Pubblichiamo il discorso che Alfredo Reichlin ha tenuto durante la commemorazione di Aldo Moro del gruppo Pd alla Camera dei Deputati. 28 febbraio 2008
Ricordiamo oggi Aldo Moro nel vivo di un passaggio cruciale della vicenda politica e della vita civile italiana. Dove sta andando il paese? L’animo è sospeso tra il timore di un tramonto e la speranza di un’alba nuova. Una cosa mi sembra certa. E’ in atto (quale che sia l’esito delle elezioni) una “rivoluzione politica”, un sommovimento profondo come da molti anni non avveniva, essendo venuta in discussione l’insieme della vecchia struttura politica. La comunità, priva com’è della vecchia rappresentanza, chiede una nuova guida. Questa è la posta in gioco. C’è nei dilemmi di oggi qualcosa che ricorda la crisi dell’altro fine secolo. E’ la tesi che, fin dagli anni ’80, sosteneva Beniamino Andreatta. La svolta del 1901. Da un lato le cannonate di Bava Beccaris spingevano all’indietro l’Italietta, verso quello che si chiamò il “ritorno allo Statuto” e tutto questo in un quadro fosco con Milano che (anche allora) minacciava di separarsi dal Mezzogiorno. Ma dall’altro lato prevalse la svolta giolittiana che rilanciava la democrazia parlamentare, includendo in essa il mondo socialista e del lavoro. In pochi anni l’Italia fece un balzo nella modernità, creò una grande industria, ci fu il riconoscimento dei sindacati e delle otto ore, la fine del “non expedit” e il ritorno dei cattolici alla vita politica. Il primo suffragio universale maschile. Io non so quale sarà l’esito del dilemma di oggi. Spero che a prevalere saranno le forze democratiche. E’ alla luce di questo passaggio che chiama all’appello le risorse profonde, anche intellettuali, del paese che noi sentiamo l’attualità di Aldo Moro, la mancanza di uomini come lui, la nostalgia di una concezione della politica che non parte da sé, dai disegni personali di potere ma da una più alta coscienza storica. Dal compito –si potrebbe dire- che la storia ci assegna qui e ora, nell’assolvere il quale sta la grandezza e la moralità della politica. Così penso a Moro e al significato del suo assillo tenace, ininterrotto su come dare una risposta al problema di fondo, tuttora irrisolto, della storia italiana: la democrazia difficile. E’ questa l’espressione che ritorna continuamente nelle sue parole. Ed è su questo che vorrei ragionare. Perché è da qui che parte tutto il suo sforzo di allargare le basi della democrazia italiana e dare un nuovo fondamento popolare allo Stato. Fu il suo grande tema, ed è impressionante come questo tema continui ancora oggi ad essere attuale. Certo, nessun fascismo è alle porte. Non torneranno le camice nere. Il rischio è un altro. E’ di passare dal governo della politica, intesa come sovranità del cittadino al governo delle cosiddette “consorterie”. Cosa, del resto, non nuova nella storia italiana. Ieri era il partito di Corte, i grandi notabili, la massoneria. Oggi può essere –se vince la destra- lo svuotamento del Parlamento e delle istituzioni democratiche.La facciata resta ma al di là di essa ritorna la grande domanda che la crisi italiana ripropone: chi comanda? chi governa i grandi poteri, più o meno opachi, in lotta tra loro? Ai tempi di Moro la crisi della democrazia rappresentativa non era arrivata a questo punto. Ma colpisce molto come affrontò la crisi del centrismo e il tipo di analisi che poi lo spinse a realizzare la svolta del centro-sinistra. Era chiara in lui l’idea che al tramonto inesorabile dell’Italia contadina non si poteva rispondere con una visione troppo astratta e formale della libertà politica né con il rifiuto di fornire nuovi strumenti di rappresentanza alle masse escluse. E’ la polemica perfino aspra che egli fece col suo partito. “Dovete capire bene –disse rivolto al gruppo dirigente- perché, “attenti come siamo (parla di lui) a ogni evoluzione democratica guardiamo con particolare attenzione là dove sono masse di popolo e di lavoratori, là dove sono ideali e aspirazioni che riguardano l’avvenire della società