Voi avete l'amore dell'umanità nel cuore, voi non odiate, coloro che odiano sono quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate nel Vangelo di S. Luca è scritto – "Il Regno di Dio è nel cuore dell'uomo" – non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini. Voi, voi il popolo avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità, voi il popolo avete la forza di fare che la vita sia bella e libera, di fare di questa vita una splendida avventura. Quindi in nome della democrazia usiamo questa forza, uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia a tutti gli uomini lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere, mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavi il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse, combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere, eliminando l'avidità, l'odio e l'intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati, nel nome della democrazia siate tutti uniti!"
domenica 24 febbraio 2008
Discorso all'Umanità.
Voi avete l'amore dell'umanità nel cuore, voi non odiate, coloro che odiano sono quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati! Non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate nel Vangelo di S. Luca è scritto – "Il Regno di Dio è nel cuore dell'uomo" – non di un solo uomo o di un gruppo di uomini, ma di tutti gli uomini. Voi, voi il popolo avete la forza di creare le macchine, la forza di creare la felicità, voi il popolo avete la forza di fare che la vita sia bella e libera, di fare di questa vita una splendida avventura. Quindi in nome della democrazia usiamo questa forza, uniamoci tutti! Combattiamo per un mondo nuovo che sia migliore, che dia a tutti gli uomini lavoro, ai giovani un futuro, ai vecchi la sicurezza. Promettendovi queste cose dei bruti sono andati al potere, mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno! I dittatori forse sono liberi perché rendono schiavi il popolo. Allora combattiamo per mantenere quelle promesse, combattiamo per liberare il mondo, eliminando confini e barriere, eliminando l'avidità, l'odio e l'intolleranza. Combattiamo per un mondo ragionevole, un mondo in cui la scienza e il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati, nel nome della democrazia siate tutti uniti!"
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giovedì 21 febbraio 2008
I giovani del nostro Sud condannati all'ignoranza.
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Salvatore Mangiacotti
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mercoledì 20 febbraio 2008
La grande fuga dal Meridione.
Questa emorragia è grave quanto quella della fuga dei cervelli dall’Italia. Dal sud, possiamo dire, c’è un fuggi fuggi generalizzato che lascia lì i vecchi, i bambini i peggiori e pochi eroi ed espelle tutto il resto.
La distanza del Paese da questo problema è tale che basta fare un unico esempio per dimostrare quanta insipienza, ignoranza e indifferenza c’è nei confronti di tanti, troppi giovani italiani. L’esempio è quello della gestione scandalosa dei treni che viaggiano tra il sud e il nord del Paese. Uno scandalo alla luce del sole di cui nemmeno i media hanno preso bene coscienza. A fronte di investimenti plurimilionari degli ultimi anni, fatti a sostegno dello sviluppo dei corridoi europei e dell’alta velocità, niente è stato previsto ed è previsto per migliorare la qualità del servizio di quei treni che portano gli emigranti, erroneamente definiti pendolari, dal sud verso il nord. Si tratta di treni espressi, quelli che costano poco per intenderci e che sono sempre di meno e che viaggiano di notte, Eh sì perché se c’è una cosa pendolare di questa emigrazione è l’insistenza degli emigranti a non voler perdere i legami con la propria terra e così si sobbarcano lunghissimi viaggi notturni al fine settimana per poter tornare 36 ore a “casa loro”. Treni sporchi, stracolmi, a rischio perenne di tragedia, dove le intellighenzie e i dirigenti non viaggerebbero ma per un altro bel pezzo di umanità è una scelta obbligata. La vicenda del blocco della stazione Tiburtina a Roma da parte dei tanti che rifiutavano di pagare il prezzo del biglietto per intero dopo la fine della concessione, non più rinnovata, tra la regione Campania e la società dei treni che concedeva un abbonamento ai migranti nostrani è l’effetto del disinteresse, dell’ignoranza, della leggerezza con cui questo Stato abbandona i suoi figli e li spinge nelle braccia del qualunquismo, dell’antipolitica, dell’individualismo sfrenato, nel disincanto più totale. Penso che i mille servano anche a questo, a far aprire gli occhi, a porre questioni, ad allargare il fronte della conoscenza, a smuovere coscienze e soprattutto ad aggregare persone. E’ per questo che oggi i Mille si rivolgono ai giovani migranti meridionali, affinché insieme riescano a porre all’attenzione del nascente partito democratico sulla questione meridionale. Aggreghiamoci e non stanchiamoci di parlare, di proporre e di partecipare . Le cose cambiano.
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Salvatore Mangiacotti
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martedì 19 febbraio 2008
Biblioteca del buon giellista.
Costruire la biblioteca ideale del buon giellista non è affatto semplice: in primo luogo perché, quando si discute di un filone di pensiero eterodosso ed ereticale quale quello liberalsocialista e libertario, le scelte sono molto legate alle inclinazioni personali ed ai percorsi individuali, anche se un nucleo essenziale di testi è a nostro avviso rintracciabile; in secondo luogo, perché alcuni lavori fondamentali sono di difficile reperibilità, in quanto, pubblicati molto tempo fa, non sono stati più ristampati: in questo caso bisogna rivolgersi alle biblioteche o a qualche anziano compagno.
Sembra ovvio ricordarlo, ma questa pagina è aperta al contributo di tutti: se c'è un libro che ritenete possa arricchire la "biblioteca del buon giellista", fatecelo sapere, motivando la scelta e indicando se sia ancora in commercio [mailto:%20circolo_gl@lycosmail.com].
C. Rosselli - P. Gobetti - G. De Luna - E. Lussu - C. Levi - A. Capitini - G. Salvemini
Socialismo liberale
Edizione economica Einaudi Tascabili (L. 15.000) con saggi introduttivi di Norberto Bobbio e John Rosselli (figlio di Carlo e storico). Pubblicato a Parigi nel 1930, ma composto in larga parte nel corso del confino nell'isola di Lipari, rappresenta l'opera più compiuta di Rosselli, anche se non bisogna dimenticare gli scritti apparsi in seguito sulla stampa antifascista. "Socialismo liberale", lucida e stringente critica del socialismo marxista e di quello riformista del suo tempo, presenta spunti di riflessione molto validi di teoria della politica per la sinistra dei nostri giorni. Alla luce della lettura di questo lavoro risulta chiaro che il suo assassinio per mano fascista ha privato l'Italia di un leader politico originale e coraggioso.
" I MIEI CONTI COL MARXISMO "
Da:Socialismo Liberale, Einaudi, Torino, 1997, pp. 143-144.
Li vado facendo da parecchi anni sotto la scorta di molti nemici e carabinieri dottrinali, in compagnia di pochi eretici amici. Voglio renderne conto qui prima di tutti a me stesso, poi a quei miei compagni di destino che non credono terminate alle Alpi le frontiere del mondo. Sarò chiaro, semplice, sincero e, poi che i libri mi mancano, procederò per chiaroscuri senza i famosi "abiti professionali" e i non meno famosi "sussidi di note". Intanto, chi sono. Sono un socialista. Un socialista che, malgrado sia stato dichiarato motto da un pezzo, sente ancora il sangue circolar nelle arterie e affluire al cervello. Un socialista che non si liquida né con la critica dei vecchi programmi, né col ricordo della sconfitta, né col richiamo alle responsabilità del passato, né con le polemiche sulla guerra combattuta. Un socialista giovane, di una marca nuova e pericolosa, che ha studiato, sofferto, meditato e qualcosa capito della storia italiana lontana e vicina. E precisamente ha capito.
i Che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale, e in secondo luogo trasformazione materiale.
ii. Che, come tale, si attua sin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di aspettare il sole dell'avvenire.
iii. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria.
iv. Che anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista.
v. Che socialismo senza democrazia è come volere la botte piena (uomini, non servi; coscienze, non numeri; produttori, non prodotti) e la moglie ubriaca (dittatura).
vi. Che il socialismo, in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera, oppressa, è l'erede del liberalismo.
vii. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come delle collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo.
viii. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo.
ix. Che lo spauracchio della rivoluzione sociale violenta spaventa ormai solo i passerotti e gli esercenti, e mena acqua al mulino reazionario.
x. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si costruisce tutti i giorni dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura.
xi. Che ha bisogno di idee poche e chiare, di gente nuova, di amore ai problemi concreti.
xii. Che il nuovo movimento socialista italiano non dovrà esser frutto di appiccicature di partiti e partitelli ormai sepolti, ma organismo nuovo dai piedi al capo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
xiii. Che è assurdo imporre a così gigantesco moto di masse una unica filosofia, un unico schema, una sola divisa intellettuale.
Il primo liberalismo ha da attuarsi all'interno.
Le tesi sono tredici. Il tredici porta fortuna. Chi vivrà vedrà.
Nota: "Socialismo senza democrazia significa fatalmente dittatura e dittatura significa uomini servi, numeri e non coscienze, prodotti e non produttori, e significa quindi negare i fini primi del socialismo".
"Intervista a "L'Italia del Popolo" del 30 settembre 1929"
Da:Liberalismo socialista e socialismo liberale, a cura di N. Terracciano, Galzerano, Casalvelino Scalo, 1992, pp. 53-54.
Domanda:-... Tra i socialisti giovani tu eri quello che forse più di ogni altro sostenevi la necessità di una profonda revisione delle posizioni teoriche e pratiche del moto socialista. Sei sempre dello stesso avviso?
Risposta: ... - Sono convinto più che mai della necessità della revisione, dell'urgenza di un coraggioso esame di coscienza. Durante questi ultimi tre anni di riposo obbligato ho esaminato a fondo tutti i problemi del moto socialista giungendo a conclusioni ancora più radicali, se possibile. Queste conclusioni le ho anzi sviluppate in un breve libro scritto nascostamente al confino: libro che mi propongo presto di pubblicare.
Domanda: - Non potresti riassumere le tesi principali?
Risposta: - Mi riesce difficile, anche perché le questioni affrontate sono numerose e complesse. Se ti interessa posso citarti qualcuna delle tesi che mi paiono significative. Sarò però telegrafico. Dunque io sostengo che il socialismo è in primo luogo rivoluzione morale e in secondo luogo trasformazione materiale. Che come tale può attuarsi fin da oggi nelle coscienze dei migliori, senza bisogno di attendere il sole dell'avvenire. Che tra socialismo e marxismo non v'è parentela necessaria, e anzi, ai giorni nostri, la filosofia marxista minaccia di compromettere la marcia socialista. Che il socialismo senza democrazia è negazione dei fini primi del socialismo. Che il socialismo in quanto alfiere dinamico della classe più numerosa, misera e oppressa, è l'erede del liberalismo. Che la libertà, presupposto della vita morale così del singolo come della collettività, è il più efficace mezzo e l'ultimo fine del socialismo. Che la socializzazione è un mezzo, sia pure importantissimo. Che il socialismo non si decreta dall'alto, ma si conquista e si costruisce dal basso, nelle coscienze, nei sindacati, nella cultura, attraverso le innumeri, libere, autonome esperienze del moto operaio. Che il nuovo movimento socialista italiano non sarà probabilmente il frutto di appiccicature di vecchi partiti, ma organismo nuovo, sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro.
