lunedì 31 marzo 2008

La crisi del superamento della metà della vita.

di Luciano Manicardi
Forma specifica della "crisi" che investe l'uomo nella sua esistenza è quella connessa all'età di mezzo e chiamata midlife-crisis, più comunemente "crisi dei quarant'anni". Si tratta di una crisi di tipo depressivo di cui si può trovare una poetica evocazione nelle battute iniziali della Divina Commedia che Dante scrisse a trentasette anni: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita. Ahi quanto a dir qual era è cosa dura, esta selva selvaggia ed aspra e forte, che nel pensier rinnova la paura! Tanto è amara, che poco più è morte».
Quale che sia l'interpretazione di" questo incipit del capolavoro dantesco, certo qui vediamo una ri­uscita descrizione della crisi emo­zionale della mezz'età, caratteriz­zata dall'incontro con la morte.
Osservando la vita di molti arti­sti (poeti, musicisti, scrittori...) si può notare come l'età fra i 35 e i 40 anni sia critica: a volte interviene la morte (Mozart, Raffaello, Chopin, Rimbaud...), oppure si no­ta un inaridimento dalla vena creativa (Rossini, attivissimo fino ai 40 anni, da allora fino alla mor­te, avvenuta a 74 anni, si chiude in un sostanziale silenzio) o un suo emergere potente (Gauguin lascia il lavoro in banca a 33 anni e a 39 è già felicemente inserito nella sua carriera pittorica) o un cam­biamento del modo di lavorare o dello stile (Donatello, Goethe...). Ma questa crisi riguarda ogni uomo.
Senza poter fissare l'anno in cui cade la crisi, che ha ovviamente un innesto biografico particolare per ogni persona e che è connessa an­che a condizioni sociali e culturali (lavoro, famiglia...), tuttavia la fase tra i 35 e i 45 anni rappresenta un passaggio dalla giovinezza alla ma­turità che comporta un sovverti­mento dei valori precedenti, è il la­sciarsi alle spalle lo zenit della vita, il mezzogiorno dell' esistenza, per iniziare la seconda curva, discen­dente, della parabola della vita.
Subentrano, in questa fase, cambiamenti fisico-biologici e nasce un diverso senso del tempo (si comincia a "contare" non tanto il tempo passato, ma quanto resta da vivere). Per la. donna l'approssimarsi alla menopausa e il fatto che i figli possano ormai essere adulti o comunque usciti da casa, provoca un mutamento radicale.
Questa fase dell' esistenza che, in parallelo con l'adolescenza, alcuni chiamano "maturescenza", è momento di bilanci, spesso in ros­so, circa la propria vita lavorativa e affettiva, relazionale e sociale famigliare e spirituale. È fase in cui più facilmente avvengono abbandoni dal Ministero presbitera­le o dalla vita religiosa e monastica, in cui più di frequente si fran­tumano matrimoni...
«Cala la vista, si aumenta di peso, la sessualità crea qualche pro­blema. È il tempo del cambiamento o della perdita del posto di lavoro, della rottura con il proprio entou­rage, dei traslochi, della ricerca di ambienti nuovi, dei progetti per buttarsi negli affari o per creare un'impresa in proprio, dei viaggi, della malattia, delle depressioni nervose, dei divorzi. Le pratiche ed i principi religiosi, dell'infanzia vengono abbandonati a favore di altri percorsi: New Age, sette, cir­coli di crescita personale più o meno liberanti…» (Jacques Gauthier).
L'uomo valuta le speranze rea­lizzate e le aspettative andate de­luse, Si rende conto che di fronte ha un futuro limitato, che molte porte sono ormai irrimediabilmente chiuse, e allora è chiamato ad accettare di non poter realizza­re progetti e ideali, ad accettare la parzialità e la limitatezza. del proprio essere. In questo periodo dell'esistenza, in cui ormai la prima fase della vita adulta è stata supe­rata, si ha un lavoro, una famiglia, si è preti o religiosi: compito psi­cologico di questa fase dell' età è il conseguimento dello stato piena­mente maturo, ma, mentre si en­tra nella pienezza, si entra anche nella crisi. La morte entra nella nostra vita, e non solo più attra­verso la morte degli altri, ma come prospettiva personale, nostra.
Un paziente di 36 anni, depres­so, in analisi dallo psicanalista El­liot Jaques dice: «Finora la vita mi è parsa un' ascesa senza fine, con nulla, se non il lontano orizzonte in vista. Ora, improvvisamente, mi sembra di aver raggiunto la ci­ma della collina, e là davanti a me si snoda la discesa con la fine in vista, ancora lontana, è vero, ma dove la morte è chiaramente di­stinguibile presente alla meta». Scrive Jung: «Nella seconda metà dell' esistenza rimane vivo solo chi, con la vita, vuole morire. Per­ché ciò che accade nell' ora segreta del mezzogiorno della vita è l'inversione della parabola, è la nasci­ta della morte».
Carlo Carretto (nelle sue Lette­re dal deserto) ha saputo esprime­re con efficacia la valenza spiri­tuale di questa crisi: «A metà del nostro cammino non sappiamo se andare avanti o indietro; meglio...sentiamo di andare indietro. Solo, a1lora incomincia la vera battaglia e le cose si fanno serie. Si fanno serie perché si fanno vere. Inco­minciamo a scoprire ciò che valia­mo: nulla o poco più. Credevamo di essere generosi e ci scopriamo egoisti. Pensavamo di saper prega­re e ci accorgiamo che non sappiamo più dire "Padre". Ci eravamo convinti di essere umili, servizievoli, ubbidienti e constatiamo che l'orgoglio ha invaso tutto il nostro essere. È l’ora della resa dei conti; e questi sono molto magri... Nor­malmente ciò capita sui 40 anni: grande data Iiturgica della vita, data biblica, data del demonio me­ridiano, data della seconda giovi­nezza, data seria dell'uomo: "Per quarant' anni fui disgustato con questa generazione e dissi: Sempre costoro sono traviati di cuore"
(Sal 95, 10). È,la data in cui Dio ha deciso di mettere con le spalle al muro l’uomo che gli è sfuggito fi­no ad ora dietro la cortina fumo­gena del "mezzo sì e mezzo no”. Coi rovesci, la noia, il buio, e più sovente ancora, e più profonda­mente ancora, la visione o l’espe­rienza del peccato. L'uomo scopre ciò che è: una povera cosa, un es­sere fragile, debole, un insieme d'orgoglio e di meschinità, un in­costante, un pigro, un illogico».
Molte illusioni e idealizzazioni di sé devono ormai cadere: molti progetti non sono più realistici: occorre uscire radicalmente dalle fantasie di onnipotenza. Di fronte a queste difficoltà l'uomo rischia di difendersi con diverse reazioni: la svalutazione (la perdita di pote­re, forza, bellezza, seduzione, im­portanza di fronte ai più giovani che incalzano e crescono, conduce a svalutare sé e il proprio lavoro), l’arroccamento al potere (vittime dell'invidia per i più giovani, ci si attacca al potere, si diviene autoritari, intolleranti) la depressione (i bilanci, i paragoni con gli altri, le nostalgie per ciò che poteva essere o non essere e non sarà mai più, conducono a reazioni depressive), l’intontimento (“a quarant’anni la stupidità ci attende al varco”: Jacques Gauthier; si danno i casi delle per­sone inebetite e frustrate dall'in­successo), l'alcolismo (si fa più forte in certuni il desiderio di autoannullamento perseguito con alcol o droghe)...
Spesso ci si aliena nell’ esteriorità, mentre ci viene richiesto di abitare l'interiorità, «Ciò che, il giovane ha trovato e doveva trova­re al di fuori, l'uomo maturo lo deve trovare dentro di sé» (C.G.Jung). Il religioso che vive questa crisi può reagirvi rifugiandosi nel ritualismo, nelle forme esteriori, nel rubricismo, in una visione religiosa legalistica e giuridica, pur di evitare il doloroso confronto con l’enigma che lo abita, con l’ombra che è in lui e che, secondo Jung, è “ciò che uno non vorrebbe essere”.
L'instabilità, il sognare un’altra forma di vita (in un altro monastero, in un nuovo matrimonio), tutto andrebbe meglio, è un'altra: forma di fuga dal lavoro che la crisi, se accolta, potrebbe fare sul cuore dell'uomo. Fuga, di­fesa, rimozione: sono i principali motori di reazioni che impedisco­no a questa crisi di avere un esito positivo. Ma appunto, che fare di fronte a questa crisi che è, in ra­dice, crisi di senso?
Si tratta essenzialmente di accet­tare realisticamente il trascorrere del tempo, i propri limiti, la respon­sabilità della propria vita, passata.
Per il credente tutto questo avviene al cospetto di Dio e nella fede del suo amore manifestato in Gesù Cristo. In particolare, siamo di fronte a una crisi del desiderio (quello che ha a che fare con il senso stesso della vita e con la verità intima dell’uomo) profondo della persona che domanda un itinerario in cui innanzitutto riconoscere la propria insoddisfazione, quindi ascoltare le domande che salgono dal proprio cuore, ascolto che dischiude la possibilità di dare un senso rinnovato alla propria vita.
Questo richiede che si passi dalla superficie alla profondità, dall’esteriorità all’interiorità: se si perde in estensione, si può guadagnare in profondità.
Dare il nome alle proprie paure e integrare la parte non amata di sé, entrare in contatto con la propria sofferenza profonda, unificare parte femminile e maschile presenti in sé, consente di sviluppare una più profonda e unitaria capacità di amore e compassione. E di uscire da questa crisi con un rinnovamento fecondo dell’esistenza e della fede.
In profondità, infatti, nella crisi è la Spirito stesso di Dio che opera sul cuore dell’uomo per condurlo a sempre maggiore verità e autenticità, per condurlo a scoprire la presenza di Dio nel più profondo dell’essere. Una presenza più radicata di ogni paura e angoscia.

domenica 30 marzo 2008

Il Mezzogiorno tra dominio criminale e progetto di liberazione.

