Paolo de Guidi
«Questa è la storia vera, perché è la storia che mi è stata tramandata dalla tradizione, da mio nonno» Elchide Trippa
Le città sono cipolle. Oppure, per usare un'altra immagine, sono come i tavoli da lavoro dei cartoni animati: serie di lucidi sovrapposti. Il primo lucido è lo sfondo naturale, il secondo contiene le strade, il terzo le reti elettriche e fognarie, poi gli edifici, poi l'arredamento urbano, poi gli uomini e i loro spostamenti – veri mattoni significanti. Alla fine si vede la città: stratificazione di elementi, accumulo di piani. Forse è proprio questa la sua caratteristica precipua: essere un conglomerato di strutture. Italo Calvino (sì, sempre lui quando si parla di città, non fate quella faccia scocciata) aveva rimescolato attraverso innumerevoli combinazioni la struttura della città, scomposto la sua materialità cognitiva; aveva fondamentalmente giocato con un versatilissimo meccano a costruire, decostruire e ricostruire ancora modelli di città secondo un procedimento ben più umanistico che architettonico. Una di queste era Armilla, città fatta solo di tubi dell'acqua, città disegnata per contrasto. Non si vedono muri, tetti, pavimenti: solo l'impalcatura idraulica che disegna la forma. Insomma, semplificando un po', uno solo dei molteplici elementi costitutivi dell'urbs, sufficiente comunque a renderne un'immagine funzionale. Un'operazione simile l'ha fatta Alessandro Portelli, 13 anni dopo, nel 1985 con un'altra città, vera ma non per questo meno invisibile nel panorama italiano. Portelli ha disegnato questa città scegliendo anch'egli solo uno degli elementi che la costituiscono: non i tubi, ma la memoria della sua gente. In Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Portelli ha dato il via alla cosiddetta “storia orale”. «Questo libro è il tentativo di dare forma narrativa a una città intera» come recita la prima riga della quarta di copertina dell'unica edizione Einaudi. Preceduto da un'interessante e spiazzante introduzione sull'etica della trascrizione (operazione apparentemente semplice ma in realtà tutt'altro che anodina), il testo ricostruisce la storia della città di Terni attraverso l'oralità e la memoria dei suoi abitanti. Poche volte come qui l'etimo della parola testo rende bene la natura dell'operazione di Portelli, che si è fatto vero tessitore di racconti. Non una foto, solo alcuni dati d'archivio, la voce del montatore che affiora pochissime volte per accompagnare le transizioni. Ecco dunque che dietro la facciata di una città rinomata per non essere rinomata (provate a chiedere in giro dove si trova Terni) si scopre un arazzo che raffigura una massa brulicante e combattiva mentre narra (c)oralmente la propria biografia urbana variegata, sofferente ed ingenua. Non è un caso se il cittadino che meglio di tutti l'ha raffigurata sia il calzolaio-pittore naïf Orneore Metelli.
Il rigore storiografico è dislocato fin dall'inizio, fin dal sottotitolo dove “storia e racconto” sono da intendere come locuzione inscindibile. Non è un testo storico nel senso tradizionale del termine, non ne ha le premesse né il rigore scientifico (l'autore del resto non è uno storico bensì un insegnante di letteratura americana). Ma è un testo storico in quanto tessuto dalle parole impastate di dialetto (altro livello urbano) di chi quella storia l'ha fatta e vissuta. Ed è anche e necessariamente un testo narrativo, in quanto quelli che ci presenta sono racconti. Sono i “nonno, raccontami di quand'eri partigiano”. Sono il materiale che un altro autore, che di storie se ne intende, ha riciclato in una differente forma narrativa: Ascanio Celestini ne ha infatti tratto il suo Fabbrica nel 2002 e molto del contemporaneo teatro di narrazione deve qualcosa a operazioni storico-narrative come questa. L'acciaieria è in realtà meno presente nel testo di Portelli di quanto ci si potrebbe aspettare dal racconto di una città che è praticamente nata e cresciuta attorno alla sua fabbrica siderurgica, non solo urbanisticamente ma a livello identitario. Tra le memorie delle imprese garibaldine, i rapporti carnevaleschi tra contadini e i primi industriali, la resistenza partigiana e i 108 bombardamenti, l'acciaieria riveste un ruolo di accompagnamento più che di protagonismo: è il secondo lucido, quasi di sfondo, subito dopo le aspre colline umbre. Come ne Le città invisibili dove – per ammissione dello stesso autore – la parte più oulipiana era l'indice, in cui se ne rivelava la struttura combinatoria, così anche per Biografia di una città l'indice dei nomi è la vera anima del testo: circa 170 tra operai e operaie, casalinghe, impiegati, contadine, tecnici, studenti, artigiani, preti, commercianti, poeti e giornalisti nati tra il 1886 e il 1966. Questo elenco di nomi di tre generazioni di ternani è il cuore dell'opera, un finale anche foneticamente significativo del biografico ternano, nomi che significano la città: Agamante Androsciani (operaio specializzato), il quasi mitico Dante Bartolini (operaio, contadino, calzolaio, barista, ammazzatore di maiali, esperto di erbe medicinali, poeta, cantore, narratore, partigiano), Baconin Borzacchini (pilota automobilistico) che dovette cambiar nome in Mario Umberto e poi Canzio Eupizi, il comandante Alfredo Filipponi, il sindaco poeta Amerigo Matteucci, Diname Colesanti e il partigiano Comunardo Tobia. Nomi che hanno fatto, e ora anche scritto, la vita della città dai moti carbonari e dal brigantaggio alle ultime manifestazioni dei consigli di fabbrica, attraversando anche i generi letterari, con toni che da leggenda diventano via via più da cronaca man mano che la memoria dei racconti dei bisnonni è sostituita dai più scarni resoconti che i più giovani fanno di quell'ossimoro che chiamiamo “storia recente”.
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