Domanda: - ... sui rapporti tra socialismo e libertà, davvero il problema più interessante in questo momento.
Risposta: - E costituisce l'argomento essenziale del mio libro. Io sono un socialista liberale. Nella parola libertà si riassume per me tutto il finalismo socialista. Libertà come metodo e come fine. Libertà intesa e realizzata in senso integrale, in tutte le sfere dell'esistenza, e non solo in quella politica e spirituale.
PIERO GOBETTI
La Rivoluzione Liberale
Edizione economica Einaudi Tascabili (L. 12.000) con saggi introduttivi di Paolo Flores d'Arcais (che dimostra come il metodo di analisi elaborato da Gobetti applicato alla situazione politica italiana attuale faccia scaturire risultati interpretativi molto interessanti) e di Ersilia Alessandrone Perona.
GIOVANNI DE LUNA
Storia del Partito d'Azione
Recentemente rieditato presso Editori Riuniti, con una prefazione dell'autore che fa il punto sul dibattito sviluppatosi negli ultimi anni intorno all'azionismo, rappresenta la storia sinora più completa del Partito d'Azione. Vengono analizzate le posizioni delle diverse correnti politiche, i suoi programmi, le alleanze, le sue vicende dalla fondazione (1942) sino allo scioglimento (1947), cinque anni che hanno segnato la politica italiana con effetti che ancora oggi sono accesamente discussi dagli studiosi.
CARLO LEVI
L'orologio
Libro reperibile in edizione economica Einaudi, è il romanzo che raccoglie le memorie di Levi, allora direttore di Italia Libera, quotidiano del Partito d'Azione, riguardanti i giorni convulsi della caduta del governo Parri, posta ad emblema della chiusura di un'epoca - quella della lotta antifascista e partigiana, con l'esaurimento delle speranze di rinnovamento profondo della società italiana che aveva suscitato - e della riscossa della vecchia Italia visceralmente conservatrice che era stata complice del fascismo.
ALDO CAPITINI
Il potere di tutti
Pubblicato poco tempo dopo la sua morte, è il punto più alto della riflessione nonviolenta e libertaria di Capitini. Edito da La Nuova Italia, è oggi fuori commercio: si può acquistare scrivendo alla redazione della rivista Azione nonviolenta fondata nel 1964 dallo stesso Capitini.
GAETANO SALVEMINI
Italia scombinata
Raccoglie molti importanti saggi riguardanti il primo periodo dell'Italia repubblicana (Einaudi, 1959, non ci risulta che sia stato ripubblicato recentemente). Uno degli scritti contenuti in questa raccolta, "La pelle di zigrino", è particolarmente famoso: riportiamo il brano iniziale.
" La pelle di zigrino "
da: Italia scombinata, Einaudi, Torino, 1959, pp. 231-233.
"Prego, chi siete voi?"
Noi siamo una mezza dozzina di pazzi malinconici (o innocenti), ultimi eredi di una stirpe illustre, che si va rapidamente estinguendo; massi erratici, abbandonati nella pianura da un ghiacciaio che si è ritirato sulle alte montagne. E' il ghiacciaio che si chiamò "liberalismo", "democrazia", "socialismo", in quel secolo che il forsennato Léon Daudet chiamò "lo stupido secolo decimonono", mentre noi insistiamo a considerarlo come il più intelligente, il piu' umano, il più glorioso dei secoli. "Morituri te salutant".
Il "liberale" di allora rispettava la libertà altrui e rivendicava la propria. Era anticlericale, perché i clericali minacciavano, e, dove potevano, soffocavano la sua libertà, ma non si sarebbe mai sognato di vietare al clericale di predicare le dottrine del clericalismo, anzi ci prendeva gusto a vedergliele predicare e a riderci su. Era monarchico e conservatore, ma lasciava cantare i repubblicani e gli anarchici. Era individualista, ma sopportava pazientemente la modestia dei socialisti, e magari arrivava a dire: "Oggi siamo tutti socialisti". Quando la paura dei "sovversivi" (e ne avevano più che questi poveracci meritassero) lo spingeva a stati di assedio, condanne al carcere o al domicilio coatto, sentiva vergogna di quel che faceva; e appena poteva dare qualche amnistia, e ritornare alla normalità, tirava un sospirone di sollievo e si metteva l'animo in pace. Impetrava l'alleanza elettorale dei clericali contro i "sovversivi", ma non si sarebbe mai sognato di sopprimere le libertà politiche dei "sovversivi", come i clericali avrebbero fatto, se avessero potuto, non solo coi sovversivi, ma con gli stessi liberali. La libertà (diceva il liberale di allora) è come la lancia di Achille: ferisce e risana. "Malo periculosam libertatem", ripeteva con Tacito. Motivo per cui noi ci denomineremmo volentieri "liberali". Ma la parola si è così debosciata nel secolo in cui respiriamo, che ci vuole oggi uno stomaco di struzzo per dirsi "liberale". Il liberalismo classico, quello, per intenderci, di un Cavour o di un John Stuart Mill, - più che un partito, è ormai uno stato d'animo, che si può trovare ovunque viva un uomo civile in qualunque partito. E molto spesso, fra quelli che rivendicano il monopolio della etichetta liberale, il medesimo individuo è liberale in un momento su una data questione, e totalitario subito dopo su un'altra. Ne consegue che a chiamarvi liberale correte il rischio di vedervi confuso con certa gente, con cui non vorreste avere nulla da fare neanche se il loro aiuto dovesse scamparvi dalla morte.
Ci denomineremmo anche "democratici", dato che la libertà "signorile" come la chiamava Benedetto Croce, cioè riservata alle classi danarose e colte (e incolte purchè danarose), intendiamo estenderla agli uomini e donne di tutte le classi sociali. Ma anche la parola "democratico" si è debosciata: non meno e forse più che la parola "liberale".
Ci chiameremmo socialisti o socialdemocratici, dato che ameremmo lavorare alla costruzione di un assetto sociale, nel quale i diritti di libertà siano integrati da un minimo di benessere e di sicurezza per tutti, senza il quale minimo, né può sorgere il desiderio della libertà, né i diritti di libertà possono essere di regola praticati. Tanto per evitare equivoci, il nostro socialismo si apparenta più con quello di Jaurès, dei laboristi inglesi, dei riformisti italiani alla Turati, alla Bissolati e alla Battisti, che con quello degli arcivescovi, vescovi, parroci e sacrestani della Chiesa stalinista. Ma questo socialismo (o socialdemocrazia) si è andato anche esso progressivamente così discreditando, che, oggi, dirsi socialista o socialdemocratico, specialmente dopo le esperienze di questi ultimi tempi, è come buttarsi giù dalla Rupe Tarpeia.
Ci denomineremmo anche repubblicani, dato che Vittorio Emanuele III in venti anni di complicità con Mussolini ci rese repubblicani militanti (le repubbliche non nacquero mai dalle virtù o dalla sapienza dei repubblicani, ma dai delitti e dalle scempiaggini dei re). Ma è peggio che andar di notte. I repubblicani hanno avuto in Italia, in non più che cinque anni, l'abilità di discreditarsi più che liberali, democratici e socialisti si siano rovinati in mezzo secolo.
In sintesi, ci denomineremmo "liberali-democratici-socialisti-repubblicani"; e, siccome la orribile abitudine americana delle iniziali ha invaso anche il paese dove il sì suona, ci diremmo LDSR: appena una lettera più del PCI, PSI, PLI, PRI, MSI, e tante quante il PSDI (questo non ha saputo neanche mettere insieme un gruppo di iniziali che si potesse pronunciare). Ma quelle quattro lettere ci ricorderebbero, combinate insieme, tutti i vituperi che accompagnano ormai le realtà separate.
Dichiariamoci dunque niente altro che pazzi malinconici (PM) e chi vuol capire capisca, e chi non vuol capire passi via.
1999-1929
70 ANNI DALLA FONDAZIONE DI
«GIUSTIZIA E LIBERTA'»
«La nascita di Giustizia e Libertà»
EMILIO LUSSU RICORDA QUEI GIORNI
Tratto da: A.a.V.v., Dall'antifascismo alla Resistenza. Trent'anni di storia italiana (1915-1945). Lezioni con testimonianze presentate da Franco Antonicelli, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1973, pp. 173-177.
Ecco la mia breve testimonianza. Bisogna riandare a qualcosa come trenta e più anni fa: estate 1929. Contrariamente a quello che credono molti anche tra quanti si occupano di problemi politici, Giustizia e Libertà, cioè il movimento rivoluzionario antifascista repubblicano e democratico, come si definiva, non fu costituito a causa della fuga da Lipari. Sì, la fuga da Lipari, della quale il freddo e perfetto organizzatore tecnico dalla Francia e dalla Tunisia è stato il qui presente Tarchiani, è stata certamente un fatto clamoroso, nel suo genere direi unico, ed ebbe in quel periodo molto stagnante all'interno una immensa ripercussione e in Italia e all'estero. Peraltro, tirate le somme, una fuga è una fuga e, per ispirarmi al re Borbone, a scappare siamo buoni tutti. La fuga non servì che a liberare alcuni di quelli che saranno fra poco i protagonisti di una più vivace attività politica, fra cui il grande scomparso Carlo Rosselli.
Ma Giustizia e Libertà, in realtà, esisteva già in formazione un po' sparsa in varie parti d'Italia. A Firenze, attorno al gruppo "Non mollare" di Salvemini, erano i fratelli Rosselli, Ernesto Rossi, Nello Traquandi e altri. A Milano, attorno a Ferruccio Parri e Riccardo Bauer che avevano avuto già un'attività democratica culturale, erano alcuni giovani intellettuali e socialisti provenienti dal partito socialista. A Torino, attorno ai giovani venuti con "Rivoluzione Liberale" di Piero Gobetti, fra cui il più in vista Carlo Levi, erano quelli che erano stati allievi di Augusto Monti al liceo D'Azeglio, e qualche altro intellettuale e operaio. A Roma, era notevole anche numericamente, il gruppo giovanile repubblicano, con Baldazzi, Gioacchino Dolci, Fausto Nitti, Giuseppe Bruno, Dante Gianotti. E poi la parte più attiva del Partito Sardo d'Azione, di cui Piero Gobetti parlava già nel manifesto di "Rivoluzione Liberale", che aveva, con Francesco Fancello e Stefano Siglienti, un centro continentale a Roma, collegato a Firenze e a Milano. E infine qualche isolato liberale o democratico, come A. Tarchiani e A. Cianca già in esilio, e qualche altro isolato in più parti d'Italia. V'erano certamente, e in città e in provincia, centinaia di isolati o piccoli gruppi, ma si ignoravano tra di loro e noi stessi li ignoravamo.
Giustizia e Libertà come noi la costituimmo dopo la fuga da Lipari nei mesi di agosto, settembre, ottobre del 1929, si riferiva a questi vari gruppi e ad essi si legava. Ci univa tutti una comune totale rivolta morale, ideale, politica e sociale contro il fascismo e i suoi sostegni. Eravamo, può darsi, animati da quello spirito che traspare dalla esposizione sintetica politica che ci ha voluto fare oggi il professor Bobbio. Mentre a Parigi la Concentrazione, già costituitasi nell'aprile del 1927, si poteva considerare attraverso gli elementi che la formavano - i due partiti socialisti, uno riformista, l'altro massimalista, il partito repubblicano, la Confederazione generale italiana del lavoro, la Lega dei diritti dell'uomo - una specie di continuazione dell'Aventino, noi di Giustizia e Libertà non lo eravamo. E questo è fondamentale. Questi gruppi che ho elencato cosi affrettatamente poc'anzi, pur avendo partecipato all'Aventino e avendo riconosciuto all'Aventino una superiore e utile intransigenza morale di fronte al fascismo, avevano sempre negato all'Aventino stesso la giustezza della sua posizione polemica verso il fascismo. Mentre l'Aventino giocava tutte le sue carte antifasciste sul re, noi era sul popolo, e solo sul popolo, che fondavamo le speranze della liberazione. Mentre i continuatori dell'Aventino, uomini e maestri di vita morale a tutti noi di qualunque partito - cito fra i massimi, Turati, Treves, Modigliani, Buozzi, Baldini -, credevano, anzi ne erano sicuri e il presidente Nitti rafforzava questa fiducia, che Mussolini sarebbe caduto fra un mese o fra due, noi calcolavamo ad anni: cinque, sette o dieci, "se ci va bene". Noi credevamo solo ed esclusivamente nella coscienza e nell'azione del popolo: solo il popolo sarà il protagonista della liberazione. E demmo a Giustizia e Libertà la definizione di movimento rivoluzionario antifascista, per la libertà, per la repubblica, per la giustizia sociale.
Eravamo, cioè, la stessa espressione conciliativa e riassuntiva delle correnti politiche che avevano dato vita all'Aventino, ma potevamo esserne considerati come il superamento, non la continuazione. Eravamo socialisti, repubblicani, democratici, liberali, l'avanguardia, per i quali la lotta al fascismo continuava, ma con altri mezzi: l'Aventino era stato legalitario, Giustizia e Libertà era rivoluzionaria. I comunisti erano usciti dall'Aventino poco dopo la sua formazione e dopo le leggi eccezionali; in Francia, formavano un partito a sé, staccato dalla Concentrazione con cui non avevano che rapporti polemici. Io non saprei dirvi quale sarebbe stato il corso degli avvenimenti se dell'Aventino, prima, e della Concentrazione dopo, avessero fatto parte i comunisti. Eravamo due formazioni staccate, autonome, di cui quella comunista tendeva permanentemente all'organizzazione in Italia.
Per definire il movimento di Giustizia e Libertà credo che dobbiamo fare uno sforzo di memoria. Discutemmo quasi due mesi a contatto con tutti i gruppi d'Italia e, a Parigi, non avevamo che riunioni permanenti. Si deve dire "Giustizia e Libertà" o "Libertà e Giustizia"? Sembra una cosa da nulla, eppure fu un continuo scambio di lettere clandestine, inchiostri simpatici, cifre, messaggi, tutti i nostri gruppi in Italia in movimento, e discussioni vivacissime a Parigi o a Saint-Germain-en-Laye, dove abitava Gaetano Salvemini, per breve tempo in Francia. "Giustizia e Libertà" o "Libertà e Giustizia"? A nessuno di chi si occupa di cose politiche sfugge la differenza. La corrente liberale democratica era per "Libertà e Giustizia", la corrente socialisteggiante era per "Giustizia e Libertà". Dopo lungo discutere, finalmente - e mi pare di ricordare che vi fu una manovra per ottenere la maggioranza - trionfò "Giustizia e Libertà". Ora io non rido più, e neppure sorrido, quando leggiamo che, durante la presa di Costantinopoli, i saggi erano riuniti in assemblea a discutere impassibili da che parte giusta venisse la luce sul Monte Tabor. Eh, c'è una bella differenza, perché se sul Monte Tabor la luce viene dall'oriente, si ha una civiltà, ma se viene dall'occidente, se ne ha un'altra. Una parola messa prima o messa dopo, un avverbio o una virgola non possono mutare totalmente il significato di un pensiero politico o filosofico? E ben per questo che io dicevo al tanto compianto e vecchio amico Adone Zoli, che la DC, quando si parla di "apertura a sinistra", mette la virgola subito dopo "apertura", sicché "sinistra" viene a parte. La discussione, dunque, era stata lunga.
Ma ci buttammo subito dopo con frenesia nell'organizzazione. Niente organizzazione all'estero. All'estero, solo quel minimo di legami necessario per i rapporti con l'Italia. Tutta l'organizzazione è in Italia ed esclusivamente in Italia. La rivoluzione antifascista si fa in Italia, non cade dall'alto e non viene dal di fuori. O sarà un prodotto della nuova coscienza del popolo italiano o non sarà niente. La rivoluzione è in Italia ed è italiana. All'estero, in Francia, principalmente, dove era la massima emigrazione politica, la divulgazione dell'antifascismo politico, i rapporti con le correnti democratiche degli altri paesi, qualcosa di associativo, e questo lo faceva assai bene la Concentrazione. Tutto il resto in Italia, solo in Italia. Queste erano le nostre premesse politiche. Quello che distingue Giustizia e Libertà, come movimento rivoluzionario in quell'epoca, è precisamente la coscienza che dal di fuori non si fa nulla, che dall'alto non si deve attendere nulla e che tutto si costruisce in Italia. E ponemmo in forma drastica e pregiudiziale la questione istituzionale: cioè, la rivoluzione sarà fatta dal popolo italiano, sarà contro il fascismo, e contro la monarchia, per costruire una democrazia repubblicana. Ponemmo cioè, quando ancora molti attorno al re speravano interventi miracolosi, il problema della repubblica, e in termini di assoluta preclusione ad ogni altra soluzione.
E' chiaro che, parlando di questi problemi, io sarei portato a svilupparli, ma mi fermo, perché, dal punto di vista cronometrico, la mia testimonianza si chiude qui. D'altronde io stesso sono in corso di chiarire parecchi dei problemi di fronte ai quali si è trovato il movimento di Giustizia e Libertà, di cui io ho parlato solo del primissimo periodo; lo sviluppo successivo è complesso. Giustizia e Libertà seguirà tutta la situazione nazionale e internazionale: è presente in Spagna, e Carlo Rosselli è stato ucciso perché fu un grande protagonista del primo intervento in Spagna. Dopo la caduta di Mussolini, Giustizia e Libertà e il Partito d'Azione si fondono pur non essendo la stessa cosa, come i più sostengono, e si proiettano in una situazione politica generale differente. Giustizia e Libertà si costituiva quando il fascismo era all'apogeo del suo trionfo, mentre il partito d'azione si organizzava quando il fascismo cominciava la parabola discendente.
Molte cose occorrerà ancora chiarire, per vedere quali erano i limiti di Giustizia e Libertà e del Partito d'Azione, per spiegarne la scomparsa dalla scena politica, dopo aver scritto una pagina che è fra le massime della democrazia italiana moderna, ed essere stati fra i fattori più determinanti e decisivi della lotta politica culminata nella Resistenza. E voi a Torino e nel Piemonte ne avete una larga testimonianza. Per il problema istituzionale, poi, mi permetto affermare che, senza questa decisa e pregiudiziale istanza repubblicana, che noi demmo fin dall'inizio del movimento rivoluzionario, non si sarebbe arrivati alla repubblica. Ma tutti questi chiarimenti io li vado elaborando e spero prossimamente potrà uscire un mio lavoro, editore Einaudi, precisamente su Giustizia e Libertà e il Partito d'Azione. Come vedete, un uomo politico profitta sempre di una grande assemblea come questa, per farsi pubblicità.
EMILIO LUSSU: BREVE NOTA BIOGRAFICA
Nasce ad Armungia, piccolo paese in provincia di Cagliari, il 4 dicembre 1890. Della vita paesana serberà sempre un ricordo indelebile, considerandola indispensabile per la sua formazione democratica. La consapevolezza politica, dopo il confuso agitazionismo interventista che ne ha caratterizzato il periodo studentesco, nasce però sui fronti della Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipa come capitano di fanteria della Brigata "Sassari". E' l'occasione in cui, non soltanto Lussu, ma una intera generazione di contadini e pastori sardi, hanno la possibilità di aprire gli occhi sulla propria condizione sociale: la guerra diventa perciò scuola rivoluzionaria (vedi Un anno sull'altipiano). La Sardegna post-bellica, gravemente impoverita dal conflitto, è terreno fertile per l'azione politica del Partito Sardo d'Azione, fondato nel 1921 da Lussu, Bellieni ed altri ex combattenti, che si pone a sinistra come portatore delle istanze delle classi proletarie in un quadro di recupero della questione nazionale sarda. Lussu è eletto deputato nelle elezioni del 1921 e del 1923, il periodo di ascesa del movimento fascista. Il sardismo si divide: abilmente gli emissari di Mussolini portano dalla loro una parte del partito, e lo stesso Lussu inizialmente non valuta a pieno il pericolo di un dialogo con i fascisti. Tuttavia la posizione successiva è netta: antifascismo intransigente. Per questo, avendo preso parte alla secessione aventiniana, nel 1926 è dichiarato decaduto dal mandato parlamentare e viene perseguitato dai fascisti: nello stesso anno è aggredito in casa da squadristi sardi e per legittima difesa è costretto ad uccidere uno degli assalitori (vedi Marcia su Roma e dintorni). La magistratura cagliaritana, non ancora soggiogata dal regime, lo assolve, ma viene immediatamente confinato a Lipari. E' l'isola che ospita di lì a poco un altro personaggio chiave del movimento antifascista: Carlo Rosselli. I due, con Fausto Nitti, e grazie all'indispensabile aiuto di Gioacchino Dolci e Paolo Fabbri, riescono ad evadere in motoscafo nel luglio del '29 (vedi La catena). Raggiunta Parigi si mettono in contatto con i fuorisciti riuniti intorno alla figura di Salvemini: nasce il movimento Giustizia e Libertà. Pur partecipando in modo saltuario alla vita politica a causa delle precarie condizioni di salute, riesce a collaborare con una certa assiduità al settimanale ed ai quaderni del Movimento, facendosi promotore di un suo più marcato e consapevole indirizzo socialista (vedi Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di Giustizia e Libertà; La teoria dell'insurrezione). Dopo l'assassinio di Carlo Rosselli nel '37 eredita il timone del Movimento, del quale evita la dispersione, specialmente nel difficile periodo dell'offensiva tedesca in Francia. Inizia il periodo della "diplomazia clandestina", con l'aiuto importantissimo dalla moglie Joyce, durante il quale tenta di proporre agli Alleati il progetto di un colpo di mano che permetta di far crollare il regime fascista a partire dall'insurrezione della Sardegna. Il suo peregrinare fra i centri di comando degli Alleati non porta alcun appoggio concreto al progetto, ma mostra loro, in ogni caso, l'esistenza di un fronte antifascista pronto ad assumere la responsabilità di una partecipazione diretta al conflitto (vedi Diplomazia clandestina). Riesce a rientrare in Italia soltanto nell'agosto del '43. Nel frattempo ha saputo della nascita del Partito d'Azione, nel quale, pur consapevole delle differenze politiche, ma spinto dalla superiore esigenza unitaria della lotta di liberazione, fa confluire il Movimento GL. Si installa nella Roma occupata dai nazisti e insieme a Ugo La Malfa regge il partito sino alla conclusione della guerra. Mentre il PdA si lacera in una lotta intestina fra filosocialisti (riuniti intorno a Lussu) e filocentristi (guidati da La Malfa), assume l'incarico di ministro nei governi Parri e De Gasperi (vedi Sul Partito d'azione e gli altri). E' inoltre deputato alla Costituente e senatore di diritto. Ma anche il Partito sardo, che aveva lasciato al momento dell'esilio su posizioni di sinistra, è ora retto da una maggioranza moderata, molto attenta agli interessi dei ceti proprietari e delle libere professioni, per di più attraversata da umori separatisti: la sua battaglia per riportare il partito allo spirito originario viene persa e Lussu va via per formare una gruppo che poi aderirà al PSI (con tessera retrodatata al 1919, l'anno delle grandi lotte contadine e operaie combattute in Sardegna, che lo videro fra i principali protagonisti). Il periodo da parlamentare socialista è ricco di interventi in aula e fuori: dalla questione dell'adesione alla NATO al riconoscimento della Cina comunista, dalla difesa della Repubblica democratica e antifascista alle lotte per lo sviluppo economico e il progresso sociale della Sardegna (vedi Essere a sinistra; Discorsi parlamentari). Il 1964 segna la rottura con il PSI: la decisione di Nenni di entrare nel governo di centrosinistra a guida democristiana provoca la scissione che porta alla fondazione del PSIUP, una formazione che avrà però vita breve: la sconfitta elettorale ne accelera l'adesione al PCI, ma Lussu, coerentemente con la sua storia, rifiuta di confluire. Si spegne a Roma nel 1975. Lussu è un personaggio scomodo e in Sardegna non ha mai trovato una formazione politica che facesse proprio il suo patrimonio di lotte e ideali: la sua statura morale e la fermezza del suo agire politico attendono ancora un erede.
Fra le sue pubblicazioni: La catena, Baldini&Castoldi, Milano, 1997 (ed. or. 1930); Marcia su Roma e dintorni, Einaudi, Torino, 1994 (ed. or. 1933); Un anno sull'altipiano, Einaudi, Torino, 1996 (ed. or. 1938); La teoria dell'insurrezione, Jaka Book, Milano, 1976 (ed. or. 1936); Diplomazia clandestina (ed. or. 1955) in Per l'Italia dall'esilio, a cura di M. Brigaglia, Edizioni della Torre, Cagliari, 1976; Sul Partito d'azione e gli altri, Mursia, Milano, 1968; Il cinghiale del diavolo, Einaudi, Torino, 1976 (Lussu narratore).
Indispensabili le testimonianze di Joyce, moglie e compagna di lotta: Fronti e frontiere, Mursia, Milano, 1969; L'olivastro e l'innesto, Edizioni della Torre, Cagliari, 1982.
Fra le raccolte di scritti, si ricordano: Essere a sinistra, a cura del Collettivo Emilio Lussu di Cagliari, Mazzotta, Milano, 1976; Lettere a Carlo Rosselli e altri scritti di Giustizia e Libertà, a cura di Manlio Brigaglia, Dessì, Sassari, 1979; Discorsi parlamentari, a cura di Manlio Brigaglia, Roma, 1986, 2 voll.
Su Lussu: la biografia di Giuseppe Fiori, Il Cavaliere dei Rossomori, Einaudi, Torino, 1985; l'analisi del periodo giellista di Manlio Brigaglia, Emilio Lussu e «Giustizia e Libertà», Edizioni della Torre, Cagliari, 1976.
Marcia su Roma e dintorni
Pubblicato da Einaudi, è una efficace rappresentazione sarcastica del male più persistente della nostra storia patria: il trasformismo. All'indomani della "marcia su Roma", quando il fascismo prende il potere, un gran numero di persone capisce che il vento è cambiato e si adegua. Lussu racconta tutto questo ai lettori stranieri, mettendo in luce i lati ridicoli ma anche quelli tragici del nuovo corso politico. Memorabili le descrizioni dei passaggi di campo di amici e compagni dichiaratisi con veemenza sino a pochi giorni prima fieri avversari del fascismo. Forse è il migliore libro di Lussu.
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Salvatore Mangiacotti
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lunedì 18 febbraio 2008
Biografia di una città invisibile.
«Questa è la storia vera, perché è la storia che mi è stata tramandata dalla tradizione, da mio nonno» Elchide Trippa
Le città sono cipolle. Oppure, per usare un'altra immagine, sono come i tavoli da lavoro dei cartoni animati: serie di lucidi sovrapposti. Il primo lucido è lo sfondo naturale, il secondo contiene le strade, il terzo le reti elettriche e fognarie, poi gli edifici, poi l'arredamento urbano, poi gli uomini e i loro spostamenti – veri mattoni significanti. Alla fine si vede la città: stratificazione di elementi, accumulo di piani. Forse è proprio questa la sua caratteristica precipua: essere un conglomerato di strutture. Italo Calvino (sì, sempre lui quando si parla di città, non fate quella faccia scocciata) aveva rimescolato attraverso innumerevoli combinazioni la struttura della città, scomposto la sua materialità cognitiva; aveva fondamentalmente giocato con un versatilissimo meccano a costruire, decostruire e ricostruire ancora modelli di città secondo un procedimento ben più umanistico che architettonico. Una di queste era Armilla, città fatta solo di tubi dell'acqua, città disegnata per contrasto. Non si vedono muri, tetti, pavimenti: solo l'impalcatura idraulica che disegna la forma. Insomma, semplificando un po', uno solo dei molteplici elementi costitutivi dell'urbs, sufficiente comunque a renderne un'immagine funzionale. Un'operazione simile l'ha fatta Alessandro Portelli, 13 anni dopo, nel 1985 con un'altra città, vera ma non per questo meno invisibile nel panorama italiano. Portelli ha disegnato questa città scegliendo anch'egli solo uno degli elementi che la costituiscono: non i tubi, ma la memoria della sua gente. In Biografia di una città. Storia e racconto: Terni 1830-1985, Portelli ha dato il via alla cosiddetta “storia orale”. «Questo libro è il tentativo di dare forma narrativa a una città intera» come recita la prima riga della quarta di copertina dell'unica edizione Einaudi. Preceduto da un'interessante e spiazzante introduzione sull'etica della trascrizione (operazione apparentemente semplice ma in realtà tutt'altro che anodina), il testo ricostruisce la storia della città di Terni attraverso l'oralità e la memoria dei suoi abitanti. Poche volte come qui l'etimo della parola testo rende bene la natura dell'operazione di Portelli, che si è fatto vero tessitore di racconti. Non una foto, solo alcuni dati d'archivio, la voce del montatore che affiora pochissime volte per accompagnare le transizioni. Ecco dunque che dietro la facciata di una città rinomata per non essere rinomata (provate a chiedere in giro dove si trova Terni) si scopre un arazzo che raffigura una massa brulicante e combattiva mentre narra (c)oralmente la propria biografia urbana variegata, sofferente ed ingenua. Non è un caso se il cittadino che meglio di tutti l'ha raffigurata sia il calzolaio-pittore naïf Orneore Metelli.
Il rigore storiografico è dislocato fin dall'inizio, fin dal sottotitolo dove “storia e racconto” sono da intendere come locuzione inscindibile. Non è un testo storico nel senso tradizionale del termine, non ne ha le premesse né il rigore scientifico (l'autore del resto non è uno storico bensì un insegnante di letteratura americana). Ma è un testo storico in quanto tessuto dalle parole impastate di dialetto (altro livello urbano) di chi quella storia l'ha fatta e vissuta. Ed è anche e necessariamente un testo narrativo, in quanto quelli che ci presenta sono racconti. Sono i “nonno, raccontami di quand'eri partigiano”. Sono il materiale che un altro autore, che di storie se ne intende, ha riciclato in una differente forma narrativa: Ascanio Celestini ne ha infatti tratto il suo Fabbrica nel 2002 e molto del contemporaneo teatro di narrazione deve qualcosa a operazioni storico-narrative come questa. L'acciaieria è in realtà meno presente nel testo di Portelli di quanto ci si potrebbe aspettare dal racconto di una città che è praticamente nata e cresciuta attorno alla sua fabbrica siderurgica, non solo urbanisticamente ma a livello identitario. Tra le memorie delle imprese garibaldine, i rapporti carnevaleschi tra contadini e i primi industriali, la resistenza partigiana e i 108 bombardamenti, l'acciaieria riveste un ruolo di accompagnamento più che di protagonismo: è il secondo lucido, quasi di sfondo, subito dopo le aspre colline umbre. Come ne Le città invisibili dove – per ammissione dello stesso autore – la parte più oulipiana era l'indice, in cui se ne rivelava la struttura combinatoria, così anche per Biografia di una città l'indice dei nomi è la vera anima del testo: circa 170 tra operai e operaie, casalinghe, impiegati, contadine, tecnici, studenti, artigiani, preti, commercianti, poeti e giornalisti nati tra il 1886 e il 1966. Questo elenco di nomi di tre generazioni di ternani è il cuore dell'opera, un finale anche foneticamente significativo del biografico ternano, nomi che significano la città: Agamante Androsciani (operaio specializzato), il quasi mitico Dante Bartolini (operaio, contadino, calzolaio, barista, ammazzatore di maiali, esperto di erbe medicinali, poeta, cantore, narratore, partigiano), Baconin Borzacchini (pilota automobilistico) che dovette cambiar nome in Mario Umberto e poi Canzio Eupizi, il comandante Alfredo Filipponi, il sindaco poeta Amerigo Matteucci, Diname Colesanti e il partigiano Comunardo Tobia. Nomi che hanno fatto, e ora anche scritto, la vita della città dai moti carbonari e dal brigantaggio alle ultime manifestazioni dei consigli di fabbrica, attraversando anche i generi letterari, con toni che da leggenda diventano via via più da cronaca man mano che la memoria dei racconti dei bisnonni è sostituita dai più scarni resoconti che i più giovani fanno di quell'ossimoro che chiamiamo “storia recente”.