di Umberto Santino
Premessa
Premetto che la mia conoscenza di don Milani è molto limitata. Ho letto a suo tempo La lettera a una professoressa e il libro con le lettere edito da Mondadori; il ricordo più vivo che ho della sua opera è legato alla campagna per l'obiezione di coscienza che gli valse il processo penale. Per quei tempi un atto rivoluzionario e scandaloso che ha contribuito a farne un personaggio dirompente in un paesaggio in cui gli atti di ribellione non erano isolati ma neppure consueti. La relazione che mi è stata chiesta è un po' troppo ampia, quasi smisurata se si tiene conto dell'abbondanza della letteratura che si è andata accumulando sull'argomento. Qui mi limiterò ad alcune riflessioni su alcuni temi che ritengo fondamentali, soprattutto per stimolare un dibattito. Mi soffermerò sui seguenti punti: comincerò con un breve promemoria sulla questione meridionale, seguiranno alcune osservazioni sulle recenti riflessioni sul cosiddetto "pensiero meridiano", quindi traccerò un quadro dei fenomeni di criminalità organizzata e concluderò con alcune indicazioni per un possibile progetto alternativo ricavate da esperienze recenti.
Dalla "questione meridionale" alla "liberazione dal meridionalismo"
Com'è noto la nascita di una questione meridionale si fa rimontare alla formazione dello Stato unitario. Nel contesto nazionale il Mezzogiorno viene rappresentato come altro dal resto d'Italia: se il Nord è europeo il Sud è greco e mediterraneo, se il Nord è sabaudo il Sud è borbonico, se il Nord è urbanizzato e industriale il Sud è contadino... L'immaginario collettivo che si forma nei primi decenni di Stato unitario è dominato dalle immagini che arrivavano dal Sud dove era in atto la guerra contro il brigantaggio: briganti e brigantesse posavano per i fotografi che decidevano pose e abbigliamenti in modo da farli passare per dei primitivi assetati di sangue. E Lombroso avrebbe dimostrato che dalla misurazione dei crani dei briganti meridionali risultava una predisposizione al delitto che marcava una diversità di razza. Si sarebbe così formata e affermata l'immagine del Sud "inferno terrestre" o "paradiso naturale abitato da diavoli". Un marchio di natura antropologica. Benedetto Croce, in una conferenza alla Società napoletana di Storia patria, del giugno del 1923, ripercorreva il cammino dell'espressione secondo cui il meridione è un "paradiso abitato da diavoli", forse d'origine trecentesca e più recentemente usata da uno studioso tedesco, Andrea Bühel, in una conferenza all'università di Altdorf dell'11 novembre 1707. E nel cercarne le motivazioni indicava l'anarchia feudale del regno di Napoli, le carenze della vita civile e politica come connotazioni negative rispetto all'Italia centrale e settentrionale 1. Da allora l'inferno meridionale ha fatto strada, fino ad arrivare ai nostri giorni 2. Più che di un'idea nata da un'analisi, si tratta di una rappresentazione (ma la ricerca di Croce di elementi su cui essa si è fondata non era infruttuosa) e non per caso negli ultimi anni si è parlato di decostruire la questione meridionale, cioè di svelarne la sua natura di costruzione ideologica tendente a rappresentare il Sud come un coacervo di negatività. Il Mezzogiorno è stato, di volta in volta, arretrato strutturalmente, semifeudale e privo di una borghesia moderna e di uno spirito d'impresa, amoralmente familista, individualista, clientelare, mafioso e criminale 3. Non sono mancate rappresentazioni diverse. Si portano gli esempi di Gramsci e Dorso che riportavano i problemi del Meridione al quadro complessivo dei rapporti di dominio e di classe, alla vicenda risorgimentale vista come conquista regia, o di Sturzo che ne dava una valutazione positiva come depositario di valori familiari, culturali e religiosi in antitesi al socialismo internazionalista. Ma l'idea più diffusa e radicata è rimasta quella dell'inferno meridionale o comunque dell'altro rispetto al resto del Paese. Gli studi più recenti hanno cercato di "liberare il Sud dal meridionalismo", facendo emergere al posto di un Sud omogeneo un Sud a macchia di leopardo, cioè una realtà differenziata al suo interno. Questi studi si sono sviluppati in un contesto in cui la chiusura della Cassa per il Mezzogiorno (1950-1992) determinava la fine dell'intervento straordinario, che aveva visto il succedersi di fasi diverse (dalle politiche miranti alla costruzione di infrastrutture a quelle sulla creazione dei "poli di sviluppo", alla programmazione e ai "progetti speciali") e si era concretato in un enorme impiego di risorse che aveva cementato il dominio sul territorio del partito di maggioranza relativo, fondato sull'estensione e articolazione delle reti clientelari. Un cinquantennio di dominio democristiano che aveva avuto nel Sud uno dei pilastri portanti. Negli ultimi anni le spiegazioni che possono considerarsi paradigmatiche non sono molte. Si è parlato di "sviluppo senza autonomia" (Trigilia), di "Mezzo giorno e mezzo no" (la rivista "Meridiana"), di un Mezzogiorno afflitto da mancanza di civicness (un filo lungo che va da Banfield a Putnam) e rappresentabile come Gemeinshaft rurale contrapposta a una Gesellshaft urbana. Il sociologo Carlo Trigilia ha studiato gli "effetti perversi" delle politiche per il Mezzogiorno che hanno prodotto una realtà caratterizzata da un'eccessiva dipendenza dalla politica, dall'intervento pubblico, e ha considerato il meridionalismo come un'ideologia rivendicativa, fondata sul dato economico, con la sottovalutazione dei fattori socio-culturali e politici. Negli anni '90 ci sarebbe stata un'occasione storica, con la formazione di una nuova classe politica, grazie all'adozione del sistema elettorale maggioritario e all'elezione diretta dei presidenti regionali e dei sindaci. E si sarebbe profilata un'alternativa, attraverso lo sviluppo fondato sulle risorse locali, sulle business communities, sul ruolo della società civile, sul decentramento, sulla riqualificazione dei servizi pubblici, a cominciare dalla scuola 4. Resta da vedere quanto di queste potenzialità siano state spazzate via dall'ondata di berlusconismo che ha travolto anche le amministrazioni di sinistra più storiche e radicate. Il gruppo redazionale della rivista Meridiana ha evidenziato un Mezzo giorno ricco di dati positivi. Qualche esempio: nel Sud è localizzato il 60% dell'industria automobilistica nazionale, la concentrazione più elevata d'Europa (dovuta al basso costo del lavoro), e si sarebbe formato un tessuto produttivo in crescita e autonomo. L'altra faccia della medaglia è un Mezzo no, e l'esempio più significativo di questa negatività è dato dal tasso di disoccupazione elevato. Alcuni dati relativi al 1995: al Centro-Nord i disoccupati erano l'8,3%, nel Mezzogiorno il 21,7%. In testa era la Campania con il 26,2, seguivano la Calabria con il 23,6, la Sicilia con il 23,0, la Sardegna con il 22,2, la Basilicata con il 18,8, la Puglia con il 17,5, il Molise con il 17,2, l'Abruzzo con il 10,1. Per le città avevamo il 30 a Napoli, il 32,5 a Enna. Anche il tasso di attività della popolazione meridionale registrava uno scarto rispetto al resto del Paese: al Sud era il 35%, nel Centro-Nord il 43,1. Molti residenti nell'area meridionale non cercavano occupazione e quindi il tasso di disoccupazione reale nel Sud era ancora più elevato: 33%. Un terzo del lavoro era in nero 5. Una pesante ipoteca caratterizza la vicenda dell'industrializzazione della Sicilia e del Mezzogiorno. Dall'"industrializzazione senza sviluppo" dei poli chimici di Gela, di Augusta, di Milazzo, che hanno ridotto la Sicilia a pattumiera d'Europa e indotto malattie professionali e malformazioni alla nascita, al "modello Melfi", con la "fabbrica integrata" che richiede prestazioni logoranti e relazioni sociali alienanti 6. Da alcuni anni è in atto un processo di deindustrializzazione, il cui caso più noto è Bagnoli, e che minaccia di estendersi anche ad altri insediamenti come la Fiat di Termini Imerese, mentre il polo operaio più consistente di Palermo, il Cantiere navale, attraversa una crisi permanente. I dati pubblicati nel rapporto SVIMEZ del 2006, registrano, a fronte di un ristagno in tutta l'Italia, una recessione nel Mezzogiorno 7. L'occupazione tra il 1997 e il 2002 era cresciuta di 450 mila unità, ma negli ultimi anni è diminuita di 69 mila unità. I dati 2004-2005 sugli occupati sono i seguenti: in Campania -34,4, in Calabria -16,7, in Puglia -13, ci sono stati incrementi solo in Abruzzo e in Sicilia. In termini di crescita economica, essa è più accentuata nei Paesi dell'Unione europea, soprattutto in quelli entrati da poco (Europa a 25) che nelle regioni meridionali. I nuovi Paesi esercitano una forte pressione competitiva (sul costo del lavoro in particolare) e le politiche comunitarie dovranno tenere conto sempre di più delle aree sottosviluppate dei nuovi Paesi. La vecchia "questione meridionale" nelle sue componenti strutturali (disoccupazione, lavoro nero e precario, deficit di servizi) è già diventata la questione dei Sud del mondo all'interno dei processi di globalizzazione. Il rapporto ISTAT del maggio 2007 è venuto a confermare che il divario Nord-Sud permane e si aggrava: su vari terreni (occupazione, produttività, reddito) le situazioni migliori del Sud sono inferiori a quelle peggiori del Nord. Le famiglie lombarde hanno il reddito medio più alto (32 mila euro), quelle siciliane il più basso (21 mila euro); 7 su 10 dei 2,5 milioni di famiglie sotto la soglia di povertà sono nel Sud; la disoccupazione è all'11 % nel Nordest, al 34,3% nel Sud 8. Accanto alle ipotesi decostruttive di un immaginario sedimentato convivono visioni che rappresentano il Mezzogiorno come una riserva di modelli culturali datati ma ancora vitali. Penso in particolare a una linea analitica che dagli anni '50 arriva fino ai nostri giorni: è quella improntata al "familismo amorale" di Banfield, aggiornata nella versione di Putnam della "mancanza di senso civico" 9. Il Mezzogiorno sarebbe affetto da una sorta di malattia morale: non esisterebbe una morale pubblica, una cultura dell'associazionismo e della convivenza civile; comportamenti e mentalità sarebbero improntati al culto della famiglia, per di più ristretta, e al più gretto individualismo. La storia dei grandi movimenti di massa che hanno caratterizzato in particolare la Sicilia, totalmente ignorata da ricercatori dommaticamente fedeli al verbo americano, è una netta smentita di questi stereotipi che continuano a circolare non solo nelle elaborazioni degli studiosi ma pure nell'immaginario dei media 10. Dentro questa linea si collocano anche i riferimenti alle categorie di Tönnies che distingueva tra Gemeinshaft (comunità) e Gesellshaft (società), intendendo con la prima una forma di "vita reale e organica", e con la seconda una "formazione ideale e meccanica" 11. il Mezzogiorno sarebbe ancor'oggi abbarbicato a una sorta di stato di natura e sarebbe lontano dalle forme societarie evolute. Il "pensiero meridiano" Com'è noto il sociologo Franco Cassano ha proposto un rovesciamento dell'immaginario consueto che vuole il Sud come oggetto passivo e ha analizzato un Sud soggetto del pensiero 12. Bisogna uscire dalla dicotomia paradiso turistico e incubo mafioso, faccia legale e illegale della subalternità. Dobbiamo recuperare in positivo il Sud: la sua storia, la sua collocazione geografica, la sua cultura, i suoi modi di vivere e di essere, la lentezza ecc. Su questa falsariga si muove anche il filosofo Mario Alcaro che nel ricostruire l'identità meridionale, tramuta le tradizionali "piaghe del Sud" nelle sue virtù: la pratica del dono, il senso della famiglia, della parentela, del vicinato, della comunità sono considerati radice ed espressione di uno spirito civico, cultura e prassi della democrazia 13. Un ex leader della sinistra extraparlamentare degli anni '60 e '70, Franco Piperno, ha tessuto un "elogio dello spirito pubblico meridionale", partendo da una premessa: l'esodo semantico, cioè la fuga dai luoghi comuni. Il Sud vivrebbe una condizione analoga a quella dei paesi dell'Est dopo il crollo del socialismo. Viene portato l'esempio della produzione criminale intesa come "cooperazione lavorativa gestita e controllata attraverso l'uso della violenza" e si sostiene che la fase dell'accumulazione originaria, presente in tutte le società, nel Sud italiano viene penalizzata dalla legislazione nazionale in una misura sconosciuta negli altri Paesi in corsa verso il capitalismo, in cui il passaggio degli imprenditori criminali alla borghesia sarebbe avvenuto nell'arco di una generazione. Altrove non si è impedito il riciclaggio del denaro sporco, nel Mezzogiorno invece si pagherebbe il costo aggiuntivo di una borghesia allo stato nascente in perenne stato di illegalità. Una lettura frettolosamente ideologica che ignora che il passaggio dall'illegalità alla legalità è potuto avvenire in società come quella americana in cui il mercato legale offre notevoli convenienze e che la mafia siciliana e le altre mafie italiane hanno saputo inserirsi nel mercato capitalistico utilizzando le ingenti risorse dell'accumulazione criminale, ben oltre la fase dell'accumulazione originaria, fino all'attuale fase di globalizzazione del mercato e dei capitali. Le proposte si racchiudono in una sorta di manifesto del "potere alle città e della potenza ai cittadini" che dà per scontata e auspicabile la dissoluzione dello Stato nazionale 14. L'economista e organizzatore sociale Tonino Perna ha parlato di un Sud non schiacciato dalla dicotomia sviluppo-sottosviluppo, oltre la visione economicistica che vede lo sviluppo come crescita del prodotto interno lordo, ma aperto e plurale, ricco di valori storici e attuali, e di un "bisogno di Sud" vivo nel resto del Paese, mortificato da una religione del successo sempre più deludente 15. Questi approcci costituiscono uno dei tentativi più rilevanti di uscire dalle secche tradizionali del meridionalismo piagnone e depresso o pateticamente rievocativo di un passato di glorie monumentali. In Sicilia abbiamo versioni sedimentate, sotto forma di un sicilianismo patriottico, spesso coinvolto nell'apologia o nella negazione dello stesso fenomeno mafioso, assunto a panoplia di valori tradizionali (l'onore, la famiglia, l'ipertrofia dell'io), o nella variante letteraria della sicilitudine (il modo siciliano di vivere e di sentire), da cui spesso è originata quella che ho chiamato sicilianite, una sorta di sindrome depressiva diffusa che porta a considerare tutto ciò che si inscena nell'isola come negativo in radice e destinato inguaribilmente alla disfatta, mentre al di là dello Stretto tutto sarebbe normale e positivo 16. Non senza ragione si è osservato che in questo neomeridionalismo si avverte la presenza di un certo "antimodernismo post-modernista", all'insegna del recupero di valori dimenticati 17. Personalmente ritengo che ci sia il rischio di varare un altro stereotipo, quello della meridionalità e della mediterraneità sempre e comunque intese come positività. Bisogna chiedersi: cos'è stato e cos'è in realtà il Mediterraneo? Una sorta di condominio abitato da condomini eguali e rispettosi l'uno dell'altro, un mare di dialogo e di pace, un ponte tra culture diverse o al contrario un'area di conflitti, storici e attuali, più frontiera che ponte, con Paesi rivieraschi diversissimi per economia, cultura, religione? Propendo più per la seconda ipotesi che per la prima 18. Fenomenologia del dominio criminale Alcuni dati sulla consistenza delle principali organizzazioni criminali: Cosa nostra conta 5.500 affiliati su una popolazione della Sicilia (al 2005) di 5.021.000 abitanti: c'è un mafioso ogni 903 abitanti, il giro d'affari del crimine mafioso sarebbe di 30 miliardi di euro. La 'ndrangheta ha 6.000 affiliati su una popolazione della Calabria di 2.077.000: c'è un affiliato ogni 345 abitanti, il giro d'affari sarebbe di 35 miliardi. Gli affiliati alla camorra sono 6.700, su una popolazione della Campania di 5.788.000 abitanti: un camorrista ogni 840 abitanti, il giro d'affari di 28 miliardi. La Sacra corona unita conta 2.000 affiliati, la popolazione della Puglia è di 4.077.000 abitanti: c'è un affiliato ogni 2.000 abitanti. Il problema è se questi fenomeni di criminalità organizzata si limitino ai dati sopra richiamati. Il modello mafioso siciliano, che è il più storico e complesso, vede i criminali di professione agire dentro un sistema di relazioni, un blocco sociale transclassista, che va dagli strati più bassi agli strati più alti, in cui la funzione dominante è svolta da rappresentanti del mondo delle professioni, dell'imprenditoria, della pubblica amministrazione, della politica e delle istituzioni, definibili come "borghesia mafiosa". Questo modello è in qualche modo utilizzabile anche per altri gruppi che presentano aspetti specifici, storici e attuali. È indubbio che i fenomeni di criminalità organizzata, prima presenti in aree limitate, negli ultimi decenni si sono estesi a quasi tutto il Mezzogiorno. In essi convivono sopravvivenze arcaiche e modernizzazione reale. Perché il Mezzogiorno è la fabbrica delle mafie? Nei miei studi ho parlato di "società mafiogena", indicandone le caratteristiche principali 19. Li riassumo: buona parte della popolazione considera violenza e illegalità come mezzi di sopravvivenza e canali per l'acquisizione di un ruolo sociale, inaccessibile per altre vie; l'economia legale non offre opportunità adeguate; le istituzioni sono viste come mondi lontani e chiusi, abbordabili soltanto attraverso la mediazione delle organizzazioni criminali e dei loro amici; nel sentire comune prevale l'idea dell'inutilità delle lotte e domina la cultura della sfiducia e del fatalismo; il tessuto di società civile è fragile e precario e nei comportamenti quotidiani l'aggressività è la norma e vige la solidarietà nell'illegalità. Queste caratteri propri del villaggio originario negli ultimi decenni si sono estesi al villaggio globale, come prodotto di alcuni