Pavese era un grande rappresentante dell’intellighenzia democratica del Novecento. Il mio primo contatto con lui fu orale, qualcuno mi parlò del finale del Mestiere di vivere, quello che annuncia la catastrofe, il fallimento della scrittura, il suicidio. Fu l’avvio di un amore vorace che mi ha dettato le regole del mestiere». (Manuel Vázquez Montalbán, Cena d’autore, dedicata a Cesare Pavese, Grinzane, 2000)
Iniziato il 6 ottobre 1935 durante il periodo del confino, Il mestiere di vivere accompagna Cesare Pavese fino al 18 agosto 1950, nove giorni prima della sua prematura scomparsa, e diventa a poco a poco lo strumento privilegiato cui affidare i pensieri sul proprio mondo di poeta, scrittore e di uomo e, soprattutto, le confessioni ultime su quei laceranti tormenti intimi che segnavano la sua vita.
Amaro, disperato, sarcastico, raramente sereno e mai felice, Pavese ci consegna, pagina dopo pagina, una profonda riflessione sulla vita, sui sogni, sui ricordi e sull’arte, condotta con estremo rigore intellettuale e morale, lucido testimone del proprio personale mestiere di vivere.
Il mestiere di vivere, non è soltanto la storia di uno scrittore che ha deciso di uccidersi perché anche l'ultima donna l'ha lasciato, è molto di più. Il mestiere di vivere è un cult-book per qualche generazione. L’ultima edizione Einaudi, a cura di Laura Nay e Marziano Guglielminetti, ne reintegra la maggior parte dei tagli fatti a suo tempo per motivi di riservatezza.
Le parti recuperate dell’opera testimoniano ulteriormente il dolore, e il rancore per l’abbandono da parte di Tina, «belle dame sans merci», figura fatale e tragico annuncio d’impotenza e solitudine, mettendo in risalto la vera tensione di Pavese verso una letteratura che sia «difesa contro le offese della vita».
«… sei stato lasciato nell’avvilimento più atroce… (quello di un uomo di cui si dice: è un pesce. L’ha mandato al confino e poi si è fatta fottere da un altro)»
È la chiave che ci consente di entrare nel laboratorio poetico di Cesare Pavese e di scoprire le sue letture, le sue riflessioni non soltanto sugli uomini ma sulla letteratura, sulla poetica e il suo rapporto con la sua stessa arte: si nutriva anche di classicità e di antropologia, di sentimento religioso e psicanalisi. Un rapporto forte, direi drammatico. Vedi la riflessione del 27 giugno 1946: «Aver scritto qualcosa ti lascia come un fucile sparato...».
Talmente fisica, e violenta, è la drammaticità di molte delle sue pagine, il loro affanno; e tale è la partecipazione che, in alcuni momenti, esse ci richiedono. Non è un caso se l'autore si uccide proprio quando pensa di aver concluso ogni possibile sperimentazione letteraria, e quindi di aver terminato il suo rapporto con la scrittura.
La sua epigrafe conclusiva del diario, redatta in solitudine in una camera di hotel, non è forse questa: «16 agosto 1950. La mia parte pubblica l’ho fatta — ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti […] Non scriverò più».
È un congedo dalla scrittura e dalla vita, ormai intrecciate indissolubilmente.
Finché la scrittura ha garantito un significato alla vita, tutto ha avuto uno scopo, poi la presa di coscienza di aver speso ogni possibile energia nello scrivere e le stesse vicende personali dell'esistenza hanno insieme contribuito alla fine, tragica, del poeta (e per quanto sia ben difficile dire parole definitive sulle cause del suo gesto, è utile ricordare una frase della sua ultima annotazione, scritta sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, prima di morire: «Non fate troppi pettegolezzi»).
Italo Calvino, anni dopo, scriverà: «Il diario di Pavese è insieme la ricerca di una tecnica poetica e di un modo di stare al mondo».
Riguardo a chi consiglia oggi questo testo ai ragazzi, io lo farei, ma con qualche attenzione e spiegazione: è un libro talvolta molto difficile, rischia di venire letto come “diario intimo” o “diario di lavoro”, o, peggio ancora, di fornire un’immagine distorta, di un novello Abele, che interpreta la debolezza fatale della vittima sacrificale.
La figura di Pavese trae luce e forza dalle sue stesse contraddizioni, dall’impotenza e infelicità di fronte al tramonto di tutti i valori: si ha sul serio la sensazione che lì vi sia riposta e scritta una storia che non appartiene solo allo scrittore, ma alla collettività, a tutti quelli che sono infelici.