e la difesa della dignità umana”. Questa era per lui la politica. Capire e interpretare i “tempi nuovi”. Quale risposta dare (era questo il suo assillo) all’esplosione della protesta giovanile e, insieme, ai bisogni delle plebi povere che abbandonavano il Mezzogiorno e che pur di entrare nelle fabbriche si adattavano a vivere nei tuguri di città sconosciute e premevano quindi per avere nuovi diritti non solo politici ma sociali. E tutto questo mentre le lotte operaie facevano saltare una delle condizioni essenziali su cui si reggeva il compromesso tra la democrazia repubblicana e una classe padronale ristretta, meschina: da un lato l’immensa fatica del lavoro umano sottopagato e dall’altro un capitalismo senza capitali finanziato dalla banca pubblica. Saltava cioè quel fattore che era stato alla base della recente industrializzazione: il cosiddetto regime dei bassi salari. Io credo che dopo tanti anni bisognerebbe pur dire le cose come stanno e capire perché il centro-sinistra spaventò tanto i ceti privilegiati e perché la sua rapida eclisse apparve alla intelligenza di Moro non una conseguenza dell’eterna disputa tra PSI e PCI ma la conferma che la democrazia italiana quando si arriva al dunque di certe riforme, diventa difficile. Cominciò così la tormentata riflessione morotea sulla necessità di aprire una “terza fase” della vita italiana (dopo il centrismo e dopo il centro-sinistra). E quindi la sua attenzione verso la natura e l’evoluzione del comunismo italiano. Di che cosa si è trattato? Voglio essere breve e quindi –temo- sommario. Siamo chiari. Moro non era un “catto-comunista”. Era il capo della DC e aveva l’orgoglio di chi guida anche intellettualmente un grande partito che era al tempo stesso partito Stato e partito società. Per di più una forza che, si poneva come un avamposto di quella cortina di ferro che separava l’Italia da un mondo che era altro rispetto ai suoi valori: democratici e cristiani. Di questi valori io sono e continuerò a essere il vostro garante, disse Moro ai suoi parlamentari nel momento stesso in cui proponeva l’apertura al PCI. Parlo di quel discorso drammatico di 30 anni fa e che oggi ricordiamo. Moro era –lo disse egli stesso- un anticomunista. Ma –cito parole sue- il “nostro non è l’anticomunismo della destra, è un anticomunismo democratico”. E io vorrei dire perché ricordo questa categoria così poco frequentata (l’anticomunismo democratico). Perché essa segnò in realtà un vero discrimine, senza tener conto del quale non si capisce molto della storia della democrazia italiana. E’ troppo semplice ridurre questa storia alla scelta tra comunismo e democrazia. Quale democrazia? Già De Gasperi, resistendo a pressioni che furono potentissime,(dalla Chiesa al Dipartimento di Stato) tenne fermo che il PCI non dovesse essere combattuto con mezzi autoritari. Moro fondò tutta la sua riflessione sulla idea che la convivenza democratica poteva essere difesa solo con il concorso delle grandi forze popolari. Ma con ciò non pensava affatto che i governi di solidarietà nazionale significassero “passare la mano –sono parole sue- da uno schieramento all’altro né rinunciare al ruolo centrale della DC”. Ricordo queste cose perché non sarebbe serio né rispettoso da parte mia essere reticente o ambiguo su questo punto. E, poi, sarebbe ridicolo riscrivere la storia a soggetto, rappresentandola come un lungo antefatto del partito democratico. Non fu così. Ma allora è anche giusto che io dica un’altra cosa: che “cattocomunisti” non eravamo nemmeno noi, i capi del PCI. Venivamo da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era lo scientismo socialista alla Engels ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo. Il nostro pensiero era certamente classista ma soprattutto dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai. La nostra fede era l’uomo, il suo stare nella società e nel divenire del mondo. E in ciò stava la nostra alterità verso la Chiesa e, al tempo stesso, un certo disprezzo per l’anticlericalismo che consideravamo