giovedì 5 giugno 2008

Emigrazione di ieri e di oggi.

di Roberto Torretta (sito web: Montessoro Web )immagine gentilmente fornita dal sito EllisIsland.com
Le storie d'immigrati che giornalmente ci appaiono in televisione e sulla stampa mi riportano ai racconti di mio nonno che era nato al Piazzo (Isola del Cantone) nel 1880 ed emigrò in California agli inizi del 1900.In cento anni, dal 1876 al 1976 circa, emigrarono 27 milioni di italiani; i nostri avi sono stati costretti ad emigrare verso i paesi più ricchi poichè da noi si moriva letteralmente di fame. Nel 1903 l'età media in Italia era di 25 anni. Tra il 1891 e il 1900 su 759.000 morti, 333.000 avevano meno di 5 anni.

Laceri, sporchi e analfabeti, erano imbarcati nelle stive stracolme di altri disperati provenienti dalle nazioni povere dell'Europa: Turchia, Grecia, Polonia ecc. Spesso non sapevano nemmeno dove la nave li avrebbe portati. Sbarcavano in paesi dove la gente non li aspettava di certo a braccia aperte. La maggior parte finiva per vagabondare e si dava all'accattonaggio, altri finivano nella malavita organizzata; i più furbi vivevano di espedienti, i più onesti venivano sfruttati da datori di lavoro senza scrupoli.
Inizierò riportando alcune notizie riguardanti quegli emigranti che una volta giunti negli Stati Uniti volevano raggiungere la mitica California.
Pensando a questo lungo viaggio la prima cosa che ci viene in mente è quella delle lunghe carovane di pionieri che si spingevano sui pericolosi sentieri del Far West. Ciò non è però del tutto vero perché questa consueta immagine c'è stata inculcata dai mitici film western che abbiamo visto al cinema. Forse non tutti sanno che dal 1850 tanti emigranti per poter raggiungere la costa del Pacifico non viaggiavano via terra ma via mare.
Nel 1848, quando in California fu scoperto l'oro e vi fu la famosa corsa verso l'Ovest, per attraversare gli Stati Uniti l'unica via era la "California Trail", una pista lunga 3000 chilometri, e per arrivare a destinazione, se si arrivava, occorrevano anni. Una seconda alternativa, che molti sfruttavano, era quella di andare via mare passando per il Capo Horn ed impiegando 160 giorni; successivamente con i più veloci "cutter" ci volevano 60 giorni. A quell'epoca non c'erano altre scelte anche perché la costruzione della prima ferrovia New York - San Francisco iniziò soltanto nel 1862 ed i lavori furono ultimati nel 1869.
Una geniale idea venne allora al finanziere ed armatore americano Cornelius Vanderbilt il quale pensò di allestire una linea di traghetti da New York al Nicaragua e San Francisco.Bisogna sapere che in questo Stato del Centro America esiste un sistema naturale di vie navigabili che permette di passare dall'Oceano Atlantico al Pacifico senza la costruzione di canali artificiali; in questo modo i velieri di Vanderbilt partendo da New York attraversavano il Golfo del Messico e toccando la costa del Nicaragua a San Juan del Norte, risalivano il Rio San Juan che è navigabile e raggiungevano il Lago Nicaragua. Sulla costa occidentale di questo grande lago gli emigranti venivano fatti sbarcare e con vari mezzi attraversavano i 20 chilometri di giungla che separavano il lago dal porto di San Juan del Sur sul Pacifico. Da qui venivano imbarcati su un altro battello che li trasportava a San Francisco in California. Sembra addirittura che Mr. Vanderbilt, con l'appoggio degli Stati Uniti coltivasse un progetto per costruire nel tratto di terraferma un canale navigabile ma nel 1850 in base al trattato Clayton-Bulswer, l'Inghilterra non concesse l' esecuzione di tali lavori, un vero peccato se si pensa che il Canale di Panama venne aperto soltanto nel 1917.
In quegli anni il viaggio New York/San Juan del Norte durava 7 giorni mentre da San Juan del Sur a San Francisco ne occorrevano 17: in totale erano 24 giorni.
In quel periodo, comunque, oltre alla via del Nicaragua gli emigranti potevano raggiungere il Pacifico anche attraverso Panama (porto di Aspinwall), che come abbiamo visto non aveva ancora il canale, ma una ferrovia ultimata nel 1855, collegava le sponde dei due oceani. In questo caso però occorrevano 35 giorni.
L'armatore americano ebbe senz'altro una grande idea che gli fruttò molti di soldi ma allo stesso tempo permise ai viaggiatori di risparmiare anni di fatiche e sofferenze sulle piste del West. Si pensi che in quel periodo da Genova a New York ci volevano 57 giorni di navigazione e altri 24 per raggiungere San Francisco; con soli 81 giorni si andava dall'Italia alla California.
Voglio raccontare qui di seguito la storia di mio nonno che emigrò negli Stati Uniti agli inizi del 1900. Più che di storia si tratta di vere e proprie disavventure che, per la maggior parte dei casi, si ripetono anche oggi nel nostro paese e nelle altre nazioni più industrializzate.Allora come adesso chi emigra, se è una persona onesta, è spinto da necessità economiche mentre a casa sua c'è miseria e fame. Spesso sono i parenti e gli amici partiti prima di lui a convincerlo ad andare, ma come fa se non ha un soldo? Allora come adesso, egli venderà quel poco che ha o si farà prestare del denaro da qualcuno, sperando poi di restituirlo. Emerge però subito il lato vergognoso della faccenda. Su questi disperati si avventano subito gli speculatori che, approfittando del loro stato d'indigenza ed ignoranza, li spingono ad indebitarsi per poter partire. Adesso come allora non viene detto che occorrono visti, permessi di soggiorno, che è difficile inserirsi e trovare un lavoro onesto, essi vengono dissanguati e mandati allo sbaraglio.
Senz'altro nel nostro paese ci sono tanti immigrati che si danno alla malavita ma molti altri sono persone oneste che troppo spesso vengono illuse e sfruttate.
Mio nonno emigrò la prima volta nel 1904 ed aveva 24 anni.A quei tempi in ogni comune esisteva un "mediatore" o "sensale" di una compagnia di navigazione e spesso era il titolare dell'osteria del paese, il posto più idoneo dove propagandare i facili guadagni in America. Mi immagino il locale gremito di contadini il giorno di festa, un loquace e smaliziato imbonitore offrire da bere a quei poveri analfabeti decantando le fortune e le ricchezze facilmente reperibili oltre Oceano e... prezzi stracciati per il viaggio.
Quando mio nonno e i suoi compagni decisero di partire non sapevano nemmeno se sarebbero andati nel Nord o nel Sud America o tanto meno dove fossero; gli fu detto che andavano in America e basta. Erano una decina, chi di Montessoro, chi di Piazzo e Casissa; un giorno di Aprile presero il treno e furono condotti a Le Havre, in Francia.Nell'Ottocento quasi tutti gli emigranti partivano da questo porto perché solo da lì esistevano linee dirette per New York e di conseguenza i prezzi erano più economici. Il viaggio con partenza da Genova era più lungo perchè si toccavano molti altri scali.
Il costo del passaggio era di circa 360 lire e a volte comprendeva anche un accompagnatore che attraverso la Svizzera li conduceva al porto francese.
La sera precedente la partenza la passarono all'osteria a bere e fare allegria, poi a notte inoltrata partirono con i loro miseri fagotti e raggiunsero Isola che ancora non faceva giorno.
Chissà quali pensieri passarono per la mente di mio nonno, quando dal treno vide le sue montagne per l'ultima volta...