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Salvatore Mangiacotti
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domenica 17 febbraio 2008
Le Città invisibili.
La città di Leonia rifà se stessa tutti i giorni: ogni mattina la popolazione si risveglia tra lenzuola fresche, si lava con saponette appena sgusciate dall'involucro, indossa vestaglie nuove fiammanti, estrae dal più perfezionato frigorifero barattoli di latta ancora intonsi, ascoltando le ultime filastrocche dall'ultimo modello d'apparecchio. Sui marciapiedi, avviluppati in tersi sacchi di plastica, i resti della Leonia d'ieri aspettano il carro dello spazzaturaio. Non solo tubi di dentifricio schiacciati, lampadine fulminate, giornali, contenitori, materiali d'imballaggio, ma anche scaldabagni, enciclopedie, pianoforti, servizi di porcellana: più che dalle cose che ogni giorno vengono fabbricate vendute comprate, l'opulenza di Leonia si misura dalle cose che ogni giorno vengono buttate via per far posto alle nuove. Tanto che ci si chiede se la vera passione di Leonia sia davvero, come dicono, il godere delle cose nuove e diverse, o non piuttosto l'espellere, l'allontanare da sé, il mondarsi d'una ricorrente impurità.Certo è che gli spazzaturai sono accolti come angeli, e il loro compito di rimuovere i resti dell'esistenza di ieri è circondato d'un rispetto silenzioso, come un rito che ispira devozione, o forse solo perché una volta buttata via la roba nessuno vuole più averci da pensare. Dove portino ogni giorno il loro carico gli spazzaturai nessuno se lo chiede: fuori della città, certo; ma ogni anno la città s'espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l'imponenza del gettito aumenta e le cataste s'innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto. Aggiungi che più Leonia eccelle nel fabbricare nuovi materiali, più la spazzatura migliora la sua sostanza, resiste al tempo, alle intemperie, a fermentazioni e combustioni. E` una fortezza di rimasugli indistruttibili che circonda Leonia, la sovrasta da ogni lato come un acrocoro di montagne. Il risultato è questo: che più Leonia espelle roba più ne accumula; le squame del suo passato si saldano in una corazza che non si può togliere; rinnovandosi ogni giorno la città conserva tutta se stessa nella sola forma definitiva: quella delle spazzature d'ieri che s'ammucchiano sulle spazzature dell'altroieri e di tutti i suoi giorni e anni e lustri. Il pattume di Leonia a poco a poco invaderebbe il mondo, se sullo sterminato immondezzaio non stessero premendo, al di là dell'estremo crinale, immondezzai d'altre città, che anch'esse respingono lontano da sé montagne di rifiuti. Forse il mondo intero, oltre i confini di Leonia, è ricoperto da crateri di spazzatura, ognuno con al centro una metropoli in eruzione ininterrotta. I confini tra le città estranee e nemiche sono bastioni infetti in cui i detriti dell'una e dell'altra si puntellano a vicenda, si sovrastano, si mescolano. Più ne cresce l'altezza, più incombe il pericolo delle frane: basta che un barattolo, un vecchio pneumatico, un fiasco spogliato rotoli dalla parte di Leonia ed una valanga di scarpe spaiate, calendari d'anni trascorsi, fiori secchi, sommergerà la città nel proprio passato che invano tentava di respingere, mescolato con quello delle città limitrofe, finalmente monde: un cataclisma spianerà la sordida catena montuosa, cancellerà ogni traccia della metropoli sempre vestita a nuovo. Già dalle città vicine sono pronti coi rulli compressori per spianare il suolo, estendersi nel nuovo territorio, ingrandire se stesse, allontanare i nuovi immondezzai.
Italo Calvino
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sabato 16 febbraio 2008
Il futuro alle spalle.
George Orwell
Il padre, angloindiano, è funzionario dell'Indian Civil Service, l'amministrazione britannica in India. La sua famiglia è di modeste condizioni economiche e appartiene a quella borghesia dei sahib che lo scrittore stesso definirà ironicamente "nobiltà senza terra", per le pretese di raffinatezza e decoro che contrastavano con gli scarsi mezzi finanziari a sua disposizione.
Tornato in patria nel 1907 con la madre e le due sorelle, si stabilisce nel Sussex, dove si iscrive alla Saint Cyprian School. Ne esce con un opprimente complesso d'inferiorità, dovuto alle sofferenze ed alle umiliazioni che era stato costretto a subire per tutti i sei anni di studio (come racconterà nel suo saggio autobiografico "Such, Such were the Joys" del 1947). Rivelatosi tuttavia studente precoce e brillante, vince una Borsa di Studio per la famosa Public School di Eton, che frequenta per quattro anni, e dove ha per insegnante Aldous Huxley, narratore che, con le sue Utopie alla rovescia, grande influenza avrà sul futuro scrittore.
Non prosegue gli studi, come invece ci si aspettava da lui, ad Oxford o Cambridge ma, spinto da un profondo impulso all'azione, e probabilmente anche dalla decisione di seguire le orme paterne, si arruola nel 1922 nella Indian Imperial Police, prestando servizio per cinque anni in Birmania. Pur avendo ispirato il suo primo romanzo, "Giorni birmani", l'esperienza vissuta nella Polizia Imperiale si rivela traumatica: diviso tra il crescente disgusto per l'arroganza imperialista e la funzione repressiva che il suo ruolo gli impone, si dimette nel 1928.
Rientrato in Europa, il desiderio di conoscere le condizioni di vita delle classi subalterne lo induce a umili mestieri nei quartieri più poveri di Parigi e di Londra. Sopravvive grazie alla carità dell'Esercito della Salvezza e sobbarcandosi lavori umili e miseri. Questa esperienza è raccontata nel romanzo-resoconto "Miseria a Parigi e Londra".
Tornato in Inghilterra alterna all'attività di romanziere quella di insegnante in scuole private, di commesso di libreria e di recensore di romanzi per il New English Weekly.
Scoppiata la Guerra Civile Spagnola vi prende parte combattendo tre le file del Partito Obrero de Unificacción Marxísta. L'esperienza spagnola e la disillusione procuratagli dai dissensi interni della Sinistra, lo portano a pubblicare un diario-reportage ricco di pagine drammatiche e polemiche, il celebre "Omaggio alla Catalogna" (pubblicato nel 1938), acclamato da più parti come il suo risultato migliore in campo letterario. Da qui in avanti, come dirà l'autore stesso nel saggio del 1946, "Perchè scrivo", ogni sua riga sarà spesa contro il Totalitarismo.
Durante la Seconda Guerra Mondiale cura per la BBC una serie di trasmissioni propagandistiche dirette all'India, quindi è direttore del settimanale di Sinistra "The Tribune" ed infine corrispondente di guerra dalla Francia, Germania e Austria, per conto dell'Observer.
Nel 1945 compare il primo dei suoi due famosi romanzi utopici "La fattoria degli animali" che coniugando il romanzo con la favola animale e la lezione satirica, costituisce un unicum della narrativa orwelliana; nel 1948 esce l'altra sua celebre opera "1984", utopia che prefigura un mondo dominato da due superstati perennemente in guerra tra loro, e scientificamente organizzati all'interno in modo da controllare ogni pensiero ed azione dei propri sudditi. Con questo romanzo George Orwell prosegue e dà nuova linfa alla cosiddetta tradizione della letteratura distopica, cioé dell'Utopia alla rovescia.
Infatti: «L'opera illustra, l'ingranaggio di un governo totalitario. L'azione si svolge in un futuro prossimo del mondo (l'anno 1984), in cui il potere si concentra in tre immensi super-stati: Oceania, Eurasia ed Estasia. Londra è la principale città di Oceania. Al vertice del potere politico in Oceania c'è il Grande Fratello, onnisciente e infallibile, che nessuno ha visto di persona. Sotto di lui c'è il Partito interno, quello esterno e la gran massa dei sudditi. Ovunque sono visibili grandi manifesti con il volto del Grande Fratello. Gli slogan politici ricorrenti sono: "La pace è guerra", "La libertà è schiavitù", "L'ignoranza è forza". Il Ministero della Verità, nel quale lavora il personaggio principale, Winston Smith, ha il compito di censurare libri e giornali non in linea con la politica ufficiale, di alterare la storia e di ridurre le possibilità espressive della lingua. Per quanto sia tenuto sotto controllo da telecamere, Smith comincia a condurre un'esistenza ispirata a principi opposti a quelli del regime: tiene un diario segreto, ricostruisce il passato, si innamora di una collega, Julia, e dà sempre più spazio a sentimenti individuali. Insieme con il compagno di lavoro O'Brien, Smith e Julia iniziano a collaborare con un'organizzazione clandestina, detta Lega della Fratellanza. Non sanno tuttavia che O'Brien è una spia che fa il doppio gioco ed è ormai sul punto di intrappolarli. Smith viene arrestato, sottoposto a torture e a un indicibile processo di degradazione. Alla fine di questo trattamento è costretto a denunciare Julia. Infine O'Brien rivela a Smith che non è sufficiente confessare e sottomettersi: il Grande Fratello vuole avere per sè l'anima e il cuore di ogni suddito prima di metterlo a morte»
[sunto tratto da: "Enciclopedia della letteratura Garzanti"].