aspetti fondamentali della globalizzazione capitalistica. Nel contesto della globalizzazione gli squilibri territoriali e i divari sociali tendono ad aggravarsi (il 23 per cento della popolazione mondiale consuma l'80 per cento delle risorse), e per molte aree del pianeta (l'Africa, l'America latina, gli ex paesi socialisti ecc.) l'unica risorsa disponibile è il ricorso all'accumulazione illegale; l'economia produttiva si è drasticamente ridotta e si è espansa l'economia finanziaria, con miliardi di dollari in circuitazione permanente alla ricerca di sbocchi speculativi. Il sistema finanziario è sempre più opaco, con l'introduzione di nuove forme di raccolta e impiego dei capitali (le innovazioni finanziarie), ed è diventato sempre più difficile distinguere flussi di capitale illegali e legali. In questo quadro l'unico "valore", radicato e diffuso, è il successo a ogni costo e con tutti i mezzi, a cominciare da quelli illegali con la conseguente ricerca dell'impunità come forma di legittimazione e status symbol. Queste caratteristiche determinano la forte criminogenicità dei processi di globalizzazione, sia nei centri, trasformati in supermercati dell'iperconsumo, che nelle periferie, dove si accalcano le masse degli esclusi e degli emarginati, pronti a imboccare le vie di fuga dell'emigrazione clandestina, offerte da gruppi criminali emergenti. Le mafie proliferano all'interno di questi processi, in cui si incontrano le nuove forme dello sviluppo e del sottosviluppo, con un'accumulazione illegale cresciuta a dismisura e con un associazionismo criminale capace di assicurare ruoli e potere, fino a coincidere in molti casi con le formazioni statali, vere e proprie criminocrazie o Stati-mafia. Tutto ciò non vuol dire che si sia formata una sorta di Supermafia o Piovra universale; ci sono vari gruppi, storici e nuovi, che convivono dividendosi il lavoro e nonostante la forte conflittualità interna di parecchi gruppi finora è prevalsa la convivenza pacifica. A fronte di questa realtà il vecchio paradigma eziologico che riportava la formazione della mafia e di altri gruppi criminali alla "deprivazione relativa" non può non tenere conto dell'ipertrofia delle opportunità che offrono le attività criminali e illegali, capaci di sfruttare tanto le occasioni offerte dalle distorsioni dello sviluppo che quelle dell'emarginazione e della periferizzazione. Se vogliamo riportare il discorso a due regioni-chiave del Mezzogiorno, la Sicilia e la Campania, vengono a galla sintonie e distonie. Nelle due regioni operano organizzazioni criminali storiche che presentano notevoli differenze. Cosa nostra siciliana è strutturata in forme rigidamente gerarchiche, anche se la dittatura imposta dai cosiddetti corleonesi negli ultimi anni si è andata attenuando e si è tornati a forme collegiali collaudate storicamente. La camorra, anzi le camorre, sono gruppi pulviscolari, in guerra permanente tra loro. Di recente Isaia Sales ha operato un raffronto tra la mafia, così com'è definita nel mio "paradigma della complessità" 20, e la camorra, pervenendo al seguente risultato: la mafia siciliana è organizzata, ha una regia unitaria e una strategia condivisa, la camorra non ha gerarchie, non ha regia né strategia unitaria; anch'essa agisce all'interno di un contesto relazionale radicato nei vicoli, nei quartieri, nelle periferie di Napoli e attorno alla città; anch'essa ha come finalità l'accumulazione e la gestione del potere, ha un codice culturale e gode di un certo consenso sociale, ma non c'è un'estesa borghesia camorristica "in quanto l'integrazione tra camorristi e l'insieme della società circostante è meno agevole e trova più barriere che in Sicilia". La "signoria territoriale" della camorra è totale ma si diluisce al di fuori del territorio in cui è insediata e "l'intreccio con le istituzioni è meno forte e duraturo nel tempo". Essa "resiste e prospera anche senza un rapporto organico con la politica. Ha bisogno di godere della tolleranza delle istituzioni dello Stato per dominare sui mercati illegali, ma non può vantarne un intreccio stabile. Fanno eccezioni a questo schema alcune bande di camorra della provincia di Napoli, Salerno e Caserta, le cui somiglianze con la mafia sono maggiori" 21. Non c'è una saldatura tra camorra cittadina e provinciale e la violenza, invece che configurarsi come omicidio-progetto ed essere regolata da un governo centrale, è espressione di un'anarchia criminale e dà luogo a una guerra permanente. Nella metropoli partenopea, la camorra sarebbe "uno dei risultati del mancato riassorbimento nella modernizzazione urbana dei ceti sottoproletari di massa" 22. C'è da chiedersi se la pervasività della camorra nel mondo degli affari, per esempio nella ricostruzione dopo il terremoto dell'Irpinia, non sia il frutto di una forte interazione tra camorra e soggetti imprenditoriali e quanto pesi questa interazione sul quadro amministrativo e istituzionale 23. Per quanto riguarda il sottoproletariato urbano l'inserimento nei gruppi camorristici è una forma di modernizzazione, l'unica possibile, o la più conveniente, in un contesto sociale che non offre grandi possibilità, soprattutto dopo lo smantellamento dell'apparato industriale. E questo non vale solo per Napoli, vale pure per Palermo e per la Sicilia. Sul piano politico, mentre in Sicilia dopo il grande flusso migratorio degli anni '50 e '70, in seguito alla sconfitta delle lotte contadine, si è imposta una sorta di regime prima democristiano e ora del centrodestra, in Campania le forze del centrosinistra governano regione, province e grandi città come Napoli, ma non riescono a far fronte ai problemi del territorio, dall'esplosione della violenza criminale alla pervasività della camorra, dallo smantellamento del tessuto produttivo (esemplare il destino dell'Italsider di Bagnoli) all'emergenza permanente dei rifiuti. Questo quadro non vuole avallare l'immagine dell'inferno irredimibile 24 e va completato con quel tanto che si è riusciti e si riesce fare, per esempio sul piano dell'impegno dei gruppi organizzati di società civile. Su vari terreni: da quello culturale all'antiracket. Esperienze e proposte per un progetto di liberazione Nella mia Storia del movimento antimafia indicavo tra le principali iniziative degli ultimi anni, sviluppatesi con una certa continuità, il lavoro nelle scuole, l'associazionismo antiracket, l'uso sociale dei beni confiscati. Ne indicavo anche i limiti: le attività scolastiche di "educazione alla legalità" hanno alla base un'idea emergenziale delle mafie, legata all'escalation nell'uso della violenza e soprattutto ai grandi delitti e alle stragi che hanno scosso l'opinione pubblica, sono caratterizzate da una concezione formalistica della legalità (il rispetto delle leggi, a prescindere dal loro contenuto) e rimangono separate dai programmi curricolari. L'associazionismo antiracket è stato finora limitato territorialmente e numericamente, mentre estorsioni e usura si sono estese a tutto il territorio nazionale. L'uso dei beni confiscati è alle prime esperienze, con un numero ridotto di cooperative e di beni da usare, con tempi lunghissimi per l'assegnazione, mentre rimane inesplorato l'immenso patrimonio finanziario. In ogni caso un progetto che miri alla liberazione dalle mafie non può che essere parte di un progetto più generale di rinnovamento sociale che abbia come basi una conoscenza adeguata, un programma di sviluppo delle comunità fondato sull'uso razionale delle risorse, sul controllo delle istituzioni e la partecipazione democratica in forme capillari e permanenti. Le tematiche sull'antimafia integrata, l'antimafia sociale, la cittadinanza attiva rimandano a un nuovo modo di concepire e di vivere la cittadinanza che vada oltre i rituali elettorali e si ponga come alternativa concreta alle sempre più diffuse tentazioni di rilasciare deleghe in bianco a presunti liberatori. Ho racchiuso queste considerazioni nelle pagine finali del mio Oltre la legalità, destinato soprattutto agli insegnanti e agli operatori sociali, in cui parlo di Stato diffuso, di economia sociale, di ridefinizione della quotidianità, di etica comune. 25 Provo a enuclearne i contenuti specifici. Per "Stato diffuso" intendo "una struttura del potere articolata e non concentrata, basata su un nuovo concetto di cittadinanza, fondato non sulla delega ma sull'impegno e la partecipazione diretta e sostanziato da una continua tensione per l'affermazione dei diritti sociali". Democratizzare il potere vuol dire in primo luogo legalizzarlo, cioè decriminalizzarlo e visibilizzarlo, espellendo qualsiasi fenomeno di criminalizzazione delle istituzioni, tagliando qualsiasi rapporto tra politica e mafia, operando in modo che non abbiano a riprodursi né l'interazione con il crimine né l'opacità di settori istituzionali, come i servizi segreti, che sono all'origine di stragi e di delitti che hanno condizionato la vita democratica del nostro Paese, non solo del Mezzogiorno, e ne hanno cagionato l'impunità. In questa prospettiva bisognerà coniugare democrazia rappresentativa e democrazia diretta, risanando la prima da vizi ormai inveterati, come le spese per campagne elettorali sempre più dominate dalle forme più deteriori della pubblicità ingannevole, istituendo forme di verifica e di controllo da parte dei cittadini; organizzando la società civile e costruendo strutture stabili e dotate di poteri reali, per fare uscire la seconda dalla precarietà e dal velleitarismo delle buone intenzioni. Facevo l'esempio del controllo democratico del territorio, in alternativa a forme di giustizialismo espresso da iniziative come le ronde di quartiere dettate da concezioni più o meno razzistiche e xenofobiche. In territori come i nostri dominati dalle presenze di criminalità organizzate con il loro indotto socio-economico, si tratta di elaborare e praticare una strategia di appropriazione del territorio che passa attraverso la costruzione di un tessuto di presenze attive, con la gestione di servizi e di spazi di socializzazione. La scuola può avere un ruolo se si apre al territorio e se è cogestita da alunni e genitori. A Palermo in alcuni quartieri popolari le scuole sono regolarmente assaltate e distrutte, perché sono sentite come corpi estranei e perchè, a fronte di una illegalità condivisa come identità e praticata come risorsa, l'insegnamento e la predicazione della legalità sono vissuti come presenza e verbo del nemico. Il concetto di sviluppo troppo spesso è legato alla visione economicistica della crescita del Pil, a prescindere dall'utilità o meno delle merci che si producono e sempre più viene contestato anche nelle versioni che lo coniugano al rispetto dell'ambiente (l'aggettivo più usato è "sostenibile"). Si parla di "decrescita", un sostantivo che come la "nonviolenza" vuole essere alternativo ma si limita a esprimere una negazione. Quel che è certo è che a un'economia unicamente preoccupata del profitto e della crescita, che troppo spesso si coniuga con l'economia criminale e illegale, bisogna contrapporre un'economia che si ponga il problema fondamentale di soddisfare i bisogni essenziali di tutti e questo non è possibile se non si socializza l'economia, cioè se non si organizzano i soggetti produttori e fruitori, oggi ridotti a forza lavoro da pagare al più basso prezzo e a consumatori di prodotti inutili se non dannosi, imposti attraverso l'ossessionante messaggio pubblicitario. Nel Mezzogiorno in particolare bisogna organizzare disoccupati, precari ed emarginati, indigeni e immigrati con forme apposite (il sindacato è nato soprattutto per gli occupati raggruppati all'interno della fabbrica), in grado di conferire peso contrattuale nella conduzione di vertenze per l'attuazione di piani per l'occupazione e per "lavori socialmente utili" (formula usata abitualmente per l'impiego precario in attività di dubbia utilità). L'uso sociale dei beni confiscati se si estende può essere una delle forme più significative di questa socializzazione dell'economia, riconvertendo in utilità sociale i prodotti dell'accumulazione illegale. Nel vuoto di alternative praticabili l'accumulazione criminale resterà l'unica chance, o la più conveniente, per ampi strati della popolazione. La quotidianità è il terreno su cui si misura la civiltà di una comunità e la sua cultura, e la sua ridefinizione passa attraverso vari canali: la conoscenza, l'etica, la politica, l'economia, la pedagogia, intese non come materie per specialisti e occasioni eccezionali ma come pratiche concrete e gesti abituali, dal rifiuto della raccomandazione al boicottaggio dell'economia mafiosa, al consumo critico, dalla convivenza pacifica alla sobrietà, alla partecipazione 26. Siamo i giganti della tecnica e i nani dell'etica, dicono filosofi e "profeti del nostro tempo" (da Günther Anders a Ernesto Balducci, ad Hans Jonas ) che sottolineano lo scarto tra l'altissimo livello delle capacità operative e il vuoto di coscienza rispetto agli scopi del vivere. Ma un'etica comune non può nascere da credi religiosi o politici, più atti a dividere che ad unire. Può nascere da una grammatica condivisa, fondata sulla valorizzazione del pluralismo e della diversità, il contrario delle pulsioni identitarie, sulla concretezza, sul fare, sul sentirsi membri di una comunità, sulla radicalità e sul conflitto, sul qui e ora. In quest'ottica anche alcune indicazioni del "pensiero meridiano" possono tornare utili, se non si limitano a registrare una diversità più mitizzata che reale. E l'esempio di Lorenzo Milani, con i suoi piccoli alunni in un Sud apparentemente desolato come Barbiana, fatto di emarginati e di immigrati, la sua etica della disobbedienza verso saperi e poteri costituiti, possono accompagnarci su un percorso che sappiamo difficile ma non impossibile.
NOTE 1 Cf P. PEZZINO, Il Paradiso abitato dai diavoli. Società, élites, istituzioni nel Mezzogiorno contemporaneo, F. Angeli, Milano 1992.
2 Cf G. BOCCA, L'inferno. Profondo Sud, male oscuro, Mondadori, Milano 1992.
3 Cf M. PETRUSEWICZ, Come il Meridione divenne una Questione. Rappresentazioni del Sud prima e dopo il Quarantotto, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998.
4 Cf C. TRIGILIA, Sviluppo senza autonomia. Effetti perversi delle politiche nel Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1994.
5 Cf in particolare il numero 26-27, maggio-settembre 1996, sul tema Mezzogiorno oggi.
6 Cf E. HITTEN - M. MARCHIONI, Industrializzazione senza sviluppo. Gela: una storia meridionale, F. Angeli, Milano 1970; G. COMMISSO, Il conflitto invisibile. Forma del potere, relazioni sociali e soggettività operaia alla Fiat di Melfi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999.
7 Cf SVIMEZ, Rapporto 2006 sull'economia del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 2006.
8 I dati sono tratti dai quotidiani del 24 maggio 2007.
9 Cf E.C. BANFIELD, The Moral Basis of a Backward Society, The Free Press, Glencoe, Ill: 1958; traduzioni italiane: Una comunità del Mezzogiorno, il Mulino, Bologna 1961, Le basi morali di una società arretrata, il Mulino, Bologna 1976; R.D. PUTNAM, Making Democracy Work. Civic Traditions in Modern Italy, Pricenton University Press, Princeton 1993, trad. it.: La tradizione civica nelle regioni italiane, Mondadori, Milano 1993.
10 Si veda la mia Storia del movimento antimafia. Dalla lotta di classe all'impegno civile, Editori Riuniti, Roma 2000.
11 Cf F. TÖNNIES, Comunità e società, Edizioni di Comunità, Milano 1979.
12 F. CASSANO, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari 1999.
13 M. ALCARO, Sull'identità meridionale. Forme di una cultura mediterranea, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
14 Cf. F. PIPERNO, Elogio dello spirito pubblico meridionale, manifestolibri, Roma 1997.
15 T. PERNA, Cari amici del Nord. C'era una volta il Sud... e c'è ancora, Carta - Intra moenia, Roma 2006.
16 Rimando al mio Dalla mafia alle mafie. Scienze sociali e crimine organizzato, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, 281 s.
17 M. PETRUSEWICZ, Come il Meridione divenne una Questione, cit., 13. 18 Rimando al mio "Mafie e Mediterraneo", in Mafie e globalizzazione, Di Girolamo, Trapani 2007, 231-239.
19 Cf il mio Dalla mafia alle mafie, cit., 287 ss.
20 Cf i miei La mafia interpretata. Dilemmi, stereotipi, paradigmi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995 e Dalla mafia alle mafie, cit.
21 I. SALES, Le strade della violenza. Malviventi e bande di camorra a Napoli, l'ancora del Mediterraneo, Napoli 2006, 31 s.
22 ID., op. cit., 10.
23 Scrive Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell'impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Mondadori, Milano 2006, 57 s.: "I clan di camorra non hanno bisogno dei politici come i gruppi mafiosi siciliani, ma sono i politici che hanno necessità estrema del Sistema. Si è innescata in Campania una strategia che lascia le strutture politiche più visibili e mediaticamente più esposte immuni formalmente da connivenze e attiguità, ma in provincia, nei paesi dove i clan hanno bisogno di sostegni militari, di coperture alla latitanza, di manovre economiche più esposte, le alleanze tra politici e famiglie camorristiche sono più strette". Come si vede l'affermazione iniziale è stemperata, anzi contraddetta, dal periodo successivo.
24 La lettura di un libro di successo come quello di Roberto Saviano, cit., può indurre una visione secondo cui il "Sistema" camorristico è talmente onnipresente e pervasivo ("Ogni angolo del globo era stato raggiunto dalle aziende, dagli uomini, dai prodotti del Sistema": cit., 48) da non lasciare spazio a una possibile alternativa.
25 Cf U. Santino, Oltre la legalità. Appunti per un programma di lavoro in terra di mafie, Centro Impastato, Palermo 2002.
26 Significativa la campagna antiracket e per il consumo critico avviata negli ultimi anni a Palermo dal comitato Addiopizzo, che ha raccolto migliaia di adesioni di consumatori e qualche centinaio tra commercianti e imprenditori.