piccolo-borghese. Noi conoscevamo il peso dei cattolici nella storia d’Italia ma, anche –voglio aggiungere- le speranze che il cattolicesimo democratico aveva suscitato nell’altro dopoguerra e poteva tornare a suscitare. Fu Palmiro Togliatti che mi spiegò che non bisognava confondere la questione vaticana con la questione cattolica e che mi fece leggere quella famosa nota di Gramsci del 1919 in cui egli considerava la fondazione del partito popolare di don Sturzo come qualcosa che potenzialmente equivaleva, nella storia italiana, per importanza, all’avvio, finalmente, di una riforma religiosa (testuale). E ciò nel senso che il rapporto che i cattolici laici stabilivano con lo Stato, pur arrivando tardi rispetto alla Francia, avveniva però nella forma più avanzata e moderna di un partito politico di massa. Quindi non c’era più bisogno della mediazione politica del Vaticano. Finiva la tentazione neo-guelfa. Si spiega anche così –credo di poterlo dire- il fascino che Moro esercitava sul secondo piano di Botteghe Oscure. Non proponeva patteggiamenti. Era però acutamente consapevole che la crisi strisciante della democrazia italiana fosse arrivata al punto che il “destino non è più nelle nostre mani”. Il discorso era rivolto alla DC ma io credo che l’ammonimento non valesse solo per il suo partito. C’era in quella frase il timore che si stesse rompendo tutto l’equilibrio su cui si reggeva la Prima Repubblica e di cui la DC era l’architrave. Da un lato una democrazia di massa, basata sul consenso popolare ma che per le logiche della guerra fredda escludeva dal governo il PCI (ma fino a quando, -ecco la domanda- se raccoglieva un terzo dei voti?); dall’altro lato una economia mista largamente protetta dallo Stato ma che non reggeva più alle sfide dei grandi mercati che scavalcavano ormai i confini nazionali; e in più il fatto che la distensione entrava in crisi per il ritorno di fiamma del riarmo missilistico e della guerra fredda con tutte le conseguenze sulla sovranità di quel paese di confine che era l’Italia. E’ in nome di questa consapevolezza che Moro parlò ai suoi e sostenne che la DC era interessata a un incontro serio, non diplomatico con la realtà del comunismo italiano scommettendo sul fatto che il cammino di Berlinguer si era ormai diviso da quello dell’URSS. Era vero. Ma per andare dove? Questa è la domanda che egli si era posto già nel grande discorso di Benevento. Ma alla quale, in verità, -se vogliamo dire le cose come stanno-, nemmeno noi sapevamo rispondere. E infatti cominciò il suo declino. Berlinguer si poneva gli stessi interrogativi. Quali forze profonde, oscure, stavano tramando contro la democrazia italiana? Il Cile era una metafora. La realtà era il vuoto, l’assenza di una classe dirigente autonoma, consapevole della sua responsabilità nazionale. Il vero problema che stava alla base della proposta del compromesso storico era come reggere al rischio di una controffensiva di destra -quale del resto si profilava, dopo il ventennio Keinesiano e socialdemocratico, in tutto l’Occidente- la cosiddetta rivoluzione conservatrice. In sostanza ci domandavamo anche noi come si poteva dare una base più larga e più solida alla democrazia italiana. Io posso testimoniare che Berlinguer sentiva in modo perfino angoscioso che la Repubblica era a rischio. Chi la minacciava? L’anomalia del PCI? Certo, questo era un problema grosso. Ma, in realtà, la minaccia veniva da qualcosa di più profondo, cioè da qualcosa che in ultima istanza era la base storica stessa della Repubblica, la sua novità e la sua forza ma anche il suo “scandalo”. Parlo della ragione per cui la destra non ha mai sentito la Costituzione come propria. Quel documento infatti non fu scritta dalle forze realmente dominanti, quelle che stanno alla base della trama profonda e non contingente del potere. Fu scritta –ecco lo scandalo- dai capi delle masse escluse cioè da quelle forze popolari che erano state tenute fuori dalla costruzione della Nazione. Da un lato il mondo del lavoro, i famosi “sovversivi” animati dall’ideale socialista, e dall’altra il mondo popolare cattolico tenuto fuori dallo Stato anche per decisione della Chiesa che non aveva riconosciuto Porta Pia. Questo fu lo scandalo. Quella Costituzione è vero che garantiva a tutti (ricchi e poveri borghesi e proletari si sarebbe detto sull’Unità ai miei tempi) la libertà, la democrazia parlamentare e i diritti universali ma era stata scritta dai capi di quelle masse, i quali (peggio) venivano dall’esilio o uscivano dalle prigioni. La storia sappiamo come poi è finita. Su di essa è tuttora aperta una riflessione. Può essere discutibile come io l’ho evocata. Fu la storia di una illusione già fuori del tempo oppure quella di una grande occasione? A me importa soprattuto che sia chiaro il senso della drammaticità di quel passaggio. E’ li che si è misurata la grandezza di Moro, la sua statura di statista, il suo coraggio. E più passa il tempo più emerge la gravità e il senso di quel terribile delitto politico. Abbiamo osato troppo mi disse con l’aria smarrita uno dei suoi più stretti collaboratori. Può darsi. E può darsi che noi sbagliammo (mi ci metto anch’io: ero direttore dell’Unità), che cioè non fummo abbastanza realisti. Ma è stato realista la cultura politica di questi anni? Ed è realistico il disegno del partito democratico? Questa è oggi la domanda. Io credo che ogni cosa ci dice che aveva ragione Pietro Scoppola quando ci esortava, parlando delle ragioni del P.D. di portare a compimento quello che chiamava “il processo fondativo della democrazia italiana”. In sostanza, ciò che le vecchie classi dirigenti italiane, a differenza dei grandi paesi europei, non hanno mai voluto fare: accettare, cioè quel fondamentale “compromesso” democratico con il loro popolo che consiste nel riconoscere i suoi rappresentanti come governanti a pieno titolo. Senza di che ogni cambio di governo finisce in Italia col determinare una specie di crisi di regime. La guerra fredda, i caratteri specifici e gli errori del PCI hanno molto pesato ma non spiegano la singolarità della storia italiana: il fascismo (che viene prima del PCI) e il perché la borghesia italiana si affidò ad esso, nonché il fatto che anche dopo il crollo del comunismo e la fine del PCI il paese non è tornato ad essere normale. Vennero invece in piena luce le contraddizioni e le “incongruenze” della storia italiana. Riemerse, dal profondo della società, una destra senza storia di tipo non europeo, insieme con i vizi antichi di un popolo restio alla legalità, insofferente dello Stato e la debolezza, al tempo stesso, di uno Stato lontano dalla società. Di qui –dice Scoppola- l’esigenza del compimento del processo fondativo della democrazia italiana, compimento che solo in parte era avvenuto con la Resistenza e il patto repubblicano e costituzionale ma che subì un duro colpo con l’assassinio di Moro. Si tratta quindi, necessariamente, di chiamare ad essere protagonisti i soggetti popolari radicati nella storia del Paese in stretta collaborazione con altri filoni del riformismo italiano. E aggiungeva (cito): “Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana a un livello esclusivamente politologico; di non vederne le condizioni più profonde culturali ed etiche. Come se il passaggio al maggioritario e al bipolarismo garantisse di per sé il compimento di quello che ho chiamato (parla Scoppola) il processo fondativo della democrazia italiana”. Perciò Moro è attuale. E si capisce il perché del partito democratico. Esso, se vuole essere davvero un partito nuovo, e al tempo stesso avere un fondamento, deve riprendere questo processo incompiuto e portarlo avanti coerentemente. Non si tratta solo di culture riformiste da mettere insieme ma di pezzi di popolo che hanno perduto le vecchie identità e hanno bisogno di ritrovarsi in una identità comune, più ampia e più comprensiva. Questo è il nostro compito. E noi possiamo portarlo a buon fine. Ma se possiamo guardare avanti è perché alle nostre spalle c'è una storia la cui trama più profonda ci accomuna.