All'imbarco sulla nave "La Touraine" gli emigranti erano divisi, uomini da una parte donne e bambini dall'altra, poi venivano sistemati in terza classe nei fondi della nave. Per tutta la traversata essi non potevano uscire ne salire sui ponti che erano riservati a passeggeri più abbienti. La prima traversata dell'Oceano per quei poveri montanari fu terribile; il mare in tempesta faceva scricchiolare il fasciame e si rischiò il naufragio, la gente vomitava e la puzza era insopportabile, molti furono presi dal panico e disperavano di arrivare a destinazione. La nave comunque riuscì ad attraccare a New York l'1 maggio 1904.
Una volta arrivati gli emigranti venivano condotti al Castle Garden; questa era la sede dell'ufficio immigrazione degli Stati Uniti, esso si trovava sulla punta di Manhattan, a Battery, successivamente, essendo ormai inadatta per poter ospitare i grandi flussi migratori l'ufficio venne spostato a Hellis Island, un isolotto nella baia di New York vicino alla statua della Libertà.Qui essi erano sottoposti a visita medica e controllo dei documenti; la visita era sommaria, si controllavano gli occhi, si verificava che si fosse sani di mente. Gli uomini oltre i 45 anni venivano respinti in quanto troppo vecchi e poco adatti come "forza lavoro"; si controllava anche che non si fosse anarchici, che si avesse un lavoro ed un recapito. Agli idonei veniva fatta una croce sulla schiena con il gesso. Quando venne il turno dei nostri montanari l'ufficiale addetto ai controlli chiese se avevano una richiesta di lavoro o qualche parente che li aspettasse, ma ignari di tutto ciò, venne detto loro che sarebbero stati rimpatriati con il primo vapore per l'Italia.Vi potete immaginare in quale stato d'animo si sentissero, dopo tanti sacrifici essi rischiavano di veder vanificate tutte le loro speranze. La giornata passò fra disperazione e pianti quando verso sera si presentò all'ufficio immigrazione un italo-americano il quale disse che avrebbe provveduto lui stesso a quei disperati. La malavita si era messa in moto, gli italiani che già vivevano a New York si erano organizzati nello sfruttare queste situazioni speculando sui nuovi arrivati. A questi disgraziati veniva offerto un tugurio ed un lavoro in cambio di una tangente o spesso erano inviati lontano, affittati ad altri malavitosi.L'individuo che salvò in nostri si fece consegnare una discreta somma, li portò alla stazione, infilò nella falda del cappello un biglietto ferroviario e li spedì in California.
Avrei voluto vedere le loro facce smarrite mentre passavano tra il traffico ed i grattacieli di New York, loro che forse non erano nemmeno mai stati a Genova.Il grande treno piano piano si mise in moto e cominciò ad ingoiare pianure e città. I nostri amici adesso erano un po' più sollevati ma nessuno li accompagnava, sapevano solo che sarebbero andati in California a raccogliere la frutta, all'arrivo qualcuno li avrebbe prelevati.
Il viaggio era lungo, da New York a San Francisco occorrevano otto giorni. Poveri montanari, non erano mai usciti dal loro paese ed adesso si trovavano ad attraversare le grandi pianure, le Montagne Rocciose, i Canyons.
Nessuno parlava inglese e forse pochi si esprimevano in italiano. Il treno sbuffando macinava chilometri e chilometri, ogni tanto passava nei corridoi un negro vestito di bianco (un cameriere o uno stewart) che diceva "breackfast, breackfast..." avvisando che si poteva scendere dal treno per poter fare colazione; datosi però che i nostri non capivano nulla non scendevano per il timore di rimanere a terra. La cosa andò avanti per alcuni giorni, fin quando, presi dai morsi della fame ad una stazione uno di loro scese per comprare un po' di pane ma, prima che questi si fosse fatto capire, il treno si rimise in marcia. Per fortuna il capotreno, allertato dalle urla, tirò una cordicella e fermò il treno per recuperare il malcapitato!
Dopo otto giorni giunsero a Sacramento, già qualcuno li aspettava e li condusse ad una grande fattoria dove insieme a centinaia di persone vennero mandati a raccogliere frutta e verdura. Tante ore di lavoro, pochi soldi e tanta fame. Una volta si rifiutarono di lavorare perché da giorni non gli veniva distribuito nemmeno un po' di pane.
In queste immense piantagioni vi erano persone provenienti da tutto il mondo; mio nonno raccontava che c'erano tantissimi cinesi e che quando parlavano sembravano tanti uccellini cinguettanti.
Quando nel 1906 il terremoto distrusse San Francisco egli si trovava alla periferia della città e con i compagni si rifugiò sulle montagne, dove trovarono lavoro come taglialegna. Dormivano in una tenda ma avevano paura degli indiani e ogni rumore li teneva svegli.
Mio nonno stette in California circa quattro anni, lavorò a Sacramento, Stockton, San Francisco, Reno Nevada ma di soldi ne fece ben pochi. Come spesso accade ad arricchirsi erano i più furbi ed i disonesti.
Tornato a casa nel 1908 nel 1909 prese moglie, nel 1910 nacque mio padre. Nel 1912 arrivò un secondo figlio; in quell' anno, non si sa per quale motivo ma probabilmente per la vita precaria che si conduceva sui nostri monti, lasciò mia nonna con i due figli piccolini e decise di ritentare la fortuna, ancora alla volta della California.
Con l'esperienza acquisita durante il primo viaggio trovò la vita un pochino più facile e con altri paesani lavorò a San Francisco con un'impresa per la raccolta dei rifiuti. Si deve sapere che già da quando nel 1906 il terremoto distrusse la città, molti liguri ebbero il permesso di raccogliere e riciclare il materiale di un certo valore, dopodichè, vedendo che nessuno raccoglieva la spazzatura alla porta delle case, lo fecero loro e con dei carri a cavallo la depositavano nelle fenditure provocate dal sisma. Questi uomini erano chiamati "scavengers", poi con gli anni ebbero l'esclusiva di questo lavoro e fondarono la "Pacific Scavengers Company".
Un divertente ma inquietante aneddoto viene raccontato dall'ex giudice federale John Molinari che dice: "Cinquant'anni fa mio padre Giovanni che nel 1906 era uno "scavenger", prese una mappa della città e indicando diversi punti mi disse di non comprare mai casa in detti luoghi. Subito non capii, ma quando nel 1989 un secondo terremoto colpì la città, le rovine più gravi avvennero proprio in quei punti dove loro avevano depositato i rifiuti".
Il lavoro era duro ma dopo qualche anno i frutti cominciarono a vedersi. Nel 1914 il nonno scrisse a casa chiedendo alla moglie di raggiungerlo; ma lei impaurita dal lungo viaggio da intraprendere con due bambini piccoli, rispose negativamente. Pur sapendo dell'imminente scoppio della guerra egli rientrò in Italia. Nel 1915 gli nacque un altro figlio e subito dopo venne spedito sul Carso; ritornerà nel 1918. Mia nonna rimase complessivamente sola con i figli per otto anni.
Ancora oggi nei nostri paesi vengono usate delle parole ormai corrotte che vennero introdotte dagli emigranti rientrati.
Per indicare un poco di buono si usa dire: "O l'è un trampa" (da tramp = vagabondo), oppure "O l'è un "sanebabicciu" (da "son of a bitch" = figlio di una cagna ).Poca per Poker. Trac per Truck. Cino per Cinese. Indio per Indiano. Rancio per Ranch.


