma solo con la sicurezza che non ci sia una tirannia della maggioranza.

Contributi degli utilitaristi, Bentham e Mill 1800

Bentham e Mill sostennero che se l’uomo per regolamentare il conflitto dei propri interessi deve ricorre ad un sovrano, quest’ultimo agirà comunque nel suo interesse quindi, conclusero che il governo sarebbe dovuto dipendere completamente dall’elettorato. Entrambi posero i presupposti necessari affinché la democrazia possa esistere in maniere adeguata.

La competizione tra i politici.
La separazione dei poteri
La libertà di pensiero, di stampa...
Questi punti saranno saranno il nocciolo del liberalismo inglese, secondo cui il governo sarebbe ridotto al ruolo di arbitro imparziale nel suo interno e garante all’esterno del confine di stato.
Secondo il pensiero di Bentham e Mill, il governo, per mantenere l’obbedienza dei suoi cittadini dovrà:
Fornire assistenza
Produrre abbondanza
Favorire eguaglianza
Garantire sicurezza.
A proposito dell’ultimo punto, furono proprio gli utilitaristi che insistettero per la creazione del moderno sistema carcerario. Anche Adam Smith contribuì alle loro concezioni utilitaristiche, che divennero una vera e propria sfida all’eccessivo potere dei governi.
Le loro teorie ispireranno la moderna politica del Welfare. Essi furono gli ideatori del primo modello di democrazia per uno stato industriale.

Il contributo di John Stuart Mill 1850

A differenza dei suoi predecessori, John Stuart Mill, lo si può considerare democratico in senso pieno. Aspetto fondamentale del suo pensiero fu la libertà di cui avrebbero dovuto godere tutti. Bisognerebbe, affermò J.S. Mill, che la partecipazione politica del popolo è necessaria e va incitata attraverso tutti gli organi pubblici come l’amministrazione comunale ecc..
La sua opera principale “On liberty” espone chiaramente i principi di libertà dei cittadini per cui si sarebbe dovuta creare una forma efficiente di controllo reciproco tra governo e governati. Le sue teorie posero le basi del moderno stato liberale.
Criticò aspramente il sistema dispotico con l’opera “Considerations on representative governement”, dove sostenne che non è possibile l’idea che un solo uomo possa amministrare in maniere adeguata uno stato. Aggiunse anche che sarebbe stato contro la dignità umana eliminare la voce dei cittadini sulle decisioni che li riguardano. Quindi, era dell’idea che solo una attiva partecipazione del popolo, nei limiti, avrebbe indirizzato uno stato verso la prosperità.
Mill espose in maniera dettagliata il problema della burocrazia, che strettamente collegata al evolversi dello stato cresceva rischiando di aumentare in maniera eccessiva il suo potere. Necessario sarebbe che oltre lo stato ci siano altri punti di riferimento in termini di sviluppo in modo da mantenere un equilibrio tra forze che si controllino a vicenda.
L’importanza di un governo rappresentativo, Mill, la giustificò affermando che il modello di democrazia classica (diretta) ateniese, non poteva funzionare, data la grande estensione degli stati. Sarebbe stato necessario un sistema rappresentativo, quindi, che vigili sull’operato del governo attraverso deputati periodicamente eletti. Inoltre aggiunse la necessità di della costante presenza di persone insigni, che svolgano una funzione di controllo del governo ulteriore rispetto a quella popolare, giudicata poco esperta.
Lo stato così, si sarebbe dovuto limitare alle sue funzioni primarie di difesa delle libertà, della vita e della proprietà, senza applicare nessun tipo di restrizioni al libero mercato.
Mill prese, tra l’altro, una posizione innovativa riguardo alla condizione delle donne, in contrapposizione a tutti i suoi colleghi dell’epoca. Affermava che la subordinazione del sesso femminile, colpiva lo sviluppo dell’uomo e lo limitava. Anche se non proponeva di cambiare le cose all’interno dei partiti già esistenti, bensì, che le donne avrebbero dovuto affermarsi da sole democraticamente.
Cercando di unire i principi migliori del liberalismo coi principi migliori dell’antiliberalismo, Mill, ispirerà il futuro welfare state.