giovedì 27 marzo 2008

Farfalla d'amore.

di ENZO BIAGI


Quando penso al Primo Maggio, penso ai vecchi socialisti: a Nenni, a Pertini. O a mio padre che diceva che il fondatore era stato Gesù. Infatti distribuì agli affamati pane e pesci e predicò: «Gli ultimi saranno i primi». Sono passati 110 anni da quando i promotori del partito, in un lontano agosto, e approfittando delle ferie e delle riduzioni ferroviarie concesse in occasione delle celebrazioni colombiane, si trovarono a Genova. «Il loro Marx - raccontano gli storici - aveva i tratti di Garibaldi e anche di Cristo, era un liberatore e un apostolo».Si rivolgevano ai lavoratori, parlavano di sfruttatori, di emancipazione, anche della donna che - come scriveva una russa, la signora Kulisciov compagna di Turati - era «schiava del marito e del capitale».La paga era «la mercede», il popolo «la plebe». Gli intellettuali si definivano «scapigliati», e usciva una rivista che si chiamava La farfalla . Pensarono qualche tempo dopo di fondare un quotidiano. Per la testata ci fu chi propose Italia nuova , poi si adeguarono al modello tedesco: Avanti! .Il primo direttore fu Leonida Bissolati, figlio di un prete spretato e della traduttrice dell’anarchico Bakunin. Seguirono, più tardi, Benito Mussolini e Pietro Nenni, «uomini che nel bene e nel male lasciarono una impronta».I primi lettori erano braccianti, operai, risaiole, ma erano i borghesi che predicavano la nuova dottrina. Quando si presentarono alle elezioni presero 77 mila voti e 12 seggi: il primo deputato si chiamava Andrea Costa e le lapidi lo ricordano come «apostolo dell’umana redenzione».Pietro Nenni mi raccontò che il Primo Maggio, a Faenza, i signori sprangavano le finestre e i portoni dei palazzi. Sospirava: «La vita è metà gioia e metà dolore». Togliatti gli disse una volta: «Tu hai un grave difetto: sei incapace di odiare». Anche per questo molti gli vollero bene.