Bibliografia
La fatica e la Merica - M. Porcella
Il mondo dei vinti - N. Revelli
"Sette" rivista de "La Repubblica" del 09.10.2003 - "Ieri noi oggi loro" - M. Moretti
Rivista "Qui Touring" luglio-agosto 2001
"Il Secolo XIX" del giorno 16.01.2002 - "Ma i liguri non partivano né poveri né disperati" - L. Compagnino
"Il Secolo XIX" del giorno 26.11.2002 - "Quando i poveri eravamo noi" - A. Gibelli
"Il Secolo XIX" del giorno 22.08.2001 - "Ramazza e cioccolato" - G. Mari
La Casana "Con i liguri in California" - Ida Figone Filippetti
Enciclopedia "Il Milione" - Nicaragua
Enciclopedia GE20
La via delle Americhe - Fondo Regionale C. Colombo - Centro Ligure di Storia sociale
Sito internet "The Statue of Liberty-Ellis Island Foundation"

lunedì 19 maggio 2008

La conversazione.

di Angela Molteni
“Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?” Pier Paolo Pasolini,
L’altra sera non mi andava di ascoltare la radio, mia compagna abituale, anche se RaiTre trasmetteva un concerto jazz niente male. Preferii dunque mettere nel lettore di Cd la Matthäus-Passion di Bach. Non era neppure terminato il doppio coro iniziale - quello che state ascoltando anche ora (Kommt ihr Töchter, helf mir klagen!) - quando la porta-finestra che dà sul terrazzo si spalancò improvvisamente soffiandomi addosso aria gelida. Da un paio di giorni Milano era spazzata da un vento inusuale e parecchio fastidioso, anche se ero consapevole di come un evento simile costituisse un autentico toccasana per disperdere lo smog perennemente stagnante sulla mia sfortunata città.
Stavo per avviarmi a chiudere quella improvvisa fonte di gelo pungente, quando una leggerissima pressione sulle spalle mi arrestò. Risuonò, leggera e pacata, una voce dalla grazia inconfondibile: «Ho saputo che avresti voluto chiedermi qualcosa… Dunque, eccomi: domanda, esplora, approfondisci… Purché anche tu, come quasi tutti nell’anno del famoso trentennale, non intenda esclusivamente indagare sulle pieghe, più o meno ignote, di quel 2 novembre a Ostia, pretendendo di conoscere da me, fi-nal-men-te, la verità. Purché tu eviti accuratamente, dunque, di squadernare le solite ipotesi: un complotto, un’ultima sceneggiatura interpretata da me medesimo, un sordido delitto commesso negli ambienti della prostituzione omosessuale… Fatevene una ragione, spioni da buco della serratura, curiosi della peggior specie, critici e commemoratori più o meno amici, più o meno ostili, più o meno istituzionali: sono uno scrittore!, se conosceste almeno un po’ le mie opere, evitereste di pronunciare e di scrivere crudeltà, o perlomeno fesserie mostruose riguardanti la mia persona e il mio pensiero; sareste in grado di soffermarvi su una mia poesia, su un mio romanzo, su un mio film, ne comprendereste i contenuti e i messaggi…»
Un’invettiva in piena regola… Beh, un po’ sbigottita lo ero. Anche se concordavo, parola per parola, su ciò che avevo appena udito. Da quando lui aveva iniziato a parlare, era come fossi diventata di marmo. In qualche frazione di secondo formulai alcune ipotesi: forse, fumare come un turco mi aveva totalmente obnubilato la mente; forse, si trattava dell’inizio della fine: in tal caso avrei avuto soltanto il tempo di precipitarmi al telefono e di chiamare un’ambulanza; forse, era tutta colpa dell’optalidon, preso per contrastare una persistente emicrania; forse… oh, insomma! non stavo vivendo altro che un brandello di realtà e lui, nientemeno che Lui, era proprio lì.
Riuscii - fu in verità uno sforzo titanico - a muovere il capo. E lo vidi. Non aveva aureola, né didascaliche ali angeliche. Come avevo immaginato. Insomma, era tal quale l’abbiamo conosciuto, nel Gobbo o nel Decameron. O, magari fugacemente, di persona, come accadde a me quando venne a trovare il cugino Nico alla Longanesi. So che stenterete a crederci, ma qui, ora, proprio davanti a me, non era in giacca e cravatta: portava pantaloni blu e una maglietta azzurra con il glorioso stemma della nazionale di calcio. Incredibile.
Gli sorrisi, gli tesi la mano; dal groppo che mi serrava la gola uscì soltanto, stentatamente, un timido «Benvenuto!». Banale, banalissimo… E io avevo osato sognare di riuscire a farlo parlare dei suoi scritti, dei suoi film, dell’origine delle sue opinioni politiche… Un saluto piccino piccino, da perfetta rincitrullita…
Ci volle un po’ prima che mi riprendessi. «Ebbene, è vero, da un bel po’ di tempo avrei desiderato rivolgerti alcune domande», esordii timidamente. «Avrei voluto, come si dice, intervistarti… anche se, per un’impresa tanto impegnativa, la mia professionalità fa acqua da tutte le parti. Sai, per una vita ho fatto soltanto la correttrice di bozze, fino a quando ci sono state le bozze naturalmente. Ora le corregge una macchina. Pazzesco. È la tecnologia, siamo quasi tutti cannibalizzati dalla tecnologia oramai, nonché dal capitalismo, dal neocapitalismo, dal postcapitalismo. Insomma», mi tremava un po’ la voce, mi veniva quasi da piangere, «da tutte le forme di capitalismo possibili, immaginabili e teorizzabili. Ma un’intervista, quella proprio ci terrei a fartela… Accomodati… ti offro un pinot».
Prima di sedersi scorse i libri che stavano in disordine su scaffali un po’ polverosi, notai una smorfia quando vide i suoi Meridiani. E udii una specie di borbottio: «… pressappochismo… dilettantismo… cialtroneria… Mah…». Compresi ciò che gli stava ribollendo in cuore, ma non me la sentii di entrare nel merito. In fondo anch’io, fatte le debite proporzioni, ero una curatrice… Adesso, da indagare, da approfondire vi era la cattedrale di idee, di concetti, di sensazioni, di immagini, di parole, di emozioni da lui eretta con le sue opere, con gli indimenticabili personaggi e situazioni dei suoi film, dei suoi romanzi. Vi erano dunque quei suoi gioielli inestimabili e basta.
«Dunque, alcune domande le ho già in mente… Se sei d’accordo, potremmo iniziare…». Pasolini fece un leggero cenno di assenso. Pensai alla prima domanda da porgli, probabilmente avrei corso il rischio di apparire di nuovo banale, dicevo a me stessa mentre la costruivo. Da poco era iniziato un nuovo anno, e il pensiero si soffermò ancora sulle feste appena trascorse. Così iniziai con: Che cosa pensi del Natale e a chi ti sentiresti di esprimere i tuoi auguri in occasione di tale festività?
«… sono contro questa festa stupida e irreligiosa. Tanti auguri ai fabbricanti di regali pagani! Tanti auguri ai carismatici industriali che producono strenne tutte uguali! Tanti auguri a chi morirà di rabbia negli ingorghi del traffico e magari cristianamente insulterà o accoltellerà chi abbia osato sorpassarlo o abbia osato dare una botta sul didietro della sua santa Seicento! Tanti auguri a chi crederà sul serio che l’orgasmo che l’agiterà - l’ansia di essere presente, di non mancare al rito, di non essere pari al suo dovere di consumatore - sia segno di festa e di gioia! Gli auguri veri voglio farli a quelli che sono in carcere, qualunque cosa abbiano fatto (eccettuati i soliti fascisti, quei pochi che ci sono); è vero che ci sono in libertà tanti disgraziati cioè tanti che hanno bisogno di auguri veri tutto l’anno (tutti noi, in fondo, perché siamo proprio delle povere creature brancolanti, con tutta la nostra sicurezza e il nostro sorriso presuntuoso). Ma scelgo i carcerati per ragioni polemiche, oltre che per una certa simpatia naturale dovuta al fatto che, sapendolo o non sapendolo, volendolo o non volendolo, essi restano gli unici veri contestatori della società. Sono tutti appartenenti alla classe dominata, e i loro giudici sono tutti appartenenti alla classe dominante». Tirai un sospiro di sollievo: la mia domanda, forse, era stata banale, ma l’immenso Poeta aveva risposto da par suo. Mi rinfrancai. L’intervista continuò per un pezzo, e di seguito potrete riflettere sulle risposte che via via quel Grande dava alle mie domande. Riflettere e gioirne, naturalmente... o almeno è ciò che mi auguro.
Quali sono state le tue sensazioni osservando il corteo di Maria Callas ripercorrere la storia di Medea nei paesaggi tanto suggestivi e affascinanti da te scelti per ambientarvi il film?