Tuttavia, a differenza di altri campioni dell'escatologia negativa, come Aldous Huxley con il suo "Mondo nuovo" e di Evgenij Zamjatin con "Noi", per i quali la visione profetica era ancora piuttosto lontana (essendo ambientata nel millennio successivo), in Orwell viene profetizzata una situazione a noi vicina temporalmente. I nessi e le assonanze con il regime comunista non possono dunque sfuggire.
George Orwell scrisse anche molta saggistica. Tale sua produzione spazia dalla critica letteraria ad argomenti sociologici, sino al pericolo dell'"invasione della Letteratura da parte della Politica".
George Orwell è morto il 21 gennaio 1950 per tubercolosi, in un ospedale di Londra.
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Salvatore Mangiacotti
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venerdì 15 febbraio 2008
I primi che si amano...
"I primi che si amano
sono i poeti e i pittori della generazione precedente,
o dell'inizio del secolo; prendono
nel nostro animo il posto dei padri, restando,
però, giovani, come nelle loro fotografie ingiallite.
Poeti e pittori per cui l'essere borghesi non era vergogna...
figli in vigogna e feltri...
o povere cravatte che sapevano di ribellione e di madre.
[...]
La ventata della disobbedienza sa di ciclamino
sulle città ai piedi dei poeti giovani!
[...]
Abbi pure nostalgia di loro quando hai sedici anni.
Ma comincia subito a sapere
che nessuno ha fatto rivoluzioni prima di te;
che i poeti e i pittori vecchi o morti,
malgrado l'aria eroica di cui tu li aureoli,
ti sono inutili, non t'insegnano nulla.
Godi delle tue prime ingenue e testarde esperienze,
timido dinamitardo, padrone delle notti libere,
ma ricorda che tu sei qui solo per essere odiato,
per rovesciare e uccidere."
(P.P. Pasolini, Teorema)
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Salvatore Mangiacotti
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giovedì 14 febbraio 2008
Marcinelle.
--Fu scritto con il gesso su di una tavoletta di legno da una delle vittime, mentre cercavano scampo...
--Dal 1946 al 1956 il numero dei lavoratori, provenienti dall'Italia, morti nelle miniere belghe e in altri incedenti sul lavoro è di oltre seicento.
--A causa di un errore umano, l'otto agosto 1956 il Belgio venne scosso da una tragedia senza precedenti, un incendio scoppiato in uno dei pozzi della miniera di carbon fossile del Bois du Cazier, causò la morte di 262 persone di dodici diverse nazionalità, soprattutto italiane, 136 vittime, poi belghe, 95; fu una tragedia agghiacciante, i minatori rimasero senza via di scampo, soffocati dalle esalazioni di gas. Le operazioni di salvataggio furono disperate fino al 23 agosto quando uno dei soccorritori pronunciò in italiano: "Tutti cadaveri!"
Marcinelle - Le Bois du Cazier - il Museo
Marcinelle - Le Bois du Cazier - 8 agosto 1956 - rassegna stampa
VIA - Opera Teatrale di Fabrizio Saccomanno dedicata alla tragedia di Marcinelle
Grandi Tragedie dell'Emigrazione Italiana
--Solo dopo la tremenda tragedia di Marcinelle venne finalmente introdotta nelle miniere del Belgio la maschera antigas. Le condizioni in cui lavoravano i minatori erano deplorevoli; il Governo Italiano per la reazione scandalizzata della popolazione, della stampa e dei sindacati di fronte all'alta frequenza con cui si succedevano gli incidenti nelle miniere belghe, interruppe a volte l'enorme esodo di manovali italiani verso il Belgio. Altra conseguenza fu una regolamentazione più severa in materia di sicurezza sul lavoro.
--In quegli anni partirono per il Belgio 140'000 lavoratori, 18'000 donne e 29'000 bambini, moltissimi di loro erano di San Giovanni in Fiore, Caccuri, Cerenzia, Castelsilano, Santa Severina, Rocca Bernarda, Savelli, Scandale, di tutta la Sila e dell'intero Marchesato di Crotone. Un fiume di Calabresi giunse in Belgio con i convogli ferroviari che partivano da Milano.
--La tragedia della miniera di Marcinelle, dopo quella della miniera di Monongah in West Virginia, è la più grande della storia dell'emigrazione italiana.
--Esiste un Museo "LE BOIS DU CAZIER" sulla grave tragedia mineraria avvenuta appunto nella miniera di carbone Bois du Cazier a Marcinelle, a sud di Charleroi; i due castelletti di estrazione danno immediatamente il senso del luogo, le strutture architettoniche in mattoni, classificate come monumento dal 1990, restaurati accuratamente allo scopo, ospitano lo spazio "8 agosto 1956", un Museo dell'Industria e un "forum" per ospitare manifestazioni culturali ed esposizioni temporanee...
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Salvatore Mangiacotti
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mercoledì 13 febbraio 2008
Crisi finanziaria.
L'estate 2007 ha confermato lo sprofondamento del capitalismo in catastrofi sempre più frequenti: l’inferno imperialistico illustrato dai costanti bagni di sangue di civili in Iraq; le devastazioni causate dal cambiamento climatico provocato dalla ricerca sfrenata del profitto; un nuovo tonfo nella crisi economica che promette un maggiore impoverimento della popolazione mondiale. All'inverso, la classe operaia, la sola forza capace di salvare la società umana, è sempre più scontenta del sistema capitalista in putrefazione. Ma è sulla crisi economica che rivolgeremo la nostra attenzione in questo articolo, visto i drammatici avvenimenti iniziati nel settore immobiliare negli Stati Uniti e che hanno scosso la finanza internazionale ed il sistema economico del mondo intero.
La bolla esplode
A settembre, la Banca dell'Inghilterra ha criticato le altre banche centrali per aver appoggiato gli investitori pericolosi ed imprudenti che avevano scatenato la crisi, raccomandando una politica più severa che punisse i cattivi protagonisti ed impedisse la ricomparsa degli stessi problemi di speculazione. Ma all'indomani stesso, il presidente della Banca, Mervyn King, ha effettuato una virata di 180°. La banca ha dovuto soccorrere il quinto fornitore di prestiti immobiliari del Regno Unito, il Northern Rock. La "strategia di impresa" di quest’ultima era prendere in prestito sul mercato del credito poi di riprestare il denaro, ad un tasso di interesse superiore, alle persone che acquistavano alloggi. Quando i mercati del credito hanno cominciato a crollare, anche il Northern Rock è crollato.
Appena fu annunciato il soccorso alla banca, si sono viste formare enormi code davanti alle differenti agenzie: i risparmiatori volevano ritirare il loro denaro - in 3 giorni sono stati ritirati 2 miliardi di sterline. E’ stato il primo assalto di questo tipo su una banca inglese da 140 anni (1866). Per prevenire il rischio di contagio, il governo è dovuto intervenire di nuovo e ha dovuto dare il 100% di garanzia ai clienti del Northern Rock ed ai risparmiatori di altre banche minacciate[1]. Alla fine, "la vecchia signora di Threadneedle Street" - la Banca dell'Inghilterra - è stata obbligata, come tutte le altre banche centrali appena criticate da lei stessa, di iniettare enormi somme di denaro nello scalcinato sistema bancario. Risultato: la credibilità della stessa direzione del centro finanziario di Londra - che rappresenta oggi un quarto dell'economia britannica - era in rovina.
L’atto successivo del dramma, che nel momento in cui scriviamo continua, riguarda l'effetto della crisi finanziaria sull'economia in generale. Il primo abbassamento da cinque anni dei tassi di interesse da parte della FED, al fine di rendere il credito più disponibile, non ha dato, per ora, risultati. Non ha messo fine al crollo continuo del mercato immobiliare negli Stati Uniti e non ha neanche allontanato la stessa prospettiva per gli altri 40 paesi in cui si è sviluppata la stessa bolla speculativa. Ed ancora non ha impedito lo sviluppo delle restrizioni di credito ed i loro effetti inevitabili sull'investimento e le spese delle famiglie nel loro insieme. Al posto di ciò, ha prodotto una veloce caduta del dollaro che è al suo più basso livello rispetto alle altre monete da quando il presidente Nixon lo aveva svalutato nel 1971, ed un salita record dell'Euro e delle materie prime come il petrolio e l'oro.
Questi sono dei segni annunciatori di una caduta della crescita dell'economia mondiale, addirittura di una recessione aperta, ed al tempo stesso di uno sviluppo dell'inflazione nel prossimo futuro.
In una parola, il periodo di crescita economica degli ultimi sei anni, costruita sul credito ipotecario e sul consumo e sul gigantesco debito estero e di bilancio degli Stati Uniti, è arrivato al termine.
Questi sono i dati della situazione economica attuale. La domanda è: la recessione che si profila e che tutti pensano probabile si iscrive negli inevitabili alti e bassi di un'economia capitalista fondamentalmente sana, o è un sintomo di un processo di disintegrazione, di un guasto interno del capitalismo che sarà pertanto caratterizzato da convulsioni sempre più violente?
Per rispondere a questa domanda, è innanzitutto necessario esaminare l'idea secondo cui lo sviluppo della speculazione e della crisi del credito che ne consegue sarebbe, in un certo modo, un'aberrazione o ancora una eccezione rispetto ad un sano funzionamento del sistema che potrebbero dunque essere corretti dal controllo dello Stato o attraverso una migliore regolazione. In altri termini, la crisi attuale è dovuta ai finanzieri che prendono l'economia in ostaggio?
Il credito, molto credito, ha dunque svolto un ruolo importante nell'enorme accelerazione della crescita delle forze produttive - rispetto alle epoche precedenti - e nella costituzione del mercato mondiale.
D’altro lato, viste le tendenze inerenti alla produzione capitalista, il credito ha costituito anche un potente fattore acceleratore della sovrapproduzione, della sopravvalutazione della capacità del mercato ad assorbire dei prodotti e ha dunque catalizzato le bolle speculative con le loro conseguenze sotto forma di crisi e di prosciugamento del credito. Nello stesso momento in cui facilitavano queste catastrofi sociali, la Borsa ed il sistema bancario hanno incoraggiato tutti i vizi come l'avidità e la doppiezza, caratteristiche di una classe sfruttatrice che vive del lavoro altrui; vizi che oggi vediamo prosperare sotto forma di reati e di pagamenti fittizi, di "premi" scandalosi equivalenti ad enormi fortune o di "paracaduti dorati", di frodi contabili o di furti puri e semplici, ecc.
La speculazione, i prestiti a rischio, le truffe, i tonfi in Borsa che ne conseguono e la scomparsa di enormi quantità di plusvalore sono dunque una caratteristica intrinseca dell'anarchia della produzione capitalista.