I contributi di Marx e Engels 1800/1850

Marx e Engels, causarono una rottura drastica con il pensiero liberale, sostenendo che esso è incompatibile con la giustizia e l’eguaglianza. Essi proposero sistemi politici totalmente diversi e nuovi.
Il pensiero di Marx si basa sugli scritti di Engels. Quest’ultimo nell’opera “L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello stato” racconta la nascita delle classi sociali in seguito alla creazione della proprietà privata in contrapposizione alla proprietà comune preesistente.
Marx sviluppò questa tesi sostenendo che il sistema vigente si basava proprio sulla divisione del popolo in classi. Più precisamente, lo sfruttamento della classe più povera da parte di quella che detiene la proprietà dei mezzi di produzione.
Entrambi erano d’accordo all’idea che se si superasse il capitalismo, anche le classi sociali non avrebbero più ragione d’esistere e scomparirebbero.
Marx focalizzava il suo pensiero sulla comprensione del processo storico, perciò stabilì due concetti principali per questa analisi.
LA FORMAZIONE SOCIALE Ovvero l’analisi di quella rete di rapporti sociali, culturali e istituzionali interni alla società.
IL MODO DI PRODUZIONE Cioè la struttura essenziale della società, in questo caso capitalista, quindi con lo sfruttamento della manodopera. Lo sfruttamento avviene con il metodo del plusvalore in eccesso creato nel processo produttivo, sottratto dal proprietario dei mezzi di produzione a scapito della manodopera.
In rapporto a questi due concetti, nelle società si sviluppano le lotte di classe. Esse saranno tanto più violente quanto più è mal distribuita la ricchezza in un paese. Questi conflitti portano ad un ridimensionamento periodico della differenza di ricchezza, rivoluzionando di volta in volta il sistema e attuando un passaggio da uno stadio storico ad un altro.
Nella storia umana, secondo Marx, si è attraversato 5 differenti stadi storici: Modo produttivo primitivo, Modo produttivo antico, Modo produttivo feudale, Modo produttivo capitalistico, Modo produttivo post-capitalistico.
Il pensatore, sosteneva che il prossimo stadio storico sarebbe stato quello che è comunemente chiamato modo produttivo comunista. I motivi tecnici per cui, secondo Marx, sarebbe avvenuto questo passaggio storico, sono i seguenti:
Nel capitalismo, i beni sono prodotti essenzialmente per il profitto non per la soddisfazione dei bisogni umani.
Il capitalismo, non è un sistema armonioso, esso causa periodiche crisi e conseguenti conflitti sociali.
Intrinseco al modello capitalistico è il fatto che si susseguono periodi di “boom economici” a periodi di gravi crisi.
Nei periodi di crisi, avviene un concentramento delle industrie producendo oligopoli e monopoli e una fitta rete di interdipendenza tra le imprese, che diventano più instabili. Infatti il fallimento di una di esse può produrre un devastante effetto domino.
Gli effetti peggiori delle crisi si ripercuotono sulle classi deboli che intensificheranno quindi la lotta di classe.
I conflitti di classe nel tempo producono organizzazioni capaci di sfidare lo stato democraticamente e non.
Il comunismo che è il fine di queste organizzazioni, non è che il naturale passo successivo all’evoluzione della democrazia.