«Nel fondo di una di queste vallette sul greto del fiume - c’è intorno il grano - e file di pioppi e ulivi spinosi, argentei contro il rosa delle centinaia di cuspidi - cammina verso di me e si imprime violentemente nella mia retina, una piccola folla assurda. La luce - è vero - è quella dei sogni: l’ultima luce del sole a filo dell’orizzonte. Fra due o tre minuti il sole sarà scomparso, e sarà il grigio, la divina tetraggine soffusa di rosa. Ma ora il biondo della luce passa sull’erba, sul greto, sul grano e si specchia, accecante, contro il fondale della tebaide. Così, ciò che accade in questa luce è già di per sé poco credibile. La folla che avanza è composta da italiani, da turchi: chi lavora e chi è semplicemente curioso, e procede ai margini, di frodo, pronto a fuggire. Gli abbigliamenti sono i più variopinti e discordi. Vige la massima libertà in questa folla internazionale, nel vestire. Si tratta di nemmeno un centinaio di persone, di cui una trentina solo avanzano sul greto, mentre le altre sono per la valle - sugli alti cigli, sulle terrazzette, tra i folti delle piante. Contro il cielo del tramonto, con striscioni bianchi di nuvole, senza neanche un po’ di rosso, su un ciglione in fondo al greto, si profilano le figurine nere dei tecnici intorno a una macchina da presa: non sono dei nostri, ma di qualche televisione - che armeggiano come si fa nelle grandi occasioni. Quaggiù sul greto, a incidersi nella mia retina, davanti a tutti, ci sono degli operai turchi, che spingono un carro a forma di “V”, nero e grigio: e intorno ad essi coloro che hanno altri incarichi annessi al carro. Tutti animati da una grande buona volontà. Dietro, ecco un gruppo sparso e composto in un disordine corrusco ma nitido da pittore fiammingo. Al centro c’è una figura femminile. Essa è coperta fino all’altezza del seno da un velo bianco, dietro a cui si intravede appena il viso e la lunga capigliatura. Da sotto questo velo bianco, pende un mazzo di collane dorate, grossissime, che mandano un suono opaco, come i campanacci delle mandrie: penzolano, queste collane, su una “pazienza” azzurra listata d’argento - sembra vecchissima, di quelle conservate nelle teche dei musei, che a toccarle, si direbbe che debbano andare in polvere. Sotto la pazienza cade una grande sottana nera: che viene sostenuta per i lembi da due o tre persone, attente a tenerla alta fin sopra il ginocchio della donna che l’indossa. Essa procede così come una regina non vista. Dietro a lei, viene un altro gruppetto del seguito: e tra questo, la fedele cameriera, vestita di rosso e di verde, che tiene per il guinzaglio i due magici cagnolini, innocenti come due insetti, due farfalline al loro primo svolazzare qua e là, e insieme decrepiti, di una saggezza di re contadini.» Qualche giorno fa mi sono fermata a prendere un caffè in un bar del centro. A un tavolino accanto al mio erano sedute due persone, non ho potuto fare a meno di sentire la loro conversazione. Una di loro aveva appena assistito alla proiezione del film che Giuseppe Bertolucci ha dedicato recentemente a te e al tuo Salò e sosteneva: “Beh, attraverso questo lavoro di Bertolucci si riesce a capire meglio Salò, l’ultimo film girato da Pasolini…”. L’altro rispose rabbiosamente, quasi l’avesse punto una tarantola: “Ma daaai…, Salò…Pasolini…, quell’omosessuale che non aveva di meglio da fare che passare il proprio tempo a frequentare ambienti torbidi e squallidi!…”. Sono saltata sulla sedia. Ma, vilmente, mi è mancato il coraggio di aprir bocca, e me ne scuso ora con te. Sto invecchiando, ormai mi è chiaro. In altre stagioni della mia vita avrei avuto reazioni talmente vivaci da rendere inevitabile l’intervento della forza pubblica... Tu che cosa avresti detto a chi esprimeva, con un giudizio tanto sgradevole, non solo ostilità nei tuoi confronti, ma anche, più in generale, una sorta di intollerabile razzismo?
«… lei è un uomo medio proprio nella sua accezione peggiore. Nota: coloro che usano l’espressione “squallido o torbido ambiente dove maturano eccetera”, si macchiano di una infinità di colpe, che in pieno neocapitalismo è poco definire tribali. Ne faccio un nudo e incompleto elenco. 1) Sono razzisti. Infatti essi si distinguono, direi, teologicamente, o meglio, antropologicamente, dai soggetti di cui si abbassano, costretti dalla necessità, a parlare: prostitute, omosessuali, ladri, truffatori eccetera. Costoro vengono distaccati, “separati” dalla coscienza e chiusi nel ghetto, appunto “dello squallido e torbido ambiente”. 2) Sono ricattatori. Infatti essi tappano la bocca a presunti appartenenti a quel ghetto, mettendoli a tacere attraverso l’allusione alle loro colpe che l’uomo medio condanna, e per cui essi non hanno diritto di cittadinanza nella società. Fanno, al livello borghese dell’indignazione morale (anche sincera!) ciò che un piccolo ricattatore può fare a una prostituta che ha un figlio, a un omosessuale che ha una madre o un impiego eccetera. 3) Sono ignoranti. Infatti essi ignorano tutto ciò che di scientifico (mettiamo sul piano più elementare, Freud) è stato scritto su coloro che essi relegano nello squallido ghetto, senz’altra spiegazione che una cieca ripugnanza fisica, un panico, un principio irremovibile: tutte cose perfettamente stupide appunto perché irrazionali e prive di ogni motivazione scientifica. 4) Sono primitivi. Infatti essi negli abitanti coatti dei loro ghetti vedono arcaicamente dei “capri espiatori”, sulle cui spalle riversare le colpe di tutta la società. … 5) Sono dei sanguinari. Infatti i “capri espiatori” si ammazzano. Ed essi, additando ai loro pari e alle autorità, direttamente o indirettamente, gli “squallidi o torbidi individui” così come essi li definiscono e li vogliono, ne fanno implicitamente (e talvolta esplicitamente) dei soggetti da linciaggio. Ho calcato un po’ le tinte. Ma le cose stanno sostanzialmente così». La tua critica alla stupidità delittuosa della televisione è nota: ne parli tra l’altro in uno scritto la cui lettura puoi ascoltare nella “copertina” di “Pagine corsare”, un omaggio che ho voluto farti, contenente citazioni, descrizioni, commenti di tue opere e che può essere letto su Internet (ti racconterò prima o poi cos’è quest’ultima diavoleria sulla quale, tra l’altro, pubblicherò questa intervista…). Vuoi parlare di qualcosa di brutto e sgradevole che ti è accaduto di vedere in Tv?
«una sera … stavo cenando in fretta, e i miei occhi non potevano non cadere sul “video” acceso, proprio davanti alla tavola … Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili una all’altra, stavano facendo delle evoluzioni, d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote, incastonate in un ritmo, che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile. A cosa alludevano quelle mossucce, quei colpetti di reni e quelle tiratine di collo? Non si capiva bene, ma certo a qualcosa di estremamente convenzionale comunque: a un’allegria collegiale e orgiastica, in cui la donna appariva come una scema, con dei pennacchi umilianti addosso, un vestituccio indecente che nascondeva e insieme metteva in risalto le rotondità del corpo, così come se le immagina, se le sogna, le vuole un vecchio commendatore sporcaccione e bigotto. Tutto ciò, che si presentava come leggero, era invece pesantemente volgare. La “disparità dei sessi” era sbandierata spudoratamente come una legge fatale e prepotente di un “sentimento comune”. … Finito il balletto (in cui era impegnato un altro mezzo centinaio di persone, ragazzi e ragazze intenti a movimenti che facevano arrossire per loro), ecco che si presentano su una ribalta luccicante e biancastra, come di plastica, due tipici uomini di mezza età italiani: uno piuttosto alto e stempiato, l’altro un bassetto tutto pepe. … Hanno cominciato a parlare e a muoversi. I vecchi clowns veneti del circo Banana o del circo Cragna certamente facevano meglio: comunque la tecnica era la stessa: il bassetto era il comico, e l’altro la spalla. Le sottolineature della situazione - il comico doveva risultare ingenuo e beffato, l’altro doveva risultare un dritto che beffa, in nome delle leggi normali della logica e del buonsenso - erano di una rozzezza da mettere a disagio. L’idea di essere costretti a obbedire alle regole di un gioco imposto da due persone così modeste e volgari (uscite dritte dalla “media”, come in un laboratorio) dava un senso di soffocamento e di ribellione. A questo punto è finita la mia cena, e me ne sono andato. … Nel novantacinque per cento dei casi non si vede alla televisione niente di più bello o di più brutto di così. Non è questione di bruttezza o di bellezza. È questione di volgarità. E la volgarità della televisione deriva dalla sua sottocultura. Non è neanche vero che la televisione modestamente sostituisca la “tombola” delle serate in famiglia. In ciò c’è solo una parte (del resto molto deprimente) di verità. Infatti la “tombola” delle vecchie sere, durate fino ad alcune decine di anni fa, aveva ancora una sua ragione culturale di essere. Era un infimo atto di cultura di una civiltà contadina, coi suoi forzati coprifuochi, la sua stasi, la sua povertà. La televisione non è questo: essa ha nella sua funzione culturale tutta la prepotenza del potere; del potere industriale; che vuole, e determina e condiziona una serata familiare che non ha nulla a che vedere con le serate familiari del mondo antico. In queste ultime infatti si celebrava una quotidiana cerimonia concreta, che aveva le sue radici particolaristiche in un piccolo mondo concluso: un fiumicello, una catena di colli, delle mura di cinta. Oggi il riferimento di quelle belle serate in famiglia davanti al video non è locale, concreto - modesto ma profondo - alla realtà di una piccola patria, ma alla realtà produttiva di una intera nazione, che altera il significato della famiglia, e ne fa non più un nucleo di innocenti conservatori, ma un nucleo di ansiosi consumatori». Puoi narrarmi qualcosa di particolare sulle tre figure emblematiche - Totò, Ninetto e il corvo - che hai così sapientemente descritto in quel capolavoro che è Uccellacci e uccellini?