Ricordiamo oggi Aldo Moro nel vivo di un passaggio cruciale della vicenda politica e della vita civile italiana. Dove sta andando il paese? L’animo è sospeso tra il timore di un tramonto e la speranza di un’alba nuova. Una cosa mi sembra certa. E’ in atto (quale che sia l’esito delle elezioni) una “rivoluzione politica”, un sommovimento profondo come da molti anni non avveniva, essendo venuta in discussione l’insieme della vecchia struttura politica. La comunità, priva com’è della vecchia rappresentanza, chiede una nuova guida. Questa è la posta in gioco. C’è nei dilemmi di oggi qualcosa che ricorda la crisi dell’altro fine secolo. E’ la tesi che, fin dagli anni ’80, sosteneva Beniamino Andreatta. La svolta del 1901. Da un lato le cannonate di Bava Beccaris spingevano all’indietro l’Italietta, verso quello che si chiamò il “ritorno allo Statuto” e tutto questo in un quadro fosco con Milano che (anche allora) minacciava di separarsi dal Mezzogiorno. Ma dall’altro lato prevalse la svolta giolittiana che rilanciava la democrazia parlamentare, includendo in essa il mondo socialista e del lavoro. In pochi anni l’Italia fece un balzo nella modernità, creò una grande industria, ci fu il riconoscimento dei sindacati e delle otto ore, la fine del “non expedit” e il ritorno dei cattolici alla vita politica. Il primo suffragio universale maschile. Io non so quale sarà l’esito del dilemma di oggi. Spero che a prevalere saranno le forze democratiche. E’ alla luce di questo passaggio che chiama all’appello le risorse profonde, anche intellettuali, del paese che noi sentiamo l’attualità di Aldo Moro, la mancanza di uomini come lui, la nostalgia di una concezione della politica che non parte da sé, dai disegni personali di potere ma da una più alta coscienza storica. Dal compito –si potrebbe dire- che la storia ci assegna qui e ora, nell’assolvere il quale sta la grandezza e la moralità della politica. Così penso a Moro e al significato del suo assillo tenace, ininterrotto su come dare una risposta al problema di fondo, tuttora irrisolto, della storia italiana: la democrazia difficile. E’ questa l’espressione che ritorna continuamente nelle sue parole. Ed è su questo che vorrei ragionare. Perché è da qui che parte tutto il suo sforzo di allargare le basi della democrazia italiana e dare un nuovo fondamento popolare allo Stato. Fu il suo grande tema, ed è impressionante come questo tema continui ancora oggi ad essere attuale. Certo, nessun fascismo è alle porte. Non torneranno le camice nere. Il rischio è un altro. E’ di passare dal governo della politica, intesa come sovranità del cittadino al governo delle cosiddette “consorterie”. Cosa, del resto, non nuova nella storia italiana. Ieri era il partito di Corte, i grandi notabili, la massoneria. Oggi può essere –se vince la destra- lo svuotamento del Parlamento e delle istituzioni democratiche.La facciata resta ma al di là di essa ritorna la grande domanda che la crisi italiana ripropone: chi comanda? chi governa i grandi poteri, più o meno opachi, in lotta tra loro? Ai tempi di Moro la crisi della democrazia rappresentativa non era arrivata a questo punto. Ma colpisce molto come affrontò la crisi del centrismo e il tipo di analisi che poi lo spinse a realizzare la svolta del centro-sinistra. Era chiara in lui l’idea che al tramonto inesorabile dell’Italia contadina non si poteva rispondere con una visione troppo astratta e formale della libertà politica né con il rifiuto di fornire nuovi strumenti di rappresentanza alle masse escluse. E’ la polemica perfino aspra che egli fece col suo partito. “Dovete capire bene –disse rivolto al gruppo dirigente- perché, “attenti come siamo (parla di lui) a ogni evoluzione democratica guardiamo con particolare attenzione là dove sono masse di popolo e di lavoratori, là dove sono ideali e aspirazioni che riguardano l’avvenire della società e la difesa della dignità umana”. Questa era per lui la politica. Capire e interpretare i “tempi nuovi”. Quale risposta dare (era questo il suo