Il capitalismo, quindi non è, per Marx, compatibile a lungo termine col sistema democratico. Nel modello democratico-capitalista, lo stato assume la funzione di arbitro imparziale, ma questo trattamento apparentemente egualitario produce degli effetti di parte, in quanto la difesa della proprietà privata della produzione, scartava per forza la possibilità di difesa del proletariato sfruttato.
Nonostante questo, il capitalismo per Marx, era stato un enorme passo avanti. Esso, infatti, aveva apportato il suffragio universale e l’eguaglianza politica. Questo però per Marx non bastava per assicurare una società socialmente giusta.
Nell’analisi marxiana dei rapporti tra lo stato e le classi sociali, vengono sintetizzate due posizioni diverse.
POSIZIONE1 con questa posizione, Marx afferma che lo stato ha un potere comunque autonomo dalla classe dominante, nonostante la minima e essenziale dipendenza da quest’ultima. Questa prima posizione, Marx la spiegò attraverso l’opera “il 18 brumaio di Luigi Napoleone”, prendendo ad esempio proprio la vicenda del generale francese che si impose al governo e perseguì i suoi scopi favorendo comunque la classe dominante, dando vita ad una sovrastruttura statale indipendente nelle sue decisioni anche se per forza compatibili con lo sviluppo economico.
POSIZIONE2 da quest’altra ottica, sostenne che stato e la sua burocrazia sono dominate dall’influenza della classe privilegiata. Questa è la posizione più problematica, dove lo stato è mascherato dall’eguaglianza della libertà ma svolge essenzialmente il compito della difesa della classe dominante. Non è quindi auspicabile la libertà di tutti gli individui in un sistema democratico liberale, perché minerebbe le fondamenta stesse dell’assetto capitalistico.
Marx, non propose mai un modello preciso su come sarebbe dovuto essere strutturato il nuovo modello comunista, a causa della sua convinzione per cui in ogni paese si sarebbe potuto avere un modello differente. Pose però alcuni criteri essenziali di questo probabile cambiamento, nella sua opera “La fine della politica”. Secondo questa opera, il proletariato, violentemente o democraticamente si sarebbe impossessato del potere del governo e proprio da li avrebbe successivamente eliminato il potere politico, lasciando allo stato il compito di semplice amministratore della cosa comune. Il processo probabilmente sarebbe avvenuto in due periodi, denominati in seguito socialismo e comunismo. Alla fine, con l’annullamento della politica, sarebbero scomparse anche le classi sociali. Il sistema avrebbe probabilmente preso, secondo Marx, le sembianze della comune di Parigi, ovvero un ordinamento piramidale e dinamico a causa del frequente giudizio popolare.
Le teorie di Marx hanno fatto nascere diverse interpretazioni, di cui, le tre principali rispecchiano tutte dei concetti fondamentali del suo pensiero.
I MARXISTI LIBERTARI affermano che il processo di cambiamento non può avvenire attraverso un partito democratico del proletariato, solo in questo modo la rivoluzione può effettivamente eliminare la politica e assicurare lo stato comunista.
I MARXISTI PLURALISITI sostengono che la trasformazione del sistema debba avvenire attraverso il camino democratico. Per cui, bisogna attuare l’insediamento legittimo della classe proletaria con il proprio partito all’interno del governo, per cambiare radicalmente la struttura statale democraticamente.
I MARXISTI ORTODOSSI , infine, auspicano la necessità di un partito rivoluzionario guidato da un leader, che possa pianificare la rivolta e la riuscita della rivoluzione. (seguaci di queste idee furono Stalin, Mao ecc..)

Weber e Schumpeter 1900

Max Weber e Schumpeter, sostennero che: la società moderna impone la disuguaglianza economica e la democrazia non è altro che un metodo per decidere chi dovrà detenere il potere legittimamente e per frenarne gli eccessi.
Max Weber formulò la sfida più importante alle teorie di Marx, partendo proprio dalla accusa per cui, Marx avrebbe lasciato irrisolta la domanda principale, ovvero quale è precisamente il sistema adatto per la società? Cosa i cittadini avrebbero dovuto fare?
Il pensiero Weberiano, in comune con Marx accetta l’esistenza delle diverse classi sociali, ma non le ritiene l’unico motore dei cambiamenti storico-politici. Inoltre e con maggiore forza,vedeva il problema della burocrazia, in quanto corpo istituzionale imparziale e non democratico perché non responsabile nei confronti del popolo.
Proprio la burocrazia, per Max Weber, era il problema principale. Per cui non si poteva auspicare una democrazia diretta ne tanto meno un sistema socialista/comunista, in quanto potenzierebbero eccessivamente il potere burocratico. Anche se riteneva nobili i principi di auto-governo.
Lo stato venne descritto da Weber attraverso due concetti principali: il monopolio della violenza e la sua legittimità in un dato territorio. Questo stato moderno, ha inevitabilmente prodotto il capitalismo perché la via naturale che gli si propone. La burocrazia è un corpo inevitabile per la stabilità del potere statale e tale stabilità porta alla prosperità economica. Quindi bisognerebbe creare dei limiti al potere burocratico, senza intaccarlo eccessivamente.
Tale limiti, possono essere ben realizzati con la creazione di un sistema parlamentare rappresentativo. Il parlamento è l’organo chiave per il giusto funzionamento del sistema democratico secondo Weber.
Esso fungerebbe da luogo di discussione istituzionale dei conflitti e delle aspettative sociali, inoltre sarebbe un banco di prova ottimale per la selezione della leadership. A differenza di JS Mill, weber sosteneva l’importanza di tale organo, che, assicurava in maniera adeguata la rappresentanza del popolo al governo, attraverso i partiti.
Con questo sistema, a parere di Weber, si potrebbe, dunque, avere un equilibrio della politica, attestando la sua responsabilità nei confronti del popolo, senza tuttavia dare alla massa un eccessivo potere.
Weber diede così vita al modello “elitistico competitivo”, dove traspariranno le sue ambiguità sul fatto che, anche se sosteneva l’importanza del suffragio universale, riteneva comunque il popolo incapace di comprendere bene le scelte politiche.
Schumpeter si propose di sviluppare un modello democratico che fosse realistico. Partendo dalle posizioni di Weber, si spinse verso nuove importanti direzioni.
Con l’opera “capitalismo, socialismo, democrazia”, espone le sue teorie, secondo le quali la democrazia è il metodo politico per la selezione della leadership tra i partiti e i cittadini hanno soltanto il potere di avallare o destituire il leader.
Difese la teoria dell’eltismo competitivo, dato che affermava che la politica fosse inevitabilmente una professione e che il popolo non potesse autogovernarsi a pieno a causa della precarietà delle sue informazioni e della sua mancanza di esperienza.
Schumpeter, accettò la teoria di Marx che descriveva il capitalismo come un sistema dinamico che tende nel lungo periodo a dissolvere le basi della sua stessa esistenza. Per questa ragione, affermò l’imminenza dell’avvento di un sistema democratico di tipo socialista. Con questa concezione si discostò dalle teorie weberiane, dato che ritenne il socialismo compatibile con la democrazia e che il conseguente aumento del potere della burocrazia fosse inevitabile e non sarebbe stato un grave problema.
Schumpeter difese la democrazia elitistico-competitiva in base al suo esplicito rifiuto alla democrazia classica che si fondava sui seguenti temi:
Il bene comune auspicato dalla democrazia diretta, non esiste, in quanto ogni soggetto ha dei determinati interessi. Aggiunse che è rara la formazione di gruppi sociali volti a promuovere i propri interessi comuni.
Non è detto che il sistema politico debba operare per il bene di tutti, perché impossibile. Anzi affermò che talvolta le decisioni non democratiche, possono essere accettate ancora meglio dalla massa.
Infine, ritenette il popolo incapace di autogoverno perché troppo impulsivo, poco informato e spesso privo di una volontà autonoma a causa della pubblicità.
Concluse sostenendo che se si vuole applicare la democrazia bisognerebbe eliminare i concetti e le teorie dell’esperienza ateniese. Schumpeter, però, non tenne conto dell’esistenza di vari modelli classici nella sua analisi.
La democrazia elitistico-competitiva venne descritta da Schumpeter con un parallelismo al sistema del libero mercato. I partiti sono paragonati alle imprese. Esse svolgono le loro funzioni nella libera concorrenza, i primi in cerca di voti, i secondi cercando di vendere i beni. Nel tempo i partiti come le aziende, tendono a centralizzarsi e prendono vita gli oligopoli e i monopoli. Allo stesso modo in cui l’azienda più potente dominerà il mercato, il leader che ha ricevuto maggior consenso governerà lo stato.
Schumpeter difese quindi il meccanismo democratico che riteneva compatibile allo stesso modo con un sistema economico capitalista o socialista. Fissò dei criteri secondo i quali il sistema poteva funzionare pienamente:
La concorrenza tra i leader sulla base di programmi
Esistenza di una burocrazia efficiente
Sufficiente autocontrollo democratico da parte del governo
Promuovere una cultura popolare aperta alla diversità di pensiero
Il modello elitistico-competitivo però, intacca l’idea dell’uomo come protagonista politico, lasciando tutta la politica nelle mani di pochi esperti.