In ultima analisi, la speculazione è una conseguenza, non una causa delle crisi capitaliste. E se oggi sembra che l'attività speculativa della finanza domini l'insieme dell'economia, è perché da 40 anni, la sovrapproduzione capitalista è entrata in modo crescente in una crisi continua, dove i mercati mondiali sono saturi di prodotti e l'investimento nella produzione sempre meno lucrativo; l'inevitabile ricorso al capitale finanziario è scommettere in quella che è diventata una "economia da casinò".[2]
Un capitalismo senza eccessi finanziari non è dunque possibile; questi ultimi fanno intrinsecamente parte della tendenza del capitalismo a produrre come se il mercato non avesse limiti, da cui la stessa incapacità di un Alan Greenspan, l'ex presidente del FED, a sapere se "il mercato è sopravvalutato".
Il recente crollo del mercato immobiliare negli Stati Uniti ed in altri paesi è un'illustrazione del reale rapporto tra la sovrapproduzione e le pressioni del credito.
Così, non è a causa di una penuria di alloggi che ci sono masse di persone senza tetto; paradossalmente, ce n’è sono troppi, una vera sovrabbondanza di case vuote. L'industria della costruzione ha lavorato senza pausa in quest’ultimi cinque anni. Ma allo stesso tempo, il potere di acquisto degli operai americani è diminuito perché il capitalismo americano ha cercato di aumentare i suoi profitti. Un fossato si è creato tra i nuovi alloggi messi sul mercato e la capacità di pagamento di quelli che ne avevano bisogno. Da qui i prestiti a rischio - i subprimes - per sedurre i nuovi acquirenti che non avevano i mezzi. La quadratura del cerchio. Alla fine il mercato è crollato. Oggi, mentre un numero sempre maggiore di proprietari di alloggi vengono sloggiati ed i loro beni pignorati a causa di tassi di interesse dei loro prestiti oppressivi, il mercato immobiliare sarà ancora più saturo - negli Stati Uniti, si prevede che 3 milioni di persone perdano il loro tetto per incapacità a rimborsare i loro prestiti subprime. Si aspetta lo stesso fenomeno di miseria in altri paesi dove la bolla immobiliare è esplosa o sta per esplodere. Così, lo sviluppo dell'attività edile e dei mutui ipotecari durante l'ultimo decennio, lungi dal ridurre il numero di senza tetto, ha messo l'alloggio decente fuori portata della massa della popolazione o i proprietari di casa in un situazione precaria.[3]
Evidentemente, ciò che preoccupa i dirigenti del sistema capitalista - i suoi manager di hedge funds, i suoi ministri delle finanze, i suoi banchieri delle banche centrali, ecc. - nella crisi attuale, non sono le tragedie umane provocate dal crollo dei subprimes, e le piccole aspirazioni ad una vita migliore (a meno che esse non spingano a mettere in questione la stupidità di questo modo di produzione) ma l'impossibilità dei consumatori a pagare i prezzi che infiammano le case ed i tassi di interessi usurai sui prestiti.
Il fiasco dei subprimes illustra la crisi del capitalismo, la sua tendenza cronica, nella sua corsa al profitto, alla sovrapproduzione rispetto alla domanda solvibile; dunque la sua incapacità, malgrado le risorse materiali, tecnologiche ed umane fenomenali a sua disposizione, a soddisfare i più elementari bisogni umani.[4]
Tuttavia, per quanto assurdamente sprecone ed anacronistico appaia il sistema capitalista alla luce della recente crisi, la borghesia prova sempre a rassicurare sé stessa e l'insieme della popolazione: almeno questa non andrà male come nel 1929.
Gli "esperti" della borghesia incoraggiano piuttosto l'illusione secondo la quale la crisi finanziaria attuale sarebbe un tipo di ripetizione dei crashs finanziari del diciannovesimo secolo che erano relativamente limitati nel tempo e lo spazio. In realtà, la situazione attuale ha più in comune con il 1929 che con questo periodo anteriore dell'ascesa del capitalismo; condivide molto le caratteristiche comuni alle crisi economiche e finanziarie catastrofiche della sua decadenza, periodo che si è aperto con la Prima Guerra mondiale, di disintegrazione del modo di produzione capitalista, un periodo di guerre e di rivoluzioni.
Le crisi economiche dell'ascesa capitalista e l'attività speculativa che spesso le hanno accompagnate e precedute, costituivano dei battiti di cuore di un sistema sano ed aprivano la strada ad una nuova espansione capitalista attraverso interi continenti, a maggiori avanzamenti tecnologici, alla conquista di mercati coloniali, alla trasformazione degli artigiani e dei contadini in eserciti di lavoratori salariati, ecc.
Il crash della Borsa a New York nel 1929 che ha annunciato la prima grande crisi del capitalismo in declino ha gettato nell'ombra tutte le crisi speculative del diciannovesimo secolo. Durante "i folli anni" del 1920, il valore delle azioni del Borsa di New York, la più importante del mondo, era stato moltiplicato per cinque. Il capitalismo mondiale non aveva superato la catastrofe della Prima Guerra mondiale e, nel paese diventato più ricco del mondo, la borghesia cercava degli sbocchi nella speculazione borsistica.
Ma il "giovedì nero" del 24 ottobre 1929, fu un crollo brutale. Le vendite in fretta e furia proseguirono il "martedì nero" della seguente settimana. E la Borsa continuò a crollare fino al 1932; intanto, i titoli avevano perso l’ 89% del loro valore massimo dal 1929. Erano ridotti ai livelli mai conosciuti dal diciannovesimo secolo. Il livello massimo del valore delle azioni del 1929 non fu che ritrovato nel 1954!
Durante questo tempo, il sistema bancario americano che aveva prestato del denaro per acquistare i titoli, sprofondava. Questa catastrofe annunciò la Grande Depressione degli anni 1930, la crisi più profonda mai conosciuta dal capitalismo. Il PIL americano si dimezzò. 13 milioni di operai furono gettati in disoccupazione con quasi nessun sussidio. Un terzo della popolazione sprofondò nella povertà più abietta. Gli effetti risuonarono su tutto il pianeta.
Ma non ci fu rialzo economico come dopo le crisi del diciannovesimo secolo. La produzione riprese dopo essere stata orientata solamente verso la produzione di armamenti in preparazione di un nuova divisione del mercato mondiale attraverso il bagno di sangue imperialistico della Seconda Guerra mondiale; in altri termini, quando i disoccupati furono trasformati in carne da cannone.
La depressione degli anni ‘30 sembrò essere il risultato del 1929 ma, in realtà, il crash di Wall Street non fece che precipitare la crisi, crisi della sovrapproduzione cronica del capitalismo nella sua fase di decadenza e che è l’essenza dell'identità tra le crisi degli anni ‘30 e quella di oggi riemersa nel 1968.
La borghesia degli anni ‘50 e ‘60 ha proclamato con sufficienza che aveva risolto il problema delle crisi e che le avevano ridotte allo stato di curiosità storica grazie a palliativi come l'intervento dello Stato nell'economia sul piano nazionale ed internazionale, attraverso il finanziamento dei deficit e la tassazione progressiva. Con suo disappunto, la crisi mondiale di sovrapproduzione è riapparsa nel 1968.
Da 40 anni, questa crisi è andata da una depressione all’altra, da una recessione aperta ad un altra più grave, da un falso eldorado ad un altro. Dal 1968 la crisi non ha preso la forma di caduta libera del crash del 1929.
Nel 1929, gli esperti finanziari della borghesia adottarono misure che non riuscirono ad arginare la crisi finanziaria. Queste misure non furono errori ma metodi che avevano funzionato durante i precedenti crashs del sistema, come quello del 1907 e del panico che aveva generato; ma non erano più sufficienti nel nuovo periodo. Lo Stato si rifiutò di intervenire. I tassi di interesse aumentarono, si lasciarono diminuire le riserve monetarie, le restrizioni di credito rafforzarsi e la fiducia nel sistema bancario e nel credito volare in frammenti. Le leggi tariffarie Smoot-Hawley imposero delle barriere alle importazioni, il che accelerò il rallentamento del commercio mondiale e, di conseguenza, peggiorò la depressione.
Negli ultimi 40 anni, la borghesia ha imparato ad utilizzare i meccanismi statali per ridurre i tassi di interesse ed iniettare delle liquidità nel sistema bancario per fare fronte alle crisi finanziarie. È stata capace di accompagnare la crisi, ma al prezzo di un sovraccarico del sistema capitalista attraverso montagne di debiti. Il declino è stato più graduale che negli anni 1930; tuttavia, i palliativi si consumano ed il sistema finanziario è sempre più fragile.
L'aumento fenomenale del debito nell'economia mondiale durante l'ultimo decennio è illustrato dalla crescita straordinaria, sul mercato del credito, di hedge funds oggi celebri. Il capitale stimato di questi fondi è aumentato da 491 miliardi di dollari nel 2000 a 1745 miliardi nel 2007[5]. Le loro transazioni finanziarie complicate, per la maggior parte segrete e non regolate, utilizzano il debito come una sicurezza negoziabile nella ricerca di guadagni a breve termine. Gli hedge funds sono considerati come operazioni che hanno sparso cattivi debiti attraverso il sistema finanziario, accelerando ed estendendo velocemente l’attuale crisi finanziaria.
Il Keynesianesimo, sistema di finanziamento del deficit attraverso lo Stato per mantenere il pieno impiego, è evaporato con l'inflazione galoppante degli anni 1970 e le recessioni del 1975 e 1981. La Reaganomics ed il Thatcherismo, mezzi per restaurare i profitti attraverso la riduzione del salario sociale, la diminuzione delle tasse, e lasciando le imprese non redditizie fallire e provocare una disoccupazione di massa, sono spirate col crash borsista del 1987, lo scandalo della Savings and Loans (Società di credito per la casa popolare) e la recessione del 1991. I Dragoni asiatici si sono sgonfiati nel 1997, con enormi debiti. la rivoluzione Internet, la "nuova economia", si è rivelata non avere "nessuna rendita apparente" ed il boom delle sue azioni ha fatto fallimento nel 1999. Il boom dell'immobiliare e l'esplosione del credito dei consumi dei cinque ultimi anni, e l'utilizzazione del gigantesco debito estero degli Stati Uniti per fornire una domanda per l'economia mondiale e l'espansione "miracolo" dell'economia cinese – mettono anche quest’ultima in questione.
Non si può predire esattamente come l'economia mondiale proseguirà nel suo declino ma, ciò che sono inevitabile, sono sempre più le convulsioni crescenti ed un’aumentata austerità.
E’ da oltre un secolo ormai che le condizioni sono mature affinché siano aboliti il regno della borghesia e lo sfruttamento capitalista. In assenza di una risposta radicale del proletariato che lo porti a rovesciare il capitalismo a scala mondiale, le contraddizioni di questo sistema moribondo, la crisi economica in particolare, non fanno che aggravarsi. Se oggi il credito continua a sostenere un ruolo nell'evoluzione di queste contraddizioni, ciò non può più favorire la conquista del mercato mondiale dal momento che il capitalismo ha già stabilito da molto il dominio dei suoi rapporti di produzione sull'insieme del pianeta. In compenso, ciò che l'indebitamento massiccio di tutti gli Stati ha permesso effettivamente al capitalismo, è di evitare dei tonfi brutali dell'attività economica, ma non a qualsiasi prezzo. Così, dopo avere per decenni costituito un fattore di appianamento dell'antagonismo tra gli sviluppi delle forze produttive ed i rapporti di produzione capitalista diventati antiquati, la pazza fuga in avanti nell'utilizzazione massiccia e generalizzata del credito, "le manifestazioni violente di questo antagonismo", fa conoscere accelerazioni brutali che scuoteranno come non mai l'edificio sociale. Tuttavia, prese per sé stesse, tali scosse non costituiscono una minaccia per la divisione della società in classi. Lo diventano invece dal momento che contribuiscono a mettere il proletariato in movimento.
Ora, come i rivoluzionari hanno sempre messo in evidenza, è la crisi che va ad accelerare il processo già in corso di presa coscienza del vicolo cieco del mondo attuale. E’ essa che, a breve termine, spingerà nella lotta, più massicciamente, numerosi settori della classe operaia, permettendo a quest’ultima di moltiplicare le esperienze. La posta in gioco di queste esperienze future è la capacità, per la classe operaia, di difendersi e di affermarsi di fronte a tutte i settori della borghesia, di prendere fiducia nelle proprie forze ed acquistare progressivamente la coscienza di essere la sola forza della società capace di rovesciare il capitalismo.
[1] Secondo la rivista economica britannica The Economist, questa garanzia era in realtà un bluff.
[2] "Non sono i discorsi pomposi degli "altermondialisti" ed altri sostenitori della "finanziarizzazione" dell'economia che cambieranno qualche cosa. Queste correnti politiche vorrebbero un capitalismo "pulito", "equo", che in particolare girasse le spalle alla speculazione. In realtà, questa non è per niente il prodotto di un "cattivo" capitalismo che "dimentica" la sua responsabilità di investire nei settori realmente produttivi. Come ha stabilito Marx dal diciannovesimo secolo, la speculazione risulta dal fatto che, nella prospettiva di una mancanza di sbocchi sufficienti per gli investimenti produttivi, i detentori di capitali preferiscono farli fruttare a breve termine in un'immensa lotteria, una lotteria che trasforma oggi il capitalismo in un casinò planetario. Volere che il capitalismo rinunci alla speculazione nel periodo attuale è realistico tanto quanto volere che le tigri diventino vegetariane, o che i draghi smettano di sputare fuoco". (Risoluzione sulla situazione internazionale adottata dal 17° congresso della CCI).
[3] Benjamin Bernanke, presidente della FED, parla degli arretrati di pigione come atti di "delinquenza": in altri termini, delle infrazioni contro Mammone. Perciò, i "criminali" sono stati puniti... attraverso tassi di interesse ancora più alti!
[4] Non possiamo affrontare qui la questione della situazione dei senza tetto nell'insieme del mondo. Secondo la Commissione delle Nazioni Unite sui Diritti dell'uomo, un miliardo di persone sul pianeta non ha alloggio adeguato e 100 milioni non ha alcuno alloggio.
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lunedì 11 febbraio 2008
Agapito Malteni Il ferroviere.
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Salvatore Mangiacotti
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domenica 10 febbraio 2008
Foibe: tombe senza nomi e senza fiori dove regna il silenzio dei vivi e il silenzio dei morti...
Ma quante furono le vittime delle foibe? Nessuno lo saprà mai! Di certo non lo sanno neanche gli esecutori delle stragi. Questi non hanno parlato e non parlano. D'altra parte è pensabile che in quel clima di furore omicida e di caos ben poco ci si curasse di tenere contabilità delle esecuzioni. Sulla base di vari elementi (escludendo Basovizza ) si calcola che gli infoibati furono alcune migliaia. Più precisamente, secondo lo studioso triestino raoul pupo, "il numero degli infoibati può essere calcolato tra i 4 mila e i 5 mila, prendendo come attendibili i libri del sindaco Gianni Bartoli e i dati degli anglo-americani".
Alle vittime vanno aggiunti i deportati, anche questi a migliaia nei lager jugoslavi, dai quali una gran parte non conobbero ritorno. Complessivamente le vittime di quegli anni tragici, soppresse in vario modo da mano slavo-comunista, vengono indicati in 10 mila anche più. Belgrado non ha mai fatto o contestato cifre. Lo stesso tito però ammise la grande mattanza. In alto abbiamo accennato a Basovizza, ma cos'è? Occorre precisare che questa tristemente famosa voragine non è una Foiba naturale, ma il pozzo di una miniera scavato all'inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri, nella speranza di trovarvi il carbone. La speranza andò delusa e l'impresa venne abbandonata. nessuno allora si curò di coprire l'imboccatura e così, nel 1945, il pozzo si trasformò in un grande, orrida tomba. Anche qui i deportati venivano prima catturati poi fatti salire in autocarri della morte questi, con le mani straziate dal filo spinato venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazione riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. La maggior parte delle vittime venivano prima spogliate e seviziate.
Per quanto riguarda specificamente le persone fatte precipitare nella foiba di basovizza, è stato fatto un calcolo inusuale e impressionante. Tenendo presente la profondità del pozzo prima e dopo la strage, fu rilevata la differenza di una trentina di metri. lo spazio volumetrico - indicato sulla stele al sacrano di basovizza in 300 metri cubi - conterebbe le salme degli infoibati: oltre duemila vittime! una cifra agghiacciante.
ELENCO DELLE FOIBE NOTE
-Foiba di Basovizza
Occorre precisare che questa tristemente famosa voragine non è una foiba naturale, ma il pozzo di una miniera scavato all'inizio del secolo fino alla profondità di 256 metri, nella speranza di trovarvi il carbone. La speranza andò delusa e l'impresa venne abbandonata. Nessuno allora si curò di coprire l'imboccatura e così, nel 1945, il pozzo si trasformò in una grande, orrida tomba.
Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia durante l'invasione, dossier presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di Parigi nel 1941, descrive la tremenda via-crucis delle vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco. Lassù arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate.
-Foiba di Podubbo
Non è stato possibile, per difficoltà, il recupero. "Il Piccolo" del 5/12/1945 riferisce che coloro che si sono calati nella profondità di 190 metri, hanno individuato cinque corpi (tra cui quello di una donna completamente nuda) non identificabili a causa della decomposizione.
-Abisso di Semich
Un'ispezione del 1944 accertò che i partigiani di Tito, nel settembre precedente, avevano precipitato nell'abisso di Semich (presso Lanischie), profondo 190 metri, un centinaio di sventurati: soldati italiani e civili, uomini e donne, quasi tutti prima seviziati e ancor vivi. Impossibile sapere il numero di quelli che furono gettati a guerra finita, durante l'orrendo 1945 e dopo. Questa è stata una delle tante foibe carsiche trovate adatte, con approvazione dei superiori, dai cosiddetti tribunali popolari, per consumare varie nefandezze. La foiba ingoiò indistintamente chiunque avesse sentimenti italiani, avesse sostenuto cariche o fosse semplicemente oggetto di sospetti e di rancori. Per giorni e giorni la gente aveva sentito urla strazianti provenire dall'abisso, le grida dei rimasti in vita, sia perché trattenuti dagli spuntoni di roccia, sia perché resi folli dalla disperazione. Prolungava l'atroce agonia con sollievo, l'acqua stillante. Il prato conservò per mesi le impronte degli autocarri arrivati qua, grevi del loro carico umano, imbarcato senza ritorno..." (Testimonianza di Mons. Parentin - da "La Voce Giuliana" del 16/12/1980).
-Foiba di Villa Orizi
Nel mese di maggio del 1945, gli abitanti del circondario videro lunghe file di prigionieri, alcuni dei quali recitavano il Padre Nostro, scortati da partigiani armati di mitra, essere condotte verso la voragine. Le testimonianze sono concordi nell'indicare in circa duecento i prigionieri eliminati.
-Foiba di Brestovizza
Così narra la vicenda di una infoibata il "Giornale di Trieste" in data 14/08/1947: "...gli assassini l'avevano brutalmente malmenata, spezzandole le braccia prima di scaraventarla viva nella foiba. Per tre giorni, dicono i contadini, si sono sentite le urla della misera che giaceva ferita, in preda al terrore, sul fondo della grotta..".
-Foiba di Gargaro o Podgomila (Gorizia)
A due chilometri a nord-ovest di Gargaro, ad una curva sulla strada vi è la scorciatoia per la frazione di Bjstej. A una trentina di metri sulla destra della scorciatoia vi è una foiba. Vi furono gettate circa ottanta persone.
-Foiba di Vines
Recuperate dal Maresciallo Harzarich dal 16/10/1943 al 25/10/1943 ottantaquattro salme di cui cinquantuno riconosciute. In questa foiba, sul cui fondo scorre dell'acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, furono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano nell'interno. Unico superstite, Giovanni Radeticchio, ha raccontato il fatto.
-Capodistria -Le Foibe-
Dichiarazioni rese da Leander Cunja, responsabile della Commissione di indagine sulle foibe del capodistriano, nominata dal Consiglio esecutivo dell’Assemblea comunale di Capodistria:
“… Nel capodistriano vi sono centosedici cavità, delle ottantuno cavità con entrata verticale abbiamo verificato che diciannove contenevano resti umani. Da dieci cavità sono stati tratti cinquantacinque corpi umani che sono stati inviati all’Istituto di medicina legale di Lubiana. Nella zona si dice che sono finiti in foiba, provenienti dalla zona di S. Servolo, circa centoventi persone di etnia italiana e slovena, tra cui il parroco di S. Servola, Placido Sansi. I civili infoibati provenivano dalla terra di S. Dorligo della Valle.
I capodistriani, infatti, venivano condotti, per essere deportati ed uccisi, nell’interno, verso Pinguente. Le foibe del capodistriano sono state usate nel dopoguerra come discariche di varie industrie, tra le quali un salumificio della zona ..”
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Salvatore Mangiacotti
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