assillo) all’esplosione della protesta giovanile e, insieme, ai bisogni delle plebi povere che abbandonavano il Mezzogiorno e che pur di entrare nelle fabbriche si adattavano a vivere nei tuguri di città sconosciute e premevano quindi per avere nuovi diritti non solo politici ma sociali. E tutto questo mentre le lotte operaie facevano saltare una delle condizioni essenziali su cui si reggeva il compromesso tra la democrazia repubblicana e una classe padronale ristretta, meschina: da un lato l’immensa fatica del lavoro umano sottopagato e dall’altro un capitalismo senza capitali finanziato dalla banca pubblica. Saltava cioè quel fattore che era stato alla base della recente industrializzazione: il cosiddetto regime dei bassi salari. Io credo che dopo tanti anni bisognerebbe pur dire le cose come stanno e capire perché il centro-sinistra spaventò tanto i ceti privilegiati e perché la sua rapida eclisse apparve alla intelligenza di Moro non una conseguenza dell’eterna disputa tra PSI e PCI ma la conferma che la democrazia italiana quando si arriva al dunque di certe riforme, diventa difficile. Cominciò così la tormentata riflessione morotea sulla necessità di aprire una “terza fase” della vita italiana (dopo il centrismo e dopo il centro-sinistra). E quindi la sua attenzione verso la natura e l’evoluzione del comunismo italiano. Di che cosa si è trattato? Voglio essere breve e quindi –temo- sommario. Siamo chiari. Moro non era un “catto-comunista”. Era il capo della DC e aveva l’orgoglio di chi guida anche intellettualmente un grande partito che era al tempo stesso partito Stato e partito società. Per di più una forza che, si poneva come un avamposto di quella cortina di ferro che separava l’Italia da un mondo che era altro rispetto ai suoi valori: democratici e cristiani. Di questi valori io sono e continuerò a essere il vostro garante, disse Moro ai suoi parlamentari nel momento stesso in cui proponeva l’apertura al PCI. Parlo di quel discorso drammatico di 30 anni fa e che oggi ricordiamo. Moro era –lo disse egli stesso- un anticomunista. Ma –cito parole sue- il “nostro non è l’anticomunismo della destra, è un anticomunismo democratico”. E io vorrei dire perché ricordo questa categoria così poco frequentata (l’anticomunismo democratico). Perché essa segnò in realtà un vero discrimine, senza tener conto del quale non si capisce molto della storia della democrazia italiana. E’ troppo semplice ridurre questa storia alla scelta tra comunismo e democrazia. Quale democrazia? Già De Gasperi, resistendo a pressioni che furono potentissime,(dalla Chiesa al Dipartimento di Stato) tenne fermo che il PCI non dovesse essere combattuto con mezzi autoritari. Moro fondò tutta la sua riflessione sulla idea che la convivenza democratica poteva essere difesa solo con il concorso delle grandi forze popolari. Ma con ciò non pensava affatto che i governi di solidarietà nazionale significassero “passare la mano –sono parole sue- da uno schieramento all’altro né rinunciare al ruolo centrale della DC”. Ricordo queste cose perché non sarebbe serio né rispettoso da parte mia essere reticente o ambiguo su questo punto. E, poi, sarebbe ridicolo riscrivere la storia a soggetto, rappresentandola come un lungo antefatto del partito democratico. Non fu così. Ma allora è anche giusto che io dica un’altra cosa: che “cattocomunisti” non eravamo nemmeno noi, i capi del PCI. Venivamo da un marxismo letto come storicismo assoluto. Il nostro referente non era lo scientismo socialista alla Engels ma Gramsci e la sua polemica con il positivismo. Il nostro pensiero era certamente classista ma soprattutto dominato dall’assillo di promuovere quella rivoluzione intellettuale e morale che l’Italia moderna non aveva conosciuto mai. La nostra fede era l’uomo, il suo stare nella società e nel divenire del mondo. E in ciò stava la nostra alterità verso la Chiesa e, al tempo stesso, un certo disprezzo per l’anticlericalismo che consideravamo piccolo-borghese. Noi conoscevamo il peso dei cattolici nella storia d’Italia ma, anche –voglio aggiungere- le speranze che il cattolicesimo democratico aveva suscitato nell’altro dopoguerra e poteva tornare a suscitare. Fu Palmiro Togliatti che mi spiegò che non bisognava confondere la questione vaticana con la questione cattolica e che mi fece leggere quella famosa nota di Gramsci del 1919 in cui egli considerava la fondazione del partito popolare di don Sturzo come qualcosa che potenzialmente equivaleva, nella storia italiana, per importanza, all’avvio, finalmente, di una riforma religiosa (testuale). E ciò nel senso che il rapporto che i cattolici laici stabilivano con lo Stato, pur arrivando tardi rispetto alla Francia, avveniva però nella forma più avanzata e moderna di un partito politico di massa. Quindi non c’era più bisogno della mediazione politica del Vaticano. Finiva la tentazione neo-guelfa. Si spiega anche così –credo di poterlo dire- il fascino che Moro esercitava sul secondo piano di Botteghe Oscure. Non proponeva patteggiamenti. Era però acutamente consapevole che la crisi strisciante della democrazia italiana fosse arrivata al punto che il “destino non è più nelle nostre mani”. Il discorso era rivolto alla DC ma io credo che l’ammonimento non valesse solo per il suo partito. C’era in quella frase il timore che si stesse rompendo tutto l’equilibrio su cui si reggeva la Prima Repubblica e di cui la DC era l’architrave. Da un lato una democrazia di massa, basata sul consenso popolare ma che per le logiche della guerra fredda escludeva dal governo il PCI (ma fino a quando, -ecco la domanda- se raccoglieva un terzo dei voti?); dall’altro lato una economia mista largamente protetta dallo Stato ma che non reggeva più alle sfide dei grandi mercati che scavalcavano ormai i confini nazionali; e in più il fatto che la distensione entrava in crisi per il ritorno di fiamma del riarmo missilistico e della guerra fredda con tutte le conseguenze sulla sovranità di quel paese di confine che era l’Italia. E’ in nome di questa consapevolezza che Moro parlò ai suoi e sostenne che la DC era interessata a un incontro serio, non diplomatico con la realtà del comunismo italiano scommettendo sul fatto che il cammino di Berlinguer si era ormai diviso da quello dell’URSS. Era vero. Ma per andare dove? Questa è la domanda che egli si era posto già nel grande discorso di Benevento. Ma alla quale, in verità, -se vogliamo dire le cose come stanno-, nemmeno noi sapevamo rispondere. E infatti cominciò il suo declino. Berlinguer si poneva gli stessi interrogativi. Quali forze profonde, oscure, stavano tramando contro la democrazia italiana? Il Cile era una metafora. La realtà era il vuoto, l’assenza di una classe dirigente autonoma, consapevole della sua responsabilità nazionale. Il vero problema che stava alla base della proposta del compromesso storico era come reggere al rischio di una controffensiva di destra -quale del resto si profilava, dopo il ventennio Keinesiano e socialdemocratico, in tutto l’Occidente- la cosiddetta rivoluzione conservatrice. In sostanza ci domandavamo anche noi come si poteva dare una base più larga e più solida alla democrazia italiana. Io posso testimoniare che Berlinguer sentiva in modo perfino angoscioso che la Repubblica era a rischio. Chi la minacciava? L’anomalia del PCI? Certo, questo era un problema grosso. Ma, in realtà, la minaccia veniva da qualcosa di più profondo, cioè da qualcosa che in ultima istanza era la base storica stessa della Repubblica, la sua novità e la sua forza ma anche il suo “scandalo”. Parlo della ragione per cui la destra non ha mai sentito la Costituzione come propria. Quel documento infatti non fu scritta dalle forze realmente dominanti, quelle che stanno alla base della trama profonda e non contingente del potere. Fu scritta –ecco lo scandalo- dai capi delle masse escluse cioè da quelle forze popolari che erano state tenute fuori dalla costruzione della Nazione. Da un lato il mondo del lavoro, i famosi “sovversivi” animati dall’ideale socialista, e dall’altra il mondo popolare cattolico