lunedì 10 marzo 2008

...con le armi della cultura...


La decadenza di una nazione si riflette anche nella sua letteratura. Il romanzo italiano, tranne le solite poche, doverose eccezioni, è noioso, asfittico, ripetitivo. Pratica il narcisismo, naviga nel qualunquismo, rimastica il vittimismo, sonnecchia nell'intimismo. Al fondo c'è sempre un io meschino e provinciale, sentimental-ideologico, e pianti, e tremori per un amore andato a male, per una causa politica rivelatasi fallimentare, per le ingiustizie della società... Non va da nessuna parte la nostra narrativa, continua a rimirarsi, a gemere, a compiangersi... Se si butta sul sesso fa della bassa macelleria, se riscopre l'impegno sbraca nella retorica, se pratica il disimpegno imbocca decisa la strada della banalità. Nei loro libri i nostri romanzieri viaggiano poco, e anche quelli che viaggiano molto in realtà non si muovono mai di casa. Che vadano in Centroamerica o in Cocincina, dietro c'è sempre l'Italia cinematografica dei Salvatores e dei Pieraccioni, l'eterno tanfo cittadino e campagnolo, gli eterni sfigati delusi che fuggono dal niente che erano per ritrovarsi nel niente che sono, le litanie dei tradimenti, dei rimpianti e dei rimorsi, le vecchie zie e i nuovi pederasti, le zingarate da liceali mai cresciuti, da precari della vita e del benessere... Nella vita di tutti i giorni, probabilmente viaggiano quanto l'italiano medio, tanto. Ma non vedono nulla e niente resta loro in mano. Perché viaggiano con l'occhio puntato a Merate o a Signalunga, raffrontando ciò che vedono con il metro locale di ciò che hanno lasciato, ingurgitano chilometri ma sono sempre nel cortile di casa, nell'androne, sulle scale... in attesa di rimettersi le pantofole del pensiero, di crogiolarsi nell'universo pensionistico delle loro certezze. Gli manca la dimensione della sfida e del sogno, gli fa paura l'ignoto, detestano l'avventura per quel coté “fascista” che anni di pensiero minimo gli hanno insegnato si porta con sé. Un Paese mediocre, senza ambizioni, senza volontà di grandezza, senza aspirazioni che vadano oltre la macchina nuova e il videoregistratore si rispecchia in una narrativa mediocre, dove gli orizzonti sono limitati, i protagonisti sono da operetta, le trame inesistenti o consunte, lo stile frusto, e solo l'ambizione, di carriera, di apparire, di monetizzare, è smisurata. La democristianeria applicata al romanzo... E poi ci si lamenta perché gli italiani leggono poco. Qualche anno fa chiesero a J.M.G. Le Clézio, scrittore francese poco noto in Italia ma che la nostra editoria, se volesse far bene il suo mestiere, dovrebbe tenere di conto, cosa fosse per lui scrivere. “Scrivere è AGIRE”, fu la risposta, con quel secondo verbo tutto in lettere maiuscole. Cosa sia l'azione per Le Clézio è ben spiegato nei suoi due ultimi libri, Gens des nuages (Stock editore) e La fête chantée (Gallimard). Innanzitutto è uscire dalla rotta ben oleata della modernità, con il suo pensiero unico, con l'idea che il modello di sviluppo occidentale sia il solo metro di giudizio per tutte le culture, e che il progresso, tecnico, scientifico, sociale sia una divinità a sé stante cui vada sacrificata ogni idea di diversità, di moderazione, di equilibrio. Quella di Le Clézio è una concezione sferica, non lineare, dell'esistenza: “La vita è tonda”, non c'è un inizio e una fine, una progressione continua... Si parte e si ritorna, siamo impastati del nostro ieri che sarà anche il nostro domani, e capire ciò che si è stati ci permette di affrontare con cognizione di causa ciò che siamo e che saremo. Come dice un antico verso arabo, “Questo mondo è una montagna. Le nostre azioni sono un grido il cui verso sempre ci ritorna addosso”. Viaggiare, così, non è necessariamente una fuga da qualcosa: “Non sono un disertore. Al contrario è sentire che qualcosa ti attrae. Io non fuggo la Francia, mi sento aspirato verso il Messico”. Fra la terra d'origine e quella d'elezione, Le Clézio divide più o meno equamente il suo tempo e La fête chantée è un atto di omaggio a quest'ultima, alla polvere di stelle che è rimasta delle grandi civiltà che la nutrirono, un mondo “che non era fondato sulla ragione, animato da questa danza, questo slancio verso la magia, il soprannaturale; basato su una percezione differente, più primitiva”. Nei suoi romanzi come nei suoi saggi, ciò che affascina Le Clézio sono i grandi spazi, le distese, il legame con la natura e con la storia, l'idea di un'identità, di una tradizione comuni pur nelle diversità delle esperienze umane. E' un antimoderno non perché sogna impossibili ritorni al passato, ma perché non condivide l'ansia da possesso, la frenesia dei ritmi e dei rapporti, lo sradicamento e l'esistenza da formicaio che il mondo moderno porta con sé. Gens des nuages è il viaggio fantastico ma reale che in compagnia di Jemia, la moglie marocchina della stirpe degli Aroussiyne, compie sulle tracce del passato di lei, “immagine sconosciuta di lei stessa”. “Volevamo sentir risuonare i nomi che sua madre le aveva insegnato, come un'antica leggenda, e che ora prendevano un senso diverso, un senso vivo: le donne blu, l'assemblea del venerdì, che aveva battezzato Jemia; la tribù chorfa (discendenti del Profeta); gli Ahel Jmal, il popolo del cammello; gli Ahel Mouzna, le genti delle nuvole, alla ricerca della pioggia”. E' un viaggio a rébours, all'indietro che però proietta chi lo fa in una dimensione senza tempo dove i piani si confondono, le tracce di ciò che è stato si legano al presente di quello che si è, servono a cementare cosa si sarà. E' un viaggio alla ricerca di un'armonia perduta, che non consiste in un rousseauismo vacuo e di maniera, un'età dell'oro, dell'amore e della bontà mai esistita, ma nella convinzione che la libertà dal bisogno va di pari passo con la libertà dal possesso, che i valori veri non si misurano con l'ottica del profitto, che esiste una dimensione del tempo più piena e più consona all'essere umano di quella che quest'ultimo ha poi finito per imporsi. Viaggiatore incantato dagli incanti del mondo, Le Clézio conferma nei suoi libri che la scrittura e l'azione vanno di pari passo nell'elaborazione di una Weltanschauung pluralista e non dogmatica, rispettosa delle diversità e dove l'uomo ritrova la sua libertà di essere e di creare.

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