lunedì 24 marzo 2008

Giustizia e libertà: la storia di Uomini che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti.

di Gaetano Arfè
Ho dato inizio alla mia milizia politica nel 1942 aderendo a un piccolo gruppo clandestino di 'Italia Libera', che faceva capo a un libraio di Napoli, Ettore Ceccoli, originariamente comunista, amico di mio padre, socialista, devoto al culto di Benedetto Croce, frequentatore abituale della sua libreria. Con Croce egli mi procurò un incontro nel corso del quale ebbi preziosi consigli, scrupolosamente seguiti, di letture risorgimentali, tra cui lettere dal carcere di Silvio Spaventa: l'idea dell'antifascismo come 'secondo Risorgimento' mi è venuta, precocemente di là, quando mi trovai anch'io a fare un breve assaggio di galera.Ricordo questo piccolo episodio perché, al di la del caso personale, mi pare indicativo dei modi attraverso i quali si poteva diventare giellisti: una educazione vagamente e genericamente socialista, indirizzata, al momento della scelta, da un ex-comunista, fervido credente della crociana religione della libertà.Ho partecipato poi alla Resistenza nelle formazioni Giustizia e Libertà dell'Alta Valtellina. Saltai l'esperienza del Partito d'Azione per aderire nel maggio del '45 al Partito Socialista, seguendo questa volta la tradizione familiare, ma rimanendo in rapporti di collaborazione assai stretta con gli azionisti e per essi in particolare, ritornato nella mia Napoli, con Francesco De Martino. Seguii Saragat nella sua scissione e a darmi la spinta decisiva fu un discorso di Tristano Codignola, fortemente critico nei confronti del comunismo, che prendeva le mosse dal libro di Koestler, Buio a mezzogiorno. Presto, però, giunsi alla convinzione che alla rivendicata e conquistata autonomia dal Partito comunista corrispondeva una non voluta, ma ineluttabile, subalternità alla Democrazia Cristiana e rientrai così nella casa madre in coincidenza con la confluenza in essa della maggioranza del Partito d'Azione, guidata da Riccardo Lombardi. Ricordo l'emozione che provai quando lessi il testo del discorso col quale egli annunciava e motivava la confluenza nel Partito Socialista. Alcune frasi, non più rilette, mi sono rimaste impresse nella memoria: tra esse quella del 'crisma', della sacra unzione, che ciascun azionista si sarebbe portato addosso per tutta la vita.Considero tra i maggiori privilegi che mi siano toccati quello di essere stato legato come a padri o fratelli maggiori a uomini - rammento solo alcuni di quelli scomparsi - come Gaetano Salvemini, Ferruccio Parri, Piero Calamandrei, Ernesto Rossi, Riccardo Lombardi, Tristano Codignola, Piero Caleffi, Luciano Bolis, Giuliano Pischel, Enzo Enriques Agnoletti, Altiero Spinelli, Franco Venturi, Manlio Rossi Doria.Ho tra i miei ricordi più cari quello di un compagno, tra i meno noti e tra più nobili, che a questo gruppo appartenne, Nello Traquandi, il solo uomo capace di intimidire Salvemini con uno sguardo di disapprovazione, il quale volle, a suggello di un'amicizia che ancora mi riempie di commosso orgoglio, che io lo accompagnassi in una delle sue visite alle tombe di Trespiano, a salutare, mi disse, Carlo e Nello, quasi a presentarmi a loro.Tutto questo mi consente di sottrarmi alla regola, oggi tornata di moda, che sterilizza la ricerca storica in nome di una presunta scientificità, liberandola anche dall'impegno alla riflessione che perennemente ritorna su se stessa, via via adeguando la nostra capacita di intendere la storia al perenne maturare della nostra coscienza.Andrò ancora oltre dicendo che scrivo non già nelle vesti di storico, ma di chi è stato partecipe, tra gli ultimi e i più modesti, di una storia che ha avuto i colori dell'epopea e l'andamento di una chanson de geste, la storia di uomini che non trionfarono mai, ma che non furono mai vinti e che del loro operare hanno lasciato un segno incancellato e incancellabile. E' un fatto che mentre la seconda generazione giellista, la mia, si viene anch'essa estinguendo, gruppi di giovani si vanno formando per i quali Giustizia e Libertà non è una sigla depositata negli archivi, ma un motto che indica le ragioni per le quali la vita è degna di essere vissuta.Poco meno di sessant'anni sono passati dalla morte di Carlo Rosselli e circa mezzo secolo dalla scomparsa del Partito d'Azione che fu, per breve stagione, l'incarnazione del movimento di Giustizia e Libertà. Il ciclo storico dell'antifascismo militante si è chiuso e si è chiusa con esso una fase della storia della nostra repubblica. Non si è spento il dibattito sulla tradizione giellista e azionista, anzi, al contrario di quanto è avvenuto per altri movimenti politici, esso è trapassato dal piano storiografico a quello ideologico e politico.Quanto forte sia la carica di questo dibattito e quanto ancora calato esso sia nella 'battaglia delle idee' lo prova il fatto che di volta in volta Rosselli è stato presentato come il precursore di un liberal-socialismo pudibondo - sia detto con tutto il rispetto per la persona - alla Giuliano Amato; come il costruttore di una ideologia da 'utili idioti', che ha fatto del giellismo e dell'azionismo la maschera del frontismo comunista - si è inventata nelle accademie la formula un po' goffa, da agit-prop più che da studiosi, di Gramsci- azionismo-; come l'ispiratore remoto - e qui siamo alla faziosità sfrontata e canagliesca - delle brigate rosse.Una rassegna critica e ben ragionata di tali interpretazioni costituirebbe un contributo di notevole interesse alla storia delle sub-ideologie politiche del nostro tempo.Vero è che nella tradizione giellista coesistono e convivono in connessione dialettica motivi contraddittori che non sono meramente ideologici, che esprimono contraddizioni reali, a volte laceranti, le quali necessariamente si riflettono in chi nella storia in divenire intende incidere. Basti solo pensare che la formazione del gruppo dirigente di GL avviene nei brevi anni che vedono l'avvento di Hitler nella acquiescenza delle democrazie e delle socialdemocrazie; la sedizione franchista di fronte alla quale, da solo, si schiera dalla parte del governo legittimo, facendo gravare, però, attraverso i partiti comunisti una pesante e a volte fosca ipoteca sulla pericolante repubblica aggredita dal fascismo internazionale, mentre contemporaneamente esplode a Mosca, in forme ripugnanti, il terrorismo staliniano, mentre le democrazie preparano la vile e miope capitolazione di Monaco.Nella notte che seguì la conclusione del congresso di Venezia del 1957, nelle lunghe ore di attesa dei risultati, Nenni, che Rosselli aveva voluto al suo fianco nella impresa di 'Quarto Stato', la rivista dell'autocritica socialista, mi parlò a lungo di lui e delle ragioni per le quali era stato possibile l'inserimento nel partito socialista di molti degli elementi migliori dell'azionismo giellistico, ma non la saldatura delle due esperienze.Tra le ragioni della singolarità della vicenda di GL egli collocava al primo posto l'ispirazione aristocraticamente libertaria del socialismo rosselliano, che era stimolo a intuire e anti-vedere i fatti ma incorrendo nell'errore, non sempre rimediabile e difficilmente perdonato, di aver ragione prima del tempo. Questo lo aveva predestinato a una funzione preziosa ma necessariamente minoritaria. Un destino analogo egli prevedeva per Riccardo Lombardi, in quel momento suo alleato nella guida della svolta autonomistica.La vocazione libertaria di Rosselli esiste e tra le sue componenti entra anche l'attrazione irresistibile per l'eresia, il gusto, a volte ostentato, per l'avventura intellettuale e politica. Va però anche detto che, pur restando in ogni momento un eretico, a differenza di quanto accade presso altri gruppi minoritari, egli non contrappone mai una propria ortodossia a quella delle maggioranze, è aperto al dialogo su tutti i versanti, dagli anarchici e dai trotzkisti ai neo-socialisti francesi, conservando sempre acuta e vigile, la capacità di intendere la relatività e la precarietà delle ideologie, di cogliere in esse quello che viene via via travolto e ridotto ad ammasso di ruderi resi inutilizzabili dal procedere vorticoso degli avvenimenti. A preservarlo da quello che nel gergo comunista veniva, un tempo, definito avventurismo sta il culto, professato con religioso rigore, dei principi, saldati in nesso indissolubile e sintetizzati nel suo motto 'Giustizia e Libertà'.Rosselli è socialista perché liberale. Il suo liberalismo è umanesimo integrale, è processo permanente di liberazione dell'uomo dai vincoli di classe e questo nella realtà del XX secolo si definisce come socialismo e in esso si esprime. La società socialista potrà anche non realizzarsi, il 'paradiso socialista' potrà anche non esser raggiunto: giustizia e libertà restano gli imperativi etici ai quali uniformare la propria condotta.Il partito al quale aderisce è il partito di Matteotti, l'uomo che egli erigerà a esempio, per la vita e per la morte. Elegge Turati a rappresentante dell'Italia libera, ne progetta, ne organizza e ne conduce l'evasione in Francia, gli resterà legato da filiale affetto. Il libro che egli scrive a Lipari, Socialismo Liberale, sviluppa in sede dottrinale il tema della rivalutazione del volontarismo contro il determinismo marxista, riprende in sede politica, rielaborandoli originalmente, i motivi della polemica antiriformista di Salvemini, disegna il modello di un laburismo dinamico e volitivo di cui il movimento operaio inglese fornisce un apprezzabile esempio, resta, tuttavia, nell'ambito della tradizione del socialismo democratico europeo.Quel libro dovrebbe segnare il suo punto di approdo, e tale generalmente è stato considerato: è, invece, il punto di partenza di un processo di revisione permanente che lo porterà a un graduale, crescente distacco dalla ideologia socialdemocratica, dalla sua cultura, dalla sua politica. Le tappe del suo revisionismo procedono al passo con gli avvenimenti, sul filo di un serrato superamento critico, nutrito di robusto senso della storia.Lo scritto dedicato alla memoria di Turati è un commosso atto d'amore per il vecchio maestro, è il riconoscimento argomentato e documentato di quanto egli ha dato, fino all'ultimo suo giorno di vita, alla causa della libertà, del socialismo, della nazione; è anche storicizzazione di una esperienza irripetibile perché irreversibile è il mutamento avvenuto nei moduli della lotta sociale, politica, ideologica. I motivi polemici che egli verrà via via sviluppando fondono le riflessioni sul passato, l'analisi del presente, le intuizioni su quel che sarà l'imminente e incombente futuro; è stato merito del socialismo democratico, per Rosselli, avere indirizzato il movimento operaio sulla via della legalità, ma il legalitarismo condanna alla sconfitta qualora sia elevato a dogma: lo dimostra il caso dell'Aventino, quando si erano affidate le sorti della battaglia a una forza esterna e tendenzialmente avversa, la monarchia. La sovranità popolare espressa col voto è sacrosanta, ma in circostanze date - questa volta è il caso della Saar, dove gli operai socialdemocratici avevano votato per l'annessione alla Germania di Hitler - essa può plebiscitariamente soffocare la libertà. La pace resta il bene supremo dei popoli, ma l'avvento del nazismo annuncia, fuor d'ogni equivoco, 'la guerra che torna', la guerra dei fascismi contro l'Europa e non sarà il rugiadoso pacifismo socialista né l'ignavia delle diplomazie democratiche a fermarla. L'internazionalismo socialista è meritevole di ogni rispetto, ma esso resta una patetica manifestazione di ecumenico sentimentalismo quando non sa calarsi nella realtà nella quale il socialismo opera e che è quella europea. Le dottrine, le ideologie, le formule organizzative democratiche e socialdemocratiche sono vecchie, sono l'espressione di un mondo che non vive, ma sopravvive, non sono più capaci di animare fedi, di suscitare trascinanti passioni, di ispirare etiche di combattimento in una fase nella quale lo scontro frontale coi fascismi sta per diventare inevitabile.La risposta, sfortunata ma eroica, degli operai socialisti di 'Vienna la rossa' ai clerico-fascisti di Dollfuss, quella degli operai e dei contadini spagnoli alla sedizione franchista indicano la strada da battere nella lotta contro il fascismo e il nazismo. In questo quadro il grande fatto nuovo: la svolta, dopo l'avvento di Hitler, in senso antifascista della politica estera sovietica, cui corrisponde quella della Internazionale Comunista e dei suoi partiti, che accantonano la formula del 'social-fascismo', della equivalenza tra socialismo e fascismo rispetto all'obiettivo della rivoluzione proletaria, e lanciano la parola d'ordine delle larghe alleanze antifasciste che troveranno nei fronti popolari la loro espressione. Non sfugge a Rosselli quanto c'è di ambiguo e di strumentale nella svolta dell'Urss e della sua Internazionale, ma il fatto nuovo è innegabile ed è di portata tale da imporre una revisione delle posizioni dell'antifascismo nei confronti del comunismo. L'operazione di Stalin, infatti, è stata resa possibile ed è diventata inevitabile per effetto di due fatti reali e concomitanti: l'interesse dello stato sovietico alla difesa da una ormai ipotizzabile aggressione nazista, l'iniziativa spontanea delle avanguardie proletarie, controllate ancora dai vecchi gruppi dirigenti, ma cariche di un potenziale autonomistico che non mancherà di farsi valere perché sarà il corso stesso delle cose a creare le condizioni idonee a che esso si sviluppi. Ma perché il moto così avviato proceda lungo la linea giusta è necessario affermare, nelle parole e nei fatti, la piena autonomia dell'antifascismo non soltanto dallo stato sovietico, ma anche dalle gerarchie partitiche e sindacali, influenzabili dai governi, quelli democratici come quello comunista, ai quali ideologicamente e politicamente esse fanno capo. Il Rosselli di 'Socialismo Liberale' diventa a questo punto l'autore della proposta, rivoluzionaria, classista, sovietista, 'per l'unificazione politica del proletariato italiano' nel quadro di una europeizzazione della lotta antifascista.Non può essere considerato neanche questo un punto di approdo: a troncare il filo non sarà il compimento di una esperienza, ma il ferro freddo di mussoliniana memoria.'Il partito unico del proletariato - egli scrive poco prima di morire - se vorrà essere una forza innovatrice autentica, dovrà essere, più che un partito in senso stretto, una larga forza sociale, una sorta di anticipazione della società futura, di microcosmo sociale, con la sua organizzazione di combattimento, ma anche con la sua vita intellettuale dal respiro ampio incitatore.'GL si propone di esserne una delle componenti essenziali, portandovi un programma i cui cardini sono due: la liberazione dal fascismo deve essere opera del popolo italiano, riallacciando il filo della tradizione della sinistra risorgimentale - ne sarà Parri l'interprete più fedele -, dovrà avere il proletariato come forza motrice e dirigente, non potrà limitarsi a proporre la restaurazione del regime prefascista; la lotta non potrà essere condotta da un partito solo ma da un vasto e possente schieramento unitario, rispettoso delle reciproche autonomie e animato dalla stessa volontà.Il quadro è quello europeo: in esso si colloca, senza