tenuto fuori dallo Stato anche per decisione della Chiesa che non aveva riconosciuto Porta Pia. Questo fu lo scandalo. Quella Costituzione è vero che garantiva a tutti (ricchi e poveri borghesi e proletari si sarebbe detto sull’Unità ai miei tempi) la libertà, la democrazia parlamentare e i diritti universali ma era stata scritta dai capi di quelle masse, i quali (peggio) venivano dall’esilio o uscivano dalle prigioni. La storia sappiamo come poi è finita. Su di essa è tuttora aperta una riflessione. Può essere discutibile come io l’ho evocata. Fu la storia di una illusione già fuori del tempo oppure quella di una grande occasione? A me importa soprattuto che sia chiaro il senso della drammaticità di quel passaggio. E’ li che si è misurata la grandezza di Moro, la sua statura di statista, il suo coraggio. E più passa il tempo più emerge la gravità e il senso di quel terribile delitto politico. Abbiamo osato troppo mi disse con l’aria smarrita uno dei suoi più stretti collaboratori. Può darsi. E può darsi che noi sbagliammo (mi ci metto anch’io: ero direttore dell’Unità), che cioè non fummo abbastanza realisti. Ma è stato realista la cultura politica di questi anni? Ed è realistico il disegno del partito democratico? Questa è oggi la domanda. Io credo che ogni cosa ci dice che aveva ragione Pietro Scoppola quando ci esortava, parlando delle ragioni del P.D. di portare a compimento quello che chiamava “il processo fondativo della democrazia italiana”. In sostanza, ciò che le vecchie classi dirigenti italiane, a differenza dei grandi paesi europei, non hanno mai voluto fare: accettare, cioè quel fondamentale “compromesso” democratico con il loro popolo che consiste nel riconoscere i suoi rappresentanti come governanti a pieno titolo. Senza di che ogni cambio di governo finisce in Italia col determinare una specie di crisi di regime. La guerra fredda, i caratteri specifici e gli errori del PCI hanno molto pesato ma non spiegano la singolarità della storia italiana: il fascismo (che viene prima del PCI) e il perché la borghesia italiana si affidò ad esso, nonché il fatto che anche dopo il crollo del comunismo e la fine del PCI il paese non è tornato ad essere normale. Vennero invece in piena luce le contraddizioni e le “incongruenze” della storia italiana. Riemerse, dal profondo della società, una destra senza storia di tipo non europeo, insieme con i vizi antichi di un popolo restio alla legalità, insofferente dello Stato e la debolezza, al tempo stesso, di uno Stato lontano dalla società. Di qui –dice Scoppola- l’esigenza del compimento del processo fondativo della democrazia italiana, compimento che solo in parte era avvenuto con la Resistenza e il patto repubblicano e costituzionale ma che subì un duro colpo con l’assassinio di Moro. Si tratta quindi, necessariamente, di chiamare ad essere protagonisti i soggetti popolari radicati nella storia del Paese in stretta collaborazione con altri filoni del riformismo italiano. E aggiungeva (cito): “Abbiamo un po’ tutti commesso l’errore di immaginare la transizione italiana a un livello esclusivamente politologico; di non vederne le condizioni più profonde culturali ed etiche. Come se il passaggio al maggioritario e al bipolarismo garantisse di per sé il compimento di quello che ho chiamato (parla Scoppola) il processo fondativo della democrazia italiana”. Perciò Moro è attuale. E si capisce il perché del partito democratico. Esso, se vuole essere davvero un partito nuovo, e al tempo stesso avere un fondamento, deve riprendere questo processo incompiuto e portarlo avanti coerentemente. Non si tratta solo di culture riformiste da mettere insieme ma di pezzi di popolo che hanno perduto le vecchie identità e hanno bisogno di ritrovarsi in una identità comune, più ampia e più comprensiva. Questo è il nostro compito. E noi possiamo portarlo a buon fine. Ma se possiamo guardare avanti è perché alle nostre spalle c'è una storia la cui trama più profonda ci accomuna.
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