Così il Caino che si avventa contro Pavese non è la cultura, l’ingiustizia sociale o il moralismo politico e neppure la storia: è semplicemente, con un perché o senza un perché, leopardianamente, la vita.
«Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla».
Iniziato il 6 ottobre 1935 durante il periodo del confino, Il mestiere di vivere accompagna Cesare Pavese fino al 18 agosto 1950, nove giorni prima della sua prematura scomparsa, e diventa a poco a poco lo strumento privilegiato cui affidare i pensieri sul proprio mondo di poeta, scrittore e di uomo e, soprattutto, le confessioni ultime su quei laceranti tormenti intimi che segnavano la sua vita.
Amaro, disperato, sarcastico, raramente sereno e mai felice, Pavese ci consegna, pagina dopo pagina, una profonda riflessione sulla vita, sui sogni, sui ricordi e sull’arte, condotta con estremo rigore intellettuale e morale, lucido testimone del proprio personale mestiere di vivere.
Il mestiere di vivere, non è soltanto la storia di uno scrittore che ha deciso di uccidersi perché anche l'ultima donna l'ha lasciato, è molto di più. Il mestiere di vivere è un cult-book per qualche generazione. L’ultima edizione Einaudi, a cura di Laura Nay e Marziano Guglielminetti, ne reintegra la maggior parte dei tagli fatti a suo tempo per motivi di riservatezza.
Le parti recuperate dell’opera testimoniano ulteriormente il dolore, e il rancore per l’abbandono da parte di Tina, «belle dame sans merci», figura fatale e tragico annuncio d’impotenza e solitudine, mettendo in risalto la vera tensione di Pavese verso una letteratura che sia «difesa contro le offese della vita».
«… sei stato lasciato nell’avvilimento più atroce… (quello di un uomo di cui si dice: è un pesce. L’ha mandato al confino e poi si è fatta fottere da un altro)»
È la chiave che ci consente di entrare nel laboratorio poetico di Cesare Pavese e di scoprire le sue letture, le sue riflessioni non soltanto sugli uomini ma sulla letteratura, sulla poetica e il suo rapporto con la sua stessa arte: si nutriva anche di classicità e di antropologia, di sentimento religioso e psicanalisi. Un rapporto forte, direi drammatico. Vedi la riflessione del 27 giugno 1946: «Aver scritto qualcosa ti lascia come un fucile sparato...».
Talmente fisica, e violenta, è la drammaticità di molte delle sue pagine, il loro affanno; e tale è la partecipazione che, in alcuni momenti, esse ci richiedono. Non è un caso se l'autore si uccide proprio quando pensa di aver concluso ogni possibile sperimentazione letteraria, e quindi di aver terminato il suo rapporto con la scrittura.
La sua epigrafe conclusiva del diario, redatta in solitudine in una camera di hotel, non è forse questa: «16 agosto 1950. La mia parte pubblica l’ho fatta — ciò che potevo. Ho lavorato, ho dato poesia agli uomini, ho condiviso le pene di molti […] Non scriverò più».
È un congedo dalla scrittura e dalla vita, ormai intrecciate indissolubilmente.
Finché la scrittura ha garantito un significato alla vita, tutto ha avuto uno scopo, poi la presa di coscienza di aver speso ogni possibile energia nello scrivere e le stesse vicende personali dell'esistenza hanno insieme contribuito alla fine, tragica, del poeta (e per quanto sia ben difficile dire parole definitive sulle cause del suo gesto, è utile ricordare una frase della sua ultima annotazione, scritta sulla prima pagina dei Dialoghi con Leucò, prima di morire: «Non fate troppi pettegolezzi»).
Italo Calvino, anni dopo, scriverà: «Il diario di Pavese è insieme la ricerca di una tecnica poetica e di un modo di stare al mondo».
Riguardo a chi consiglia oggi questo testo ai ragazzi, io lo farei, ma con qualche attenzione e spiegazione: è un libro talvolta molto difficile, rischia di venire letto come “diario intimo” o “diario di lavoro”, o, peggio ancora, di fornire un’immagine distorta, di un novello Abele, che interpreta la debolezza fatale della vittima sacrificale.
La figura di Pavese trae luce e forza dalle sue stesse contraddizioni, dall’impotenza e infelicità di fronte al tramonto di tutti i valori: si ha sul serio la sensazione che lì vi sia riposta e scritta una storia che non appartiene solo allo scrittore, ma alla collettività, a tutti quelli che sono infelici.
Così il Caino che si avventa contro Pavese non è la cultura, l’ingiustizia sociale o il moralismo politico e neppure la storia: è semplicemente, con un perché o senza un perché, leopardianamente, la vita.
«Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, infermità, nulla».
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