riserve e senza residui la rivoluzione antifascista italiana.A tracciare le grandi linee è Rosselli, ma egli dà voce a motivi discussi e maturati nell'ambito del movimento, in rapporto, in una prima fase, con Salvemini, col concorso di compagni come Silvio Trentin, come Emilio Lussu, come Andrea Caffi, come Franco Venturi, come Aldo Garosci, in costante rapporto di scambio con la cultura europea, soprattutto quella francese. Su questo tema, mi piace ricordare, associandovi la rinnovata espressione del nostro omaggio, le pagine scritte con la finezza del grande intellettuale, il rigore dello storico, la passione del testimone, da Franco Venturi, scomparso nella giornata conclusiva del nostro convegno su Parri.Questo insieme di ispirazioni e di motivazioni diverse e tendenzialmente divergenti non può comporsi in dottrina, ma crea qualcosa di più che una dottrina, un ethos politico che ha il rigore dei comandamenti. Ne scaturisce un'etica che si caratterizza, come quella comunista, per la sua carica di volontarismo teorico e pratico, ma che non è condizionata dalla mistica del partito: la fedeltà è tutta e solo ai principi che si professano, la responsabilità delle scelte è tutta e solo di chi le compie. è un'etica necessariamente minoritaria, di una aristocrazia militante e combattente, nella quale l'eroismo entra, si potrebbe dire, come componente organica. Nella graduatoria di Rosselli al primo posto è Matteotti, ma tutti gli eroi, dai martiri del Risorgimento ai fucilati e ai perseguitati di Mussolini, ai combattenti di Vienna e di Madrid sono oggetto di culto.E' un ethos che cerca e trova le sue radici nella storia nazionale. Il richiamo al Risorgimento non ha nulla di strumentale o di occasionale. Acquisizione tardiva per i comunisti, esso è per Rosselli il motivo ispiratore dominante fin dal suo primo ingresso nella lotta politica e penetra nella cultura giellista, decantandosi lungo una linea storiograficamente revisionistica nella quale Mazzini e Pisacane diventano i simboli. E' il tema che Nello Rosselli affronta in sede storica, - i suoi studi lasciano su Parri, oltre che su Carlo, una impronta profonda - e che riallaccia il filo con la tradizione della sinistra risorgimentale, mazziniana, garibaldina, anarchica, quella della propaganda del fatto, quella per la quale il sacrificio personale diventa un dovere quando esso serve a svegliare le coscienze, a propagare una fede, a tener viva e desta una volontà di lotta. La sua sconfitta ha lasciato aperto il problema storico di una rigenerazione nazionale che abbia a protagoniste le classi popolari.Ma di qui non derivano ripiegamenti nazionalistici e neanche patriottici nel senso tradizionale del termine. Partito da un'analisi del fascismo quale fenomeno tipicamente italiano, sbocco di un processo di unificazione nazionale compresso, mortificato e corrotto dal moderatismo, dal trasformismo, dal giolittismo, egli è il primo nell'antifascismo italiano, tra i primi in quello europeo, a cogliere tutta l'importanza del fatto nuovo costituito dall'avvento di Hitler che fa del fascismo nella sua nuova, imponente e minacciosa dimensione il fattore necessariamente sconvolgente dell'equilibrio internazionale. Tutta l'Europa libera, a questo punto, è chiamata a una prova che ha per posta la sopravvivenza della sua civiltà quale l'hanno costruita il cristianesimo, il liberalismo, il socialismo.Quei motivi si arricchiranno negli anni successivi con l'apporto dei giellisti d'Italia.A Giustizia e Libertà, prima rappresentanza unitaria della emigrazione antifascista non comunista, aveva fatto capo nei primi anni Trenta tutta la cospirazione democratica e socialista attiva in Italia. La costituzione di GL in movimento autonomo aveva provocato differenziazioni e divisioni che si erano ripercosse anche tra i suoi fondatori. Ma di qui prende le mosse il processo di formazione di nuovi gruppi, presenti nei maggiori centri d'Italia, dove più, dove meno direttamente influenzati dalla centrale parigina, ciascuno portandovi proprie esperienze e proprie tradizioni: a Torino sono gli echi dei consigli operai di Gramsci e della rivoluzione liberale di Piero Gobetti; a Milano è la tradizione risorgimentale impersonata da uomini come Parri e Riccardo Bauer e il moderno liberalismo di Ugo La Malfa, il giovane economista che conosce Keynes; nel Mezzogiorno intorno al pugliesi Tommaso Fiore e Michele Cifarelli, all'avellinese Guido Dorso, ai napoletani Pasquale Schiano e Francesco De Martino rinasce il meridionalismo democratico. Firenze, che coi Rosselli, con Salvemini, con Rossi, con Calamandrei, di GL era stata la culla, è centro di un episodio di grande interesse nella storia ideale e culturale del movimento: il rapporto che si instaura tra il socialismo liberale di Rosselli e il liberalsocialismo che ha in Guido Calogero e in Aldo Capitini i suoi teorici e trova in Toscana le adesioni di Tristano Codignola, di Enzo Enriques Agnoletti, di Carlo Ludovico Ragghianti di Mario Bracci, di Mario Delle Piane. Lo stesso Codignola, che ne diventerà il rappresentante politico di maggiore originalità e di maggiore spicco, ha raccontato, ricostruendola dall'interno con lucida intelligenza storica, l'avventura intellettuale e politica del gruppo di giovani, maturati sotto il fascismo ma nel solco del crocianesimo, e che per quella via pervennero all'antifascismo militante. L'ultimo episodio di rilievo internazionale è quello che ha protagonista il primo compagno di Carlo Rosselli, Ernesto Rossi, veterano della galera, deportato a Ventotene, che si associa a un ex-comunista, Altiero Spinelli - finirà anche lui nel Partito d'Azione - per lanciare, in collaborazione col socialista Eugenio Colorni il Manifesto che dall'isola ha preso il nome 'Per una Europa libera e unita', per una federazione europea da costruire sulle rovine della guerra in corso. Sarà opera loro la fondazione a Milano del movimento federalista europeo, che sarà di fatto, con la eccezione di Colorni, una articolazione del Partito d'Azione nella Resistenza e un efficace strumento di collegamento tra i movimenti europeistici fioriti, a partire dal '41, in tutta l'Europa occupata e nella stessa Germania. In Francia è un giellista, un amico di Rosselli, Silvio Trentin a dar vita un gruppo di resistenza che ha per motto Libérér et fédérer.E' necessario soffermarsi, anche se assai fugacemente e lacunosamente, su Carlo Rosselli e sulla fase di formazione del Partito d'Azione perché senza di questo diventa impossibile spiegare il fenomeno - Calamandrei diceva 'il miracolo' - di GL nella Resistenza e più ancora il fatto che il 'giellismo' sopravvive al Partito d'Azione, diventa anima di quel filone di cultura storica e politica la cui vitalità è confermata dalla constatazione che contro di esso è ancora in atto, virulenta, l'offensiva ideologica dei fondatori della 'seconda repubblica'.Il Partito d'Azione immette questo patrimonio di pensieri e di azioni, tanto ricco quanto composito, nel corpo vivo della Resistenza. Vi si trovano uomini formatisi nella cospirazione, nella galera, nelle trincee di Spagna e studiosi la cui vita si è svolta nelle biblioteche e nelle accademie, liberali alla Cavour e bolscevichi ravveduti, riformisti e rivoluzionari, protestanti e cattolici: le loro biografie costituiscono la sintesi della migliore storia d'Italia. Questo è il dato da cui bisogna partire per spiegare la singolarità della vicenda dell'azionismo nella storia della nostra repubblica.L'operazione di innesto della tradizione giellista nel movimento resistenziale ha il suo maggiore artefice in Ferruccio Parri.Parri era stato con Rosselli l'organizzatore della evasione di Turati dall'Italia. Il suo comportamento nell'impresa e di fronte alle persecuzioni che ne erano seguite aveva profondamente impressionato Rosselli che con l'enfasi in lui non rara, ma con sincera e commossa ammirazione, scriveva in una pagina autobiografica di aver visto in Parri la reincarnazione, alta e pura, dell'eroe mazziniano.Parri non ha vocazioni libertarie, non sogna ardite sintesi delle diverse esperienze di matrice socialista, non vagheggia unificazioni politiche a base classista. Con la malinconica e sottilmente amara ironia che gli era propria mi disse una volta: 'Io sono un conservatore disperato perché non trovo molto che meriti di essere conservato'. Ma Parri è l'interprete più fedele, più intransigente, più conseguente della direttiva principale e centrale di Rosselli: la liberazione dal fascismo deve essere opera del popolo italiano, deve coinvolgere le classi popolari, deve portare a compimento quel processo di rigenerazione nazionale rimasto incompiuto dal Risorgimento sabaudo-garibaldino. Quell'amor di patria austero, pudico, ma granitico, che lo aveva portato all'interventismo e che aveva fatto di lui uno degli eroi veri della prima guerra mondiale, che lo aveva indotto a scendere in campo contro il fascismo, in nome, come Matteotti, della dignità nazionale offesa, è il sentimento dominante nella concezione che egli ha della funzione della Resistenza e dell'azione militare e politica nella quale essa deve manifestarsi. I suoi amici sanno, dalle ammissioni che a volte compaiono, si potrebbe dire traspaiono, nei suoi scritti, dalle confessioni sommesse fatte a mezza voce, quanto strazio questa scelta gli sia costata: al suo appello rispondevano giovani e giovanissimi tanti dei quali andavano incontro a un destino ben più atroce della morte in combattimento, al suo comando italiani combattevano non soltanto contro l'invasore, ma anche contro italiani. Più volte il dubbio lo attanagliò, ogni volta lo respinse, in solitudine.Incarnazione dell'eroe mazziniano, simbolo di una unità nazionale accolta non come formula politica, ma come risposta storica a un imperativo etico, egli apparve, perciò, anche agli uomini, assai distanti tra loro che allora gli furono vicini, a Luigi Longo e a Edgardo Sogno.Confermato dai documenti e dalle testimonianze, emerge dagli studi dedicati alla Resistenza giellista l'articolato quadro di un movimento organizzato e diretto da un partito di freschissima costituzione e che pure è il solo in grado di emulare il partito comunista sul terreno militare per efficienza e audacia, di contendergli l'egemonia su quello etico-politico.Va riconosciuto che a questo concorrono fattori di non secondaria importanza. Le formazioni GL costituiscono il nucleo più numeroso, più combattivo e più compatto della Resistenza non comunista e c'è chi ipotizza il loro concorso al fine di fronteggiare i comunisti qualora essi scendessero su terreno rivoluzionario. Questo consente a GL di accogliere nelle proprie file uomini che appartengono ai ceti dirigenti inseriti in una rete di efficienti e efficaci solidarietà, quadri militari professionali - il comandante della mia divisione e infine di tutta la zona Valtellina-Lario era un tenente colonnello dei carabinieri, Edoardo Alessi, dichiaratamente monarchico, caduto in combattimento alla immediata vigilia della Liberazione - e di godere dei lanci di armi e viveri da parte degli Alleati, generalmente negati alle formazioni comuniste.Ma questo non basta a spiegare il fenomeno. La Resistenza giellista non ha una dottrina che la cementi, non ha una ideologia radicata nelle masse ma è nel suo quadro dirigente pervasa da valori etico-politici di respiro universale, che superano i limiti del patriottismo tradizionale e le angustie di un acerbo classismo, che non hanno bisogno di propagande per risultar veri perché si saldano a esperienze e speranze di tutto un popolo, ne esprimono le aspirazioni massicciamente diffuse alla pace, alla libertà, alla giustizia, alla restaurazione della dignità nazionale, alla conquista di una solidarietà permanente tra tutti i popoli d'Europa. Sotto la stessa bandiera, nella breve stagione il cui autunno comincia già il 25 aprile, possono così militare accademici di altissima levatura di fede liberale come Adolfo Omodeo e Guido De Ruggero e rivoluzionari professionali come Leo Valiani, per lunghi anni comunista, passato per la galera, per la guerra di Spagna, per il campo del Vernet, moderni illuministi, aperti alle più audaci riforme - si troveranno parecchi di essi intorno al Mondo di Mario Pannunzio e intellettuali inquieti come Riccardo Lombardi, proveniente dalla estrema sinistra cattolica, vicino nella cospirazione ai comunisti, approdato a un suo originale socialismo, democratico e autonomistico e federalisti come Altiero Spinelli che conserva nella forma mentis e nel temperamento i tratti del leninista che era stato...Sono qui le ragioni della forza e della debolezza del Partito d'Azione, un partito d'eccezione per tempi di eccezione. Protagonista nella guerra di liberazione, esso va infatti in frantumi a un anno dalla insurrezione, dopo aver dato all'Italia liberata il primo presidente del consiglio. La sparuta pattuglia dei suoi eletti alla Costituente riuscirà ancora, tuttavia, a dare un contributo di straordinaria importanza alla elaborazione della carta costituzionale e valga per tutti il nome di Piero Calamandrei, che della costituzione fu tra i maggiori artefici nell'aula di Montecitorio, il più strenuo difensore dei suoi dettami nella battaglia politica e parlamentare, il più appassionato divulgatore dei suoi principi nel paese.La sconfitta del governo Parri è un momento della più vasta sconfitta delle avanguardie della Resistenza europea, è il trionfo del realismo politico delle grandi potenze e delle grandi formazioni politiche che ad esse ideologicamente e politicamente fanno capo, quel realismo che regalerà al mondo l'equilibrio della guerra fredda e delle contrapposizioni frontali che spaccano la Resistenza all'interno dei maggiori paesi europei, in prima linea Italia e Francia.Il disegno di Parri della rigenerazione nazionale nel segno di una rivoluzione democratica si scontra col composito fronte della conservazione, sulla quale grava l'ipoteca della destra monarchica, clericale, neo-fascista, massicciamente presente nel paese. Non avrà dalla sua parte le forze della sinistra, egemonizzata e diretta da un partito comunista inserito senza riserve in una strategia che ha a Mosca il suo centro e sulla quale minima, se non pari a zero, è la sua capacità di intervento. La ricostruzione sarà perciò anche restaurazione. L'integrazione europea, nel cui quadro Parri collocava il suo disegno, partirˆ tardivamente e prenderˆ le mosse da tutt'altri impulsi.Il Partito d'Azione - è la ragione della sua debolezza - non può in queste circostanze sopravvivere senza snaturare se stesso. E così esso si scioglie in un congresso composto e commosso, in un clima di reciproca rispettosa comprensione degli elementi di contraddittorietà che ciascuna scelta ha in sè. Non ci saranno strascichi penosi di risentimenti settari.Il Partito d'Azione si dissolve, non si dissolve l'ethos politico che esso ha incarnato e che ha costituito nella fase più tragica della storia d'Italia il suo elemento di forza. Non è un'espressione libresca e tanto meno retorica, non è uno scolastico ritorno alla metodologia crociana. Nei grandi momenti storici, quando necessariamente intensa è la partecipazione collettiva agli eventi, quando le idee dei pionieri e dei martiri trovano conferme nei fatti, sorgono e prendono consistenza movimenti dove fermenti nuovi si concentrano, maturano, esprimono aspirazioni largamente diffuse, che si compongono in principi e valori, che generano culture, che ispirano norme etiche.Nell'ambito della Resistenza la tradizione giellista diventa il luogo nel quale questo fenomeno più compiutamene si esprime, perché non gravato, come accade ai socialisti, da ideologie ereditate, con tutto quello di positivo ma anche di negativo che questo comporta, perché non vincolato, come accade ai comunisti, dalla ferrea disciplina che li lega, ideologicamente e sentimentalmente, oltre che politicamente al partito-guida e allo stato-guida e li fa strumenti di una strategia internazionale il cui centro sta fuori e sopra di loro. E' per questo che l'antifascismo si costituisce in autonomo sistema di principi e di valori intorno al nucleo ideale della tradizione azionista, intesa in senso lato, che ingloba in sè il filone di moderno socialismo che va da Matteotti, l'eroe di Rosselli, a Colorni, che l'azionista Norberto Bobbio ha immesso nel circolo della cultura filosofica e politica. E' questa la linea di discrimine nei confronti dell'antifascismo comunista: le conquiste di libertà e di giustizia non passano per la dittatura del proletariato; l'internazionalismo non è obbedienza passiva al partito-guida e al suo infallibile capo, è innanzi tutto europeismo e non ha bisogno di uno stato-guida, il rapporto tra cultura e politica è dialettico scambio che non ammette dogmi e non tollera direttive burocratiche di gerarchie partitiche.A questo dato sono riconducibili certi tratti che caratterizzano i comportamenti politici della diaspora azionista, al di là della diversità delle scelte dei singoli militanti e dei gruppi.Parri vota per l'adesione dell'Italia al Patto Atlantico, consapevolmente andando incontro alla condanna, per lui dolorosa, della Resistenza social-comunista, rompe l'unità della organizzazione partigiana e fonda la FIAP, in contrapposizione all'ANPI per sottrarre al controllo del comunismo di osservanza staliniana la tradizione antifascista e resistenziale e preservarne così, come di fatto è avvenuto, il potenziale unitario.Riccardo Lombardi, di fresco entrato nel partito socialista, si cimenta, con l'appoggio di Alberto Jacometti, nella temeraria impresa di rovesciarne la maggioranza frontista, sull'onda della volontà di riscossa autonomista dopo la sconfitta del 18 aprile. Fu un successo effimero, che pagò con anni di isolamento: aveva avuto il torto di aver ragione prima del tempo.Codignola e Calamandrei scelgono il versante socialdemocratico, trattati, diceva Codignola, come meteci, gli stranieri nell'antica Grecia ai quali veniva riconosciuta una cittadinanza dimezzata, la libertà ma non i diritti politici. Il Ponte, la rivista fondata da Calamandrei, al suo fianco Enzo Enriques Agnoletti, Codignola editore, è la sola rivista italiana di cultura politica che ha respiro europeo, che si sottrae alla egemonia comunista e la contrasta con successo, che non fa dell'anticomunismo una ideologia, che difende, con armi manovrate da un maestro del diritto dell'altezza di Piero Calamandrei, tutte le libertà dall'offensiva preannunciata da Mario Scelba contro il 'culturame' democratico, laico e protestantico, in nome di un clericalismo rozzo e provinciale, esaltato dal voto del 18 aprile.Bobbio impegna coi comunisti un serrato dibattito, aperto allo scambio, ma rigidamente intransigente nell'avversione alle dottrine e alle pratiche dello stalinismo, immette autorevolmente nella cultura politica di sinistra autori che socialisti e comunisti avevano ignorati, come Rodolfo Mondolfo e Colorni.Parri, tenace e infaticabile, facendo appello innanzi tutto a storici, come egli diceva, senza galloni, fonda l'Istituto per la storia del movimento di Liberazione, costruisce la rete degli Istituti di storia della Resistenza. Nella sua memoria era vivo il ricordo - fu lui a parlarmene - dell'apporto che avevano dato le Società di Storia Patria alla creazione e alla diffusione del mito che Benedetto Croce definì 'l'epopea sabaudo-garibaldina' e al consolidamento, su di esso, del consenso alla monarchia liberale. Con i suoi Istituti, Parri volle e seppe superare di gran lunga il modello, per rigore di metodo, per efficienza organizzativa, per impegno civile, sottraendo il patrimonio etico-politico della Resistenza a strumentalizzazioni di parte, facendone al tempo stesso, senza forzature, strumenti di enorme importanza ai fini della motivazione storica del mito della Resistenza quale 'secondo Risorgimento' e della formula della Costituzione come 'nata dalla Resistenza'. Con gli scritti, con i discorsi, con le epigrafi, Calamandrei si fa il grande propagandista di queste idee, il poeta in prosa: quel che fu Carducci, ha notato Aldo Garosci, per il Risorgimento.Parlare degli azionisti dopo la fine del loro partito come degli 'utili idioti' del comunismo staliniano è offesa che si reca non a loro ma alla verità della storia.Quel che c'è di vero è che anche negli inverni più rigidi della guerra fredda la loro opposizione al comunismo non concede mai nulla allo spirito di crociata dell'anticomunismo professionale.C'è, certamente, tra le componenti di questo atteggiamento un sentimento di solidarietà combattentistica nato e alimentato dalla conoscenza diretta dell'eroismo di cui i comunisti hanno dato prova nella Resistenza. Prevalente e determinante è però la convinzione che il problema di fondo di cui la Resistenza ha posto le premesse, ma non ha risolto, quello ereditato dal Risorgimento di una rigenerazione d'Italia nel segno della democrazia, esige l'apporto attivo delle forze che il comunismo rappresenta, esige l'innesto nel patrimonio etico-politico della nazione, a conclusione di un processo di revisione, di depurazione, di decantazione, dell'apporto di idee, di valori, di sacrifici, della tradizione comunista italiana, da Gramsci ai fratelli Cervi.La storia della diaspora azionista è assai frastagliata. E' storia difficile da ricostruire, di gruppi non più collegati tra loro se non da relazioni personali, di personaggi che scelgono collocazioni politiche diverse o che abbandonano la politica militante: li ritroviamo questi - e spesso vi eccellono per capacità e per rigore - nelle università, nelle professioni, nella magistratura, tra i pochi grands commis degni di questo titolo: ultimo esempio Carlo Azeglio Ciampi. Ma è una presenza che non viene mai meno e che riemerge nei momenti difficili lungo una linea di continuità che non si può attribuire al caso.Nel '53 la pattuglia che aveva trovato ospitalità nella socialdemocrazia ne esce per ingaggiar dura battaglia - chiedo scusa ai politologi e ai politici che hanno scoperto le virtù del sistema maggioritario - contro la legge elettorale passata alla storia come legge-truffa - e qui chiedo scusa agli ideatori di essa, che furono mossi da una ragion politica i cui moventi erano contestabili ma non truffaldini. Intorno a Tristano Codignola che promosse l'operazione e a Ferruccio Parri si radunò, col concorso di molti giovani, la diaspora azionista, ne nacque il movimento di 'Unità Popolare' col preciso e dichiarato intento di impedire lo scatto della legge, in obbedienza a una questione di principio: il rispetto della volontà popolare quale espressa dalle urne, a una ragione politica opposta a quella della maggioranza: evitare che si approfondisse il solco che aveva diviso il paese nel 1948 e che si rinsaldasse la catena dell'assedio intorno alla sinistra frontista. E quel gruppo dette un contributo quantitativamente modesto ma elettoralmente determinante ai fini del rigetto della legge, stimolò la svolta autonomista del Partito Socialista nel quale il movimento confluì dopo il congresso di Venezia. Riccardo Lombardi ebbe al suo fianco non pochi di essi nel corso del dibattito politico e nel lavoro di elaborazione programmatica che sfociò in quel centro-sinistra che oggi appare come circonfuso di un alone da ottobre rosso rispetto al centro-sinistra che saremo chiamati a votare.Fu l'antifascismo azionista - è un punto questo che meriterebbe un'attenta e metodologicamente difficile ricerca - che dette una sua forte impronta a quella operazione di immissione tra le masse della tradizione antifascista e di saldatura tra due generazioni, che ebbe il suo momento di maggiore intensità nel '60, nella lotta contro il governo Tambroni. L'ideologia resistenziale comunista strumentalmente intrisa di elementi contraddittori tenuti insieme dalla 'boria di partito' ne ebbe la spinta a un processo di decantazione, cui dialetticamente contribuirono anche le contestazioni di sinistra, di cui Parri non condivise le ragioni ma intese e difese la ragion d'essere.La crisi del centro-sinistra - di cui fui quale direttore dell'Avanti! leale sostenitore e non me ne pento - su uno sfondo che oggi appare assai più torbido e minaccioso di quanto allora si potesse intuire, ripropone in termini politici e non più etico-politici, il problema del rapporto coi comunisti. Gli uomini dell'azionismo sono in prima fila.Nel partito socialista Riccardo Lombardi organizza la sua corrente di opposizione nel segno dell'alternativa, a coronamento di una riorganizzazione unitaria della sinistra. A conclusioni non dissimili giungerà, a suo tempo, anche Francesco De Martino, capo della maggioranza, segretario del partito, che del centro-sinistra aveva fatto diretta esperienza quale vice-presidente del consiglio e che giocherà coraggiosamente e consapevolmente le sue fortune politiche sulla formula degli 'equilibri più avanzati', del coinvolgimento comunista nella direzione politica del paese.L'episodio di maggior rilievo, in questa nuova fase, è legato, ancora una volta, al nome di Ferruccio Parri.Egli era stato il primo a prendere le distanze dalla politica nenniana per passare alla opposizione aperta al centro-sinistra. Infaticabile e tenace come sempre - 'la mia sola qualità è la testardaggine', egli diceva - Parri tesse la sua rete, lancia un appello alle forze disperse dell'antifascismo, fonda una rivista, L'Astrolabio, dà vita alla Sinistra Indipendente. L'interlocutore è Enrico Berlinguer. I suoi candidati sono eletti nelle liste del partito comunista che accetta un consistente sacrificio della propria rappresentanza parlamentare, accompagnandolo al riconoscimento formale e sostanziale dell'autonomia politica della nuova formazione.La storia della Sinistra Indipendente e dei suoi rapporti col Partito Comunista è ancora da scrivere, nei suoi aspetti di collaborazione politica e in quelli, meno visibili, di compenetrazione delle idee.Ma non c'è bisogno di ricerche per cogliere l'importanza che a questo processo si collega anche l'azionista Altiero Spinelli, l'uomo di Ventotene, confluito dopo lunga odissea - Ulisse era il suo eroe - nelle file della Sinistra Indipendente. Con la baldanza velata dalla ironia che lo distingueva, ma che in questo caso non era ingiustificata, egli spiegò la sua scelta dicendo che erano stati i comunisti ad andare a lui e non lui ai comunisti. Il suo vanto era quello di aver convertito all'europeismo prima De Gasperi, poi Nenni, infine Berlinguer. I tramiti per l'ultima conquista erano stati Giorgio Amendola e Umberto Terracini. E in realtà è da lui che viene l'ultima spinta al processo di nazionalizzazione del partito comunista, questa volta per la via maestra della sua europeizzazione. Sarà lui ad accreditarlo e a legittimarlo in sede europea, promuovendo e guidando nel parlamento di Straburgo la grande battaglia per l'unione politica d'Europa, facendo approvare, col voto di una maggioranza da lui costruita pezzo per pezzo, con tutti gli strumenti disponibili, un progetto di trattato in grado di dare sbocco politicamente e tecnicamente adeguato ad una necessità storica e ridotto poi dai governi d'Europa al rachitico e asfittico mostriciattolo di Maastricht.La scomparsa di Berlinguer, cui segue a breve distanza quella di Spinelli, la defenestrazione di Natta segnano l'inizio del malinconico declino dell'ultimo tentativo di Parri.Il nuovo gruppo dirigente del partito comunista in via di metamorfosi, con l'autolesionismo proprio degli ignari e degli ignavi, procede alla liquidazione di una eredità troppo pesante per le sue gracili spalle. La formazione creata da Parri finisce nella fossa comune, senza neanche l'onore di un necrologio.L'operazione si colloca nel quadro del reganismo e del tatcherismo trionfanti e della offensiva ideologica ideata da Bettino Craxi e condotta con grande rozzezza culturale ma con superiore intelligenza tattica.Craxi precorre Occhetto, nella cancellazione della tradizione azionista, isolando in un vigilato ghetto De Martino e Lombardi, espellendo Codignola e Enriques Agnoletti, provocando il distacco dal suo partito di Vittorio Foa e di chi vi parla, epurando la storia del partito socialista, fino a oscurare Turati sotto la grande ombra di Garibaldi: il tutto nel segno di un anticomunismo postumo che sembrava non avere più alcun senso nel momento in cui i motivi della insidia comunista alla democrazia e della minaccia sovietica al mondo libero erano ormai venuti a mancare. In realtà, l'obiettivo perseguito e conseguito è quello di dare motivazione ideologica al passaggio dalla repubblica nata dalla Resistenza a quella che ha ancora i tratti di un identikit confuso e incompiuto, vagamente minaccioso.Il ciclo storico apertosi con la prima guerra mondiale si è chiuso, alla storia appartiene ormai il problema di una storia d'Italia da correggere, di un nuovo Risorgimento da conquistare che fu il denominatore comune dell'interventismo, di quello nazionalistico, di quello democratico, di quello rivoluzionario. La storia non risolve i problemi, ma neanche li seppellisce e il circolo dialettico che essa perennemente instaura con la politica è inesauribile. Rosselli e Parri fanno rivivere nella nazione l'eredità di Mazzini. Tra i giovani di oggi ci sono quelli che intendono restituire vitalità e vigore ai valori dei quali Rosselli e Parri ci sono stati maestri, che, come loro, per battersi non hanno bisogno della sicurezza di vincere.Credere nel successo è un atto di fede. Risponde invece a una mia convinzione politica profonda quella che, ove la tradizione di Matteotti e di Rosselli fosse cancellata, avremmo una nuova barbarie, forse non sanguinaria, ma capace, forse, con più forte radicalità del fascismo, di offendere e calpestare la dignità umana.Ogni processo storico contiene in sè sbocchi tendenzialmente diversi, ed è certo che il solo modo per rendere irrimediabile una sconfitta è quello di non dare battaglia, fingendo di non accorgersi o addirittura non accorgendosi, come sta accadendo oggi alle rappresentanze ufficiali della sinistra italiana, che una battaglia sia in corso.Noi non siamo tra questi.In questo spirito ho rievocato, soprattutto per i giovani, una storia della quale sono stato partecipe e che si configura, nella mia non più giovane fantasia, come una saga i cui eroi battono strade diverse, incontrano avventure che rendono a volte assai lunghe le distanze tra loro, ma che tutti restano fedeli al motto cui questa saga si intitola: Giustizia e Libertà.Ho scritto all'inizio che non avrei parlato in veste di storico ma di attore, tra gli ultimi in ordine di tempo e di importanza, di una nobile storia. E così è stato.

domenica 23 marzo 2008

Buona Pasqua.

Trova il tempo..
Trova il tempo di pensare
Trova il tempo di pregare
Trova il tempo di ridere
È la fonte del potere
È il più grande potere sulla Terra
È la musica dell'anima.
Trova il tempo per giocare
Trova il tempo per amare ed essere amato
Trova il tempo di dare
È il segreto dell'eterna giovinezza
È il privilegio dato da Dio
La giornata è troppo corta per essere egoisti.
Trova il tempo di leggere
Trova il tempo di essere amico
Trova il tempo di lavorare
E' la fonte della saggezza
E' la strada della felicità
E' il prezzo del successo.
Trova il tempo di fare la carità
E' la chiave del Paradiso.
(Iscrizione trovata sul muro della Casa dei Bambini di Calcutta.)

Ama
Ama finché’ non ti fa male,
e se ti fa male,
proprio per questo sarà’ meglio.
Perché’ lamentarsi?
Se accetti la sofferenza e la offri a Dio,
ti darà’ gioia.
La sofferenza e’ un grande dono di Dio:
chi l’accoglie,
chi ama con tutto il cuore,
chi offre se stesso ne conosce il valore.

Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe,
i capelli diventano bianchi,
i giorni si trasformano in anni.
Però ciò che é importante non cambia;
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito e` la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di arrivo c`e` una linea di partenza.
Dietro ogni successo c`e` un`altra delusione.
Fino a quando sei viva, sentiti viva.
Se ti manca ciò` che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite…
insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arrugginisca il ferro che c`e` in te.
Fai in modo che invece che compassione,
ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni non potrai correre,
cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce,
cammina.
Quando non potrai camminare,
usa il bastone.
Pero` non trattenerti mai!