«Scelsi Totò per quello che era: un attore, un tipo inconfondibile che il pubblico già conosceva. Non volevo da lui che fosse altro se non quello che era. Povero Totò, spesso mi chiedeva con molta gentilezza, e quasi come un bambino, se non poteva fare un film più serio, e io ero costretto a ripetergli: “No, no, voglio soltanto che tu sia te stesso”. Totò, quello vero, era manipolato, artificioso, non era un personaggio ingenuo e genuino come il Franco Citti dell’Accattone. Era un attore costruito da lui stesso e dagli altri fino a diventare un tipo, ma io me ne servivo precisamente per questo, per il fatto che era un tipo. Era uno strano miscuglio di veracità napoletana credula e popolaresca, da una parte, e di clown dall’altra: era cioè riconoscibile, neorealistico e insieme assurdo e surreale. Conobbi Ninetto Davoli casualmente quando giravo La ricotta; era lì con un’intera banda di altri ragazzi a guardare noi che giravamo e lo notai subito, per i capelli ricci e per quel suo carattere che successivamente si sarebbe rivelato nel mio film. Quando pensai di fare Uccellacci e uccellini, mi vennero subito in mente lui e Totò, senza la minima esitazione. … il corvo è estremamente autobiografico: fra esso e me l’identificazione è pressoché totale. Il corvo mi ha dato molto da fare. … era un animale selvaggio, era matto e quasi fece diventare matti anche tutti noi. … Fra gli sketch comici che pensai di fare ve ne era uno in cui Totò e Ninetto dovevano essere i padroni di un corvo come quello, perché per me fu una battaglia tremenda, la più dura della mia vita. Generalmente la principale preoccupazione di un regista, in Italia, è il sole, perché il tempo a Roma è molto capriccioso. Dopo il tempo, però, la mia più grave preoccupazione era il corvo. Le sequenze in cui compare nel film riuscii a metterle insieme girandole molte volte e poi organizzando laboriosissimamente il montaggio, ma fu un’impresa formidabile … Quando ebbi finito Uccellacci e uccellini mi resi conto che l’ideologia vi aveva un posto molto maggiore di quanto non avessi preventivato. Cioè l’ideologia non era stata tutta assorbita dal racconto, dalla vicenda, non era stata trasformata in poesia, levità, grazia. Vedendo il film per la prima volta ebbi la netta sensazione che il lato ideologico era un po’ pesante, e cominciai a pentirmi di non aver fatto una cosa più leggera, più fiabesca, perfino un film picaresco, magari, che sarebbe potuto essere meno significativo dal punto di vista ideologico, ma più ambiguo e misterioso, più poetico. Ne fui sinceramente addolorato perché Totò e Ninetto erano una coppia così deliziosa, e di per sé così poetica; avevano un mucchio di possibilità, lo sentivo. Perciò pensai di fare un film che fosse fatto di favole, e una di queste favole fu La terra vista dalla luna». … che definirei un film decisamente surrealista…
«… non credo che il surrealismo sia una categoria ben definita. Se ci pensi un momento, quando diciamo surrealismo ci riferiamo a due cose diverse: da una parte pensiamo al Manifesto dei surrealisti, a Breton e Aragon, e poi c’è tutto il gruppo dei surrealisti francesi e la pittura surrealista, come quella di Dalí, per fare un nome, nonché i surrealisti del principio del secolo. Dall’altra parte c’è Kafka, ed è tutta un’altra faccenda. Non c’è paragone fra Aragon ed Eluard, o il loro predecessore Lautréamont, e Kafka, oppure fra la pittura surrealista e il primo cinema surrealista. Così, da un lato abbiamo il surrealismo come movimento culturale e ideologico francese del periodo fra le due guerre: ebbe un’importanza enorme, e mi spingerei fino a dire che tutta la poesia contemporanea viva, compresa quella prodotta dai poeti socialisti e comunisti, sgorga da quella fonte. Fu il surrealismo a produrre, ad esempio, la poesia della Resistenza, e anche la poesia posteriore “impegnata” ha vaghe origini surrealiste, anche se profondamente modificate, come è ovvio. Mentre il simbolismo, che era contemporaneo del surrealismo, sta alla base di tutta la poesia reazionaria che lo seguì; parte della quale molto bella, forse, ma ciò nondimeno reazionaria. Tutto l’ermetismo italiano, e la neo-avanguardia, hanno origini simboliste. … il surrealismo del mio film ha ben pochi rapporti con il surrealismo storico. È essenzialmente il surrealismo delle favole: ha origini quasi popolari, e non a caso la morale del film, “essere morti o vivi è la stessa cosa”, è presa dalla filosofia orientale; è una sorta di slogan della filosofia indiana». Nelle tue opere cinematografiche, specie in quelle della Trilogia della vita, che cosa ti ha spinto a rappresentare tanto realisticamente il sesso?…
«Ho una spiegazione, che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura - e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa - mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi a una cultura del passato popolare e umanistico - in cui, appunto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo. Era in tale realtà fisica - il proprio corpo - che l’uomo viveva la propria cultura. Ora, i borghesi, creatori di un nuovo tipo di civiltà, non potevano che giungere a derealizzare il corpo. Ci sono riusciti, infatti, e ne hanno fatto una maschera. I giovani altro non sono oggi che delle mostruose maschere “primitive” di una nuova specie di iniziazione - fintamente negativa - al rito consumistico… Dunque riassumendo: alla fine degli anni Sessanta l’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere. Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo - e proprio per ragioni stilistiche - non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancora più sintetico, il sesso. … Naturalmente al fatto che io scegliessi come protagonista dei miei ultimi film la realtà fisica del popolo, e la rappresentassi nella sua interezza, hanno contribuito anche altre ragioni, oltre a quella generale e profonda che ho detto. Per esempio, la ragione che i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio ultimo cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico piccolo-borghese e benpensante (che peraltro non si è lasciato affatto provocare, e ha semplicemente, e finalmente, riconosciuto nel cinema una sua realtà - naturale per il pubblico popolare, liberatoria per parte del pubblico borghese). Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. Provocazione contro il moralismo gauchista, le cui Vestali si sono indignate e hanno gridato allo scandalo esattamente come le Vestali della tradizione (“Potere operaio” ha usato in proposito lo stesso linguaggio, anzi, le stesse parole, dei Pubblici Ministeri). Sì, non ho voluto fare del cinema politico d’intervento, non ho voluto fare neanche della politica romanzata. …» … e non credi che ciò abbia esercitato una influenza determinante per superare inibizioni di ogni tipo, inducendo molti tra gli spettatori dei tuoi film ad adottare una libertà sessuale senza più alcun freno?
«… mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun potere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha volto e nome. Nel campo del sesso, per esempio, il modello che tale potere crea e impone consiste in una moderata libertà sessuale che includa il consumo di tutto il superfluo considerato necessario a una coppia moderna. Venuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani - borghesi, e soprattutto proletari e sottoproletari - se tali distinzioni sono ancora possibili - l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L’obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d’approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli “incapaci” o dei “diversi”: il più tremendo degli obblighi. L’ansia conformistica di essere sessualmente liberi, trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici. Così l’ultimo luogo in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’esso scomparso. Nel proprio corpo i giovani del popolo vivono la stessa dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che i giovani della borghesia. Se volessi continuare con film come Il Decameron non potrei più farlo, perché non troverei più in Italia - specie nei giovani - quella realtà fisica (il cui vessillo è il sesso con la sua gioia) che di quei film è il contenuto». Ti sei sempre dichiarato marxista, e hai precisato che lo sei diventato condividendo le teorie scientifiche marxiste successivamente alla tua adesione al Partito comunista italiano. Non è stato questo un percorso un po’ anomalo per un intellettuale?
«… occorre rettificare la frase dicendo che prima ho militato coi comunisti e poi ho aderito al marxismo. … l’Italia si trovava … in una posizione alquanto anomala nel quadro dell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è del tutto scomparso nei maggiori Paesi industriali, come la Francia e l’Inghilterra (lì non si può più parlare di una classe contadina nel senso classico del termine), in Italia esso sopravvive ancora, pur avendo subìto un declino negli ultimi anni. Nell’immediato dopoguerra i contadini vivevano ancora in un mondo loro proprio, come uno o due secoli fa. Mia madre, ai suoi tempi, doveva ancora andare a letto a lume di candela. Il mio rapporto col mondo contadino è diretto, immediato: quasi tutti noi italiani abbiamo almeno un nonno contadino nel senso letterale della parola. Ora, quei comunisti friulani erano contadini, e ciò ha avuto molta importanza. Forse, se si fosse trattato di comunisti appartenenti alla classe operaia urbana, il fattore classe sarebbe stato troppo forte per i miei gusti, e vi avrei resistito; ma non ho potuto farlo nei confronti dei comunisti contadini, che sono poi quelli che fanno le rivoluzioni. … Ecco il punto principale: una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista» Come definiresti, come consideri e qual è la tua posizione politica nei confronti delle diverse classi sociali in Italia e dei rispettivi interessi e valori?
«Sociologicamente, la mia posizione non è molto convenzionale, e in realtà non è neppure definibile. Ha una base emozionale che probabilmente nasce dalla fanciullezza e dal conflitto con mio padre e con l’insieme della società piccolo-borghese. Il mio odio per la borghesia non è documentabile né passibile di discussione. C’è e basta. Non è però una condanna moralistica; è una condanna totale e senza indulgenze, ma è basata sulla passione, non sul moralismo. … Quanto all’altra classe popolare, la classe operaia, ho avuto con essa un rapporto molto difficile, inizialmente romantico, populista e umanitario. Quando si nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo, naturalmente il mio fu messo in crisi. Quando mi accorsi che i contadini friulani esistevano e che la loro psicologia, educazione, mentalità, anima, sessualità erano del tutto diverse, il mio mondo si infranse; non potevo più amare l’élite borghese e contemporaneamente odiare la borghesia; nacque un nuovo modo di sentire, quello di partecipare dall’esterno, anche se la cosa era autentica e convalidata dall’amore genuino che portavo ai lavoratori, e particolarmente ai contadini. Non ho mai conosciuto da vicino la classe operaia perché nelle città in cui ho abitato da bambino e da ragazzo conoscevo solo quelli che venivano a scuola con me, che erano tutti di famiglia borghese. Poi andai a Casarsa, dove conobbi dei contadini, ma non degli operai. Da lì venni direttamente a Roma, che non è una città operaia. … quando vi giunsi, qui l’industria non esisteva. … fondamentalmente Roma è una città burocratica, amministrativa e turistica, quasi una città coloniale. Ciò che trovai qui, e che risultò essere un’esperienza estremamente vitale dal punto di vista sociologico, fu il contatto con il sottoproletariato romano. Per la prima volta mi gettai in un mondo socialmente del tutto diverso da quello cui ero abituato, che mi costrinse a essere obiettivo nei suoi confronti, mi costrinse a farne una diagnosi marxista. … Così, mentre in principio avevo usato il dialetto per ragioni soggettive, come linguaggio puramente poetico, quando venni a Roma, al contrario, presi a usare il dialetto del sottoproletariato locale in maniera oggettiva, per arrivare alla descrizione più esatta possibile del mondo che avevo di fronte». Hai dedicato una delle più significative raccolte di poesie ad Antonio Gramsci. Come consideri questo nostro grande intellettuale e quando l’hai “incontrato” per la prima volta?…
«… spesso ho parlato delle mie letture di autori marxisti, il più importante di tutti, anche dello stesso Marx, è stato Gramsci. Naturalmente, Marx mi è riuscito piuttosto difficile alla lettura, e a parte questo l’ho trovato alquanto distante da me per varie ragioni. Mentre, invece, le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me. Lo lessi per la prima volta nel periodo 1948-49». … e puoi definire Gramsci un populista?
«No, non credo che si possa. Anche se vorrei dire, prima di tutto, che non annetto alcun significato peggiorativo alla parola “populista”. La adoperano i moralisti marxisti, insieme con il termine “umanitarismo”, per condannare i tipi di marxismo diversi dal loro. … Per me, populismo e umanitarismo sono due fatti storici reali: tutti gli intellettuali marxisti hanno radici borghesi; l’impulso a diventare marxista può solo essere di tipo populista o umanitario, per cui questo fattore si trova inevitabilmente in tutti i marxisti borghesi, compreso Gramsci. Io non lo giudico un fattore negativo; rientra semplicemente nell’inevitabile transizione dalla classe borghese in cui si è nati e si è stati plasmati all’adozione di una diversa ideologia, l’ideologia di una diversa classe sociale». Molte persone si sono chieste, soprattutto dopo aver visto il tuo Vangelo secondo Matteo, se sei una persona religiosa, anzi, cattolica… forse anche perché sei nato e vissuto in Italia, un Paese i cui abitanti e coloro che li governano non riescono, più o meno consapevolmente, a fare salde distinzioni tra Stato e Chiesa. Ancora oggi, in questo senso, vengono tenuti in vita una serie di equivoci e si devono purtroppo registrare insopportabili oltre che inammissibili ingerenze…
«Può darsi che a provocare questo malinteso siano i due film che ho girato sul tema del Vangelo e intorno alla figura di Cristo. Questi due film, Sopralluoghi in Palestina e Il Vangelo secondo Matteo, successivi alla Ricotta, … mediometraggio su una ricostruzione cinematografica della Passione, hanno forse ingannato un pubblico superficiale. Voglio supporre … che i dubbi riguardo al mio ateismo e alla mia “laicità” poggino su altro che su dei titoli... E in questo caso occorrerebbe che giustificassi la scelta di tali argomenti, che dicessi quel che ho voluto fare e quel che mi aspettavo che vi si riconoscesse... Vorrei tuttavia cominciare col rassicurare coloro che possono trovare materia di scandalo nella mia visione del mondo. La mia formazione religiosa è per così dire inesistente. Mio padre non credeva in Dio. Certo andava a messa la domenica, ma era solo per rispetto verso un’istituzione che garantiva l’ordine costituito. Praticava esteriormente, per le tante ragioni che spingono un uomo di destra a far battezzare i figli, a farli cresimare, a sposarli dinanzi al prete... La famiglia era “religiosa”, ma senza bigotteria. Mia madre aveva le tradizioni religiose della maggior parte dei contadini. La sua fede era continuazione della sua poesia o, come dicono i teologi, una religione naturale. Non sono stato quindi sottomesso ad alcuna pressione religiosa, né sono stato condizionato da alcuna educazione cattolica. Le uniche occasioni per marinare la scuola di cui abbia goduto, me le son concesse ai danni del catechismo. L’insegnamento del catechismo non lo potevo soffrire. Il collegio religioso mi appariva come il peggiore degli ergastoli. Gli studi secondari li ho fatti al Liceo Galvani di Bologna: un liceo la cui tradizione laica ha non poco contribuito a fare di me un miscredente nel significato più letterale del termine. Cosa aggiungere per scoraggiare questi imbarazzanti inquisitori? Non mi piace il cattolicesimo in quanto istituzione, non per ateismo militante, ma perché la mia religione, o meglio il mio spirito religioso - che non ha nulla a che vedere con un’appartenenza fondata sul battesimo - ne viene offeso. Rimane poi questo cripto-cristianesimo, che mi imputano i più aggressivi, quasi fosse una tara vergognosa. Dirò per rispondere loro che difficilmente un occidentale può non essere cristianizzato, se non un cristiano convinto. A maggior ragione un italiano. Per quanto riguarda poi la visione religiosa che possiamo avere del mondo - tu come me -, facciamo a meno dell’idealismo cristiano. Io sono propenso a un certo misticismo, a una contemplazione mistica del mondo, beninteso. Ma questo è dovuto a una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la profondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose». Oggettivamente, dunque, quali sono state le tue motivazioni nella scelta di fare un’opera cinematografica sul Vangelo e sulla figura di Cristo?
«Taluni hanno visto in questo film l’opera di un militante cristiano, il che mi risulta del tutto incomprensibile. Sebbene la mia visione del mondo sia religiosa, non credo alla divinità di Cristo. Il Vangelo non lascia alcun dubbio: per quanto riguarda, poi, il contenuto del testo, il messaggio tende a introdurre nella narrazione una trascendenza divina... Per conto mio, mi dispiace, ma non ci credo. Dall’esterno il mio film offre materia di reminiscenze ai cattolici ancora capaci di interessarsi alla vita di Cristo. Ma a guardarci meglio, questa mia ricostruzione non è per niente conforme all’immagine tradizionale che se ne fa la maggior parte dei cristiani. Ho fatto un film in cui si esprime, attraverso un personaggio, l’intera mia nostalgia del mitico, dell’epico e del sacro. … In realtà avrei potuto rifare la storia di Cristo prestandogli l’abito e le azioni di un agitatore politico e sociale, e avrei avuto - forse - il nihil obstat dei marxisti ufficiali. Ciò che non ho fatto, perché è contrario alla mia natura profonda dissacrare sia le cose che la gente. Tendo invece a risacralizzarle il più possibile. Ho preso le mosse da questa riflessione fondamentale e che ritengo giusta: la storia di Cristo è fatta di due millenni di interpretazione cristiana. Tra la realtà storica e me si è creato lo spessore del mito. …» … Ebbi all’improvviso un’acuta, dolorosa sensazione di freddo. Battevo i denti… Mi ero rannicchiata sul divano ad ascoltare Bach, avevo preso sonno e il vento aveva trasformato la stanza in una cella frigorifera. Il Cd era terminato senza che avessi avuto il piacere di ascoltare quella musica divina… E lui dov’era? Nella condizione sgangherata in cui mi trovavo, sia pure a fatica riuscii a rintracciare un barlume di coscienza. E mi fu chiaro finalmente ciò che era accaduto… Anche se - e me ne accorsi soltanto ore dopo - un mistero non riuscii a scioglierlo: sul tavolo erano rimasti un bicchiere, vuoto, accanto a una bottiglia stappata e mezza vuota di pinot bianco.
A.M. 6 gennaio 2006

Nota - Pasolini ha realmente scritto tutto ciò che dice in risposta alle domande che gli sono state poste in questa onirica intervista (cfr. Pier Paolo Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 261, 263, 1167, 1227, 1260, 1272, 1278, 1293-98, 1347, 1357-58, 1421-27).

sabato 17 maggio 2008

A un ragazzo.


Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi che tornano su Roma, e che a noi altrove
ancorati a una luce d’altri tempi, sembrano portati da inutili venti,
tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.
Col sorriso confuso di chi la timidezza e l’acerbità sopporta con allegrezza,
vieni tra gli amici adulti e fieramente umile, ardentemente muto, siedi attento
alle nostre ironie, alle nostre passioni. Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,
vergognandoti quasi del tuo cuore festoso... Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,
ma perché esiste: per te, perché tu sia nuovo testimone, dolce-contento al quia...
Rimani tra noi, discreto per pochi minuti e, benché timido, parli, con i modi già acuti
dell’ilare, paterna e precoce saggezza. Esponi, orgoglioso, la tua debolezza
di adolescente, leso appena al ridicolo che ha la troppa umiltà in un mondo nemico...
Al giusto momento, ci lasci, ritorni alla segreta luce dei tuoi primi giorni:
alla luce che certo tu non puoi dire né, noi, ricordare, una luce d’aprile
in cui la coscienza con le sue gemme sfiora solo la vita, non la storia ancora.
Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,
o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi, ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,
se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi ormai siamo, vuoi che le perdute notti
del nostro tempo siano come la tua fantasia pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia
la parte di vita che noi abbiamo spesa disperati ragazzi in una patria offesa.
Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni - tra macerie, strade deserte e prigioni -
delle nostre figure per te ormai remote. Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,
tu, così puro, il male, così limpido l’odio, ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi
l’occhio ferito, parteggiando intero per chi lottava in nome del sentimento vero.
Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato da quell’avventura, in che cosa è mutato
lo spirito di questa povera nazione dove provi tra noi la tua prima passione;
sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa
trovino nel tuo dolce desiderio di vita... Vuoi sapere l’origine della tua pudica
voglia di sapere, s’essa ha già dato prova di tanta vita in noi, e adesso cova
già nuova vita in te, nei tuoi coetanei. Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,
da noi scoperta e da te trovata, grazia anch’essa, nella terra rinata.
Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.
La risposta, se c’è, è nella pura aria del crepuscolo, accesa sulle mura
del Vascello, lungo le palazzine assiepate nel cuore del sole che declina.
Le sere disperate per il troppo tepore che nei freddi autunni, dimenticato muore,
o, dimenticato, in nuove primavere torna improvviso - le disperate sere
in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi, o il fresco appuntamento con giovani modesti
come te, e felici, esci svelto di casa, mentre nel rione suona la sera invasa
dall’ultimo sole - penso a quel serio, candido ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.
Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere, se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.
Era un mattino in cui sognava ignara nei rósi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d’erba come cresciuto a stento era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiava esanime nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti, la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba del binario, attendeva il treno di Spilimbergo...
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta, dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella, nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta ch’era stata mia, la nuca giovinetta...
Ritornai indietro per la strada ardente sull’erba del marzo nel sole innocente;
la roggia tra il fango verde d’ortiche taceva a una pace di primavere antiche,
e i rinati radicchi da cui vaporava un odore spento e acuto di rugiada,
coprivano il dorso della vecchia scarpata grande come la terra nell’aria riscaldata.
Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna: liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana
pace del lavoro, nel parlante amore muti, tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,
vigne e casolari azzurri di solfato, - nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.
Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro, legati a quel dolore che ancora oscura il petto.
Ci togli questa luce che a te splende intera, ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera...
Noi invecchiati ora nient’altro diamo che doloroso amore alla tua lieta fame.
Anche la tua stessa pietà, che cosa dice se non che la vita solo in te è felice?
Perché, per fortuna, quel nostro passato, vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.
In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi di esso solo quanto può adesso valerti...
Nella tua nuova vita non è esistito mai fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai
perché vuoi sapere: esiste solamente in te come un crudele dolce fiore il presente.
Che tutto sia davvero rinato - e finito – sia tutto - è scritto nel tuo sorriso amico.
È vizio il ricordare, anche se è dovere; a quei morti mattini, a quelle morte sere
di dodici anni or sono, non sai se più rancore o nostalgia, leghi il nostro cuore...
L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza, voce che contraddice la vitale presenza!
Fosse, com’è in te, la spietata gioia di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!
Ciò che potevamo risponderti è perduto. Può parlarti - se, tu ragazzo, sai il muto
suo nuovo linguaggio di ragazzo - soltanto chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto...
Era ormai quasi estate, e i più bei colori ardevano nel mite, friulano sole.
Il grano già alto era una bandiera stesa sulla terra, e il vento la muoveva
fra le tenere luci, riapparse a ricolmare di festa antica l’aria tra i monti e il mare.
Tutti erano pieni di disperata gioia: sulla tiepida polvere delle vie ballatoi
e balconi tremavano di fazzoletti rossi e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi
bande di ragazzi andavano felici da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.
Mio fratello non c’era, e io non potevo urlare di dolore, era troppo breve
la strada verso il granaio perso nei campi, dove per un anno l’ingenua, eternamente giovane,
povera nostra mamma aveva atteso, e ora era lì che attendeva, sotto il tiepido sole...
Ma ha ragione la vita che è in te: la morte, ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.
Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo voler sapere col tuo cuore che si ingemma.
Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna sempre più tempo, allenta ogni legame
con la vita che, ancora, un’amara forza a vivere e capire invano ci conforta...
Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto.
pier paolo pasolini

Il fascismo, ora.

di Pier Paolo Pasolini
"L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società. [...] Non esiste solo il potere che si esercita nelle decisioni, ma anche un potere meno visibile che consiste nel fatto che certe decisioni non sono neanche proposte, perché difficili da gestire o perché metterebbero in questione interessi molto stabili.
La grande differenza tra i valori proclamati e i valori reali della società, l’omologazione, fanno pensare veramente a una società totalitaria. Quello che importerà nel futuro sarà il comportamento della più grande forza mai conosciuta: la massa omologata dei consumatori, la stragrande maggioranza degli esseri umani, non più l’ingegno delle élites culturali o l’attività dei politici.
L'identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti "moderati", dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà - se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia - una forma "totale" di fascismo. Ma questo Potere ha anche "omologato" culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l'imposizione dell'edonismo e della joie de vivre.
Una visione apocalittica, certamente, la mia. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare".

venerdì 25 aprile 2008

Il tabù della guerra civile.

Di che cosa parliamo se parliamo di guerra civile.
di ADRIANO SOFRI
CI SONO dispute che lacerano comunità intere attorno a una parola, a un nome. O piuttosto, comunità lacerate si trincerano ai bordi di una parola, di una frase. E' successo così per l' Italia del 1943-45 (e già per il Risorgimento), attorno all'espressione "Guerra civile".La storiografia dei reduci e dei sostenitori della Repubblica di Salò fece di quelle due parole la propria trincea. Si intitolava così una monumentale opera di Giorgio Pisanò. All'opposto, la storiografia fedele alla Resistenza le ha ripudiate fino a trasformarle in un tabù.Eppure nel corso stesso del '43-'45 partigiani e antifascisti di ogni ispirazione (soprattutto gli azionisti) avevano usato tranquillamente quella formula, e avevano continuato a farlo dopo. Lo fece anche Giorgio Bocca, nella Repubblica di Mussolini. Indro Montanelli ha appena ricordato di avere intitolato un suo libro Storia della guerra civile. E il primo titolo dei Ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio era stato Racconti della guerra civile. Fuori da un contesto in cui passava pressoché per ovvia, tramutata invece in uno slogan e in una bandiera, la «guerra civile» diventava impronunciabile dall’antifascismo, senza suonare come una concessione alla pretesa di un’assimilazione fra repubblichini e partigiani, quando non di una superiore moralità e patriottismo dei primi. (Un bando simile aveva colpito, per effetto della trasposizione politica, una delle parole più belle del mondo: nostalgia). Quando uno storico di riconosciuto scrupolo e preparazione, con un passato personale di militante partigiano, Claudio Pavone, decise di finirla con quel tabù verbale, era già il 1991. Pavone spiegava in un bel libro che l’Italia aveva conosciuto allora un intreccio fra guerre diverse, una patriottica per la liberazione dal nazifascismo, una di classe per la giustizia sociale, e una civile fra italiani contrapposti. Tre guerre in una: ma singolarmente il libro si intitolava Una guerra civile (col sottotitolo «Saggio storico sulla moralità della Resistenza»).Finora non mi ero capacitato abbastanza di quel titolo unilaterale, che lasciò sconcertati molti: troppa grazia, si dissero. Ora penso che Pavone avesse deciso che, senza sfondarla, quella porta non si sarebbe aperta. Che bisognava dare nell’occhio. Da allora, e ancora in questi giorni, la "guerra civile" non è più una bandiera di parte: quel libro l’ha ammainata, fin troppo forse, perché sospetto che qualcuno non vada oltre la lettura e la citazione del titolo di Pavone, il cui testo è invece tanto ricco e aperto quanto rigoroso.Ma ecco, rivenendo a questi giorni, succede che la formula di "guerra civile", appena masticata e mezzo digerita per il ‘43’45, ricompare a designare gli anni delle stragi e del terrorismo nelle parole del presidente della cosiddetta Commissione stragi, Pellegrino (una «guerra civile a bassa intensità») o l’intero dopoguerra italiano in quelle di Galli della Loggia (una «guerra civile strisciante», o una «guerra civile» senz’altro) e, in altri autorevoli studiosi, dilatata fino a descrivere l’intera storia del Novecento come una «guerra civile europea» o addirittura «mondiale». (Di una «guerra civile fredda» aveva parlato nel dopoguerra Carl Schmitt).Non bisogna dunque chiedersi perché l’accettazione o il ripudio di questa espressione possano diventare così decisivi? Chiedersi daccapo, a costo di una certa noia, che cosa significhi? All’inizio, traduce il classico bellum civile: fra Mario e Silla, ottimati e popolari, Pompeo e Cesare, fra una parte e l’altra della cittadinanza, fra milizie appartenenti a uno stesso territorio o allo stesso stato. La sua estensione è arrivata poi fino a farne un sinonimo del bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. (Si può consultare la raccolta di saggi a cura di Gabriele Ranzato, Guerre fratricide, Bollati Boringhieri 1994; e le Prospettive sulla guerra civile di H.M.Enzensberger, Einaudi 1994). Ma la dilatazione, mi pare, svuota il concetto, lo fa coincidere con l’universale violenza. Bisogna che ci sia la guerra, che ci sia un territorio comune, che ci siano due belligeranti di forza almeno comparabile. Non si dovrebbe esagerare con le metafore. Anche la "Guerra fredda", se non si ceda a un ottimismo idealista, è più vicina alla pace che alla guerra. Lo è stata, almeno, a posteriori: dato che purtroppo la pace del nostro mondo non è l’assenza di guerre, ma della guerra.Guerra civile non è il semplice conflitto intestino o fra civili: il termine di confronto e di distinzione è la guerra per definizione, cioè la guerra fra gli Stati. C’è ormai una forte tendenza a cambiare anche il nome di Rivoluzione (compresa quella francese) in quello di guerra civile. E si osserva che «la rivoluzione presuppone la guerra civile»: più frequente mi sembra che la guerra civile abbia presupposto la guerra fra gli Stati. Alla guerra civile si accompagna l’idea di un orrore speciale, di una ferocia fratricida: almeno fino a che, in un filone del classismo rivoluzionario, emerse un’esaltazione del concetto di guerra civile. Ripudiando in nome dell’internazionalismo la guerra fra gli Stati, le si contrapponeva la guerra civile, che non era un altro nome della lotta di classe, ma lo sviluppo culminante e auspicato della lotta di classe in un conflitto generale armato. Anche il nazionalismo accoglieva la guerra nazionale contro la guerra degli Stati, imperiali, sovranazionali o vessatori delle minoranze nazionali: ma vedeva nella guerra civile l’evento più doloroso, il sinonimo del fratricidio, della guerra fra fratelli, figli della stessa madre — la nazione. Il comunismo bolscevico vide invece nella guerra civile un passaggio essenziale per la vittoria di una classe, internazionalmente fraterna, contro lo sciovinismo degli Stati e l’internazionalismo del Capitale.Questa differenza è in realtà attraversata da una gamma di variazioni, perché il nazionalismo democratico si oppone a un nazionalismo dinastico, o il nazionalismo federalista a uno centralista; e inoltre le aspirazioni più radicalmente democratiche sconfinano nella rivendicazione sociale, ecc. Ma, nonostante ciò, il contrasto fra le due idee di guerra civile, al punto che per una essa è la più penosa degenerazione della vita pubblica, per un’altra una tappa culminante dell’aspirazione rivoluzionaria, resta essenziale. Tanto più interessante è questa dicotomia in una storia italiana contrassegnata dal municipalismo e dalle contese intestine e fratricide: un comune contro il comune vicino, guelfi e ghibellini, neri e bianchi, appaiono come l’antica e protratta condanna della storia italiana. Così la guerra civile nell’Italia del ‘43’45 veniva vista come una ricaduta in quella storia fratricida: ciò che la sottraeva — agli occhi dei repubblichini — all’onta dell’asservimento alla potenza straniera tedesca, e al contrario la connotava come un’estrema fedeltà patriottica.All’opposto, il lungo rifiuto di riconoscerla come una guerra civile esprimeva l’intenzione (insieme un’aspirazione e un pregiudizio) di raffigurare un’Italia risorta contro la Germania, e di far coincidere con questa riscossa nazionale il riscatto politico morale dell’antifascismo contro il nazifascismo. Non un onore della fedeltà all’alleanza, ma il disonore dell’asservimento alla potenza tedesca e nazista gli antifascisti denunciavano nella Repubblica di Salò: e nella sua natura di fantoccio la finale dimostrazione di un’estraneità del popolo italiano al regime fascista. La reciproca parzialità di queste tesi — fissate, come in una gara di ruba bandiera, alla formula di guerra civile — non si supera, e per certi versi si complica, una volta che la storiografia antifascista abbia serenamente ammesso la proprietà (relativa, certo) della espressione di guerra civile. Perché, intenzioni e comportamenti personali a parte, l’aver militato dall’uno o dall’altro lato di quella guerra civile resta un discrimine. L’appello alla guerra civile, all’evocazione dell’antico e ricorrente fratricidio, alla tragedia ogni volta ripetuta della violenza intestina, non può sottrarre lo scontro al contesto storico e al suo contenuto particolare: all’esistenza di una parte giusta e di una ingiusta. C'è una storiografia (e soprattutto una memorialistica) saloina che rivendica la giustizia alla propria parte, all'opposto della storiografia e delle memorie della Resistenza antifascista. Fra queste posizioni non c'è conciliazione possibile: la Costituzione ne accolse una, in nome del popolo italiano, nel modo legittimo in cui un popolo può pronunciarsi. Le cose sono più complicate quando il giudizio, com'è necessario che avvenga una volta spente le passioni più acerbe e l'urgenza della lotta, distingue fra le parti e l'esperienza viva delle persone. La conciliazione, cioè il riconoscimento dei vincitori ai vinti, investe la loro sincerità e il loro valore, quando ci sono state sincerità e valore. Qui la memorialistica e la storia sembrano riconoscersi mutuamente una relativa sovranità. In realtà è difficile che la frontiera sia netta e pacificamente riconosciuta: succede che sia fitta di sconfinamenti e di contrabbandi. Quando Roberto Vivarelli racconta la propria esperienza vissuta - l'idealismo fascista di suo padre e la sua morte in guerra, l'educazione infantile deamicisiana al culto dell'onore patriottico e del sacrificio di sé, l'arruolamento dell'adolescente in nome del coraggio e della coerenza - contribuisce alla comprensione reciproca. Quando, spinto da una fedeltà di uomo vecchio a se stesso ragazzo, fa trapassare la propria credenza di allora in un'affermazione oggettiva - il "tradimento" dell'alleanza sottoscritta con la Germania, il rinnegamento vile o opportunista della patria - e la constatazione di una affinità fra giovani generosi e militanti sulle sponde opposte, in una loro comune opposizione e superiorità morale sulla universale diserzione passività e pusillanimità: in questi casi la soglia fra memoria vissuta e giudizio storico viene abusivamente varcata. Memorie analoghe ce n'erano. Il caso è singolare perché si tratta di Vivarelli contro Vivarelli, per così dire. Per più di mezzo secolo - l'intera sua vita adulta - Vivarelli ha fatto professione militante (nel doppio senso, morale e del mestiere) del giudizio storico sulla Resistenza e l'antifascismo che ora, raccontando finalmente la propria adolescenza combattente, tende confusamente a incrinare. Se così è, la testimonianza di Vivarelli è quella di una sua personale conciliazione mancata (impossibile?), interessante, oltre che perché ogni vicenda umana lo è, perché forse rimanda alla collettiva conciliazione mancata o, peggio, parodiata per convenienza. Il resto è esercizio facoltativo: se Vivarelli abbia ceduto a una vanità senile - ci sono lunghe carriere di studiosi depositate nella penombra di volumi e volumi, che un opuscolo e una pagina di giornale investono per un momento con un lampeggiare di abbaglianti: perché invidiarglielo? - o se abbia atteso un clima culturale in cui esser stato fervente repubblichino sia diventato titolo da stampare nel biglietto da visita - malignità a parte, Vivarelli stesso lo ammette, pur sostenendo che una lettera al Ponte del '55 valesse già a regolare il conto, quando attribuisce al libro di Pavone di aver tratto da un'inconfessabilità non burocratica il suo antico passato - e se non sia imbarazzante l'oltranzismo col quale fino a ieri Vivarelli si è fatto sorvegliante dell'ortodossia antifascista nei suoi scritti e nelle cariche ricoperte negli Istituti di storia della Resistenza. (Non parlo solo delle polemiche con De Felice, ma di quelle accesamente e a volte rudemente rivolte contro le revisioni compiute da una storiografia proveniente da sinistra, come certi studi sulle stragi militari tedesche in Italia, o sui contrastanti sentimenti popolari nei confronti delle azioni partigiane, di cui proprio Mieli segnalò l'originalità). Tutto ciò appartiene a un di più della polemica pubblica, che va oltre il suo merito vero e magari anche le intenzioni dei protagonisti, com'era appena successo a d'Orsi. Con altra penna, che non sia della storia o della politica, si potrebbe forse interrogarsi sulla duplicità (non necessariamente doppiezza) di alcune vite: perfino quella del professor Marsiglia mi interessa più che non il lieto fine dello smascheramento. Ma qui la penna è prosaica. Qui, mi pare, la discussione con Vivarelli può lasciare il posto alla discussione con Paolo Mieli, vero autore del "caso". Prima vorrei però completare le osservazioni su quella espressione diventata così fatidica, e forse troppo, della guerra civile. In Lenin idee che esistevano da tempo, soprattutto quelle tratte dal gran repertorio della Rivoluzione francese e della Comune, furono rilegate in un'ingegneria sociale maniacale, da far servire all'insurrezione e alla presa del potere. Stalin sarà il volgarizzatore ulteriore di quella sistemazione, tradotta in manuali e in regolamenti di polizia, da far servire all'onnipotenza dell'Organizzazione. Per Lenin la guerra civile diventava un traguardo da agitare e, una volta realizzata la condizione, da perseguire inflessibilmente. La condizione della guerra civile, tramutata così per la prima volta in un fine, è l'esistenza della guerra: la guerra per definizione, la guerra fra gli Stati e fra gli Imperi. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile: è qui l'intera lezione della competenza rivoluzionaria bolscevica. (E della sua "superiorità" sui Giacobini: che passano per campioni proverbiali di radicalità, e in realtà ebbero il cuore spaventato dalla propria vittoria finale. Lenin invece volle vincere). La vulgata comunista assegnava a Lenin il merito lungimirante di aver colto "scientificamente" la natura imperialista del conflitto fra le potenze esploso nel 1914, e di essersi sottratto alla bancarotta "socialpatriottica" della Seconda Internazionale, tenendo ferma la bandiera dell'Internazionalismo proletario. Ma in questo Lenin non era stato solo, né era qui il punto. In Italia un giudizio analogo - e perfino più intransigentemente ortodosso, secondo il carattere sorprendente di quel settario napoletano - venne da Amadeo Bordiga, cioè dal vero leader della sinistra marxista e dal vero fondatore del P.C.d'I. (poi efficacemente cancellato, e calunniato, dalla memoria comunista). Natura imperialistica della guerra, necessità del proletariato di non compromettersi in alcun modo con essa: di questo Bordiga era convinto e anticipò addirittura Lenin nel giudizio, mentre i più, e lo stesso giovane Gramsci, sentivano l'attrazione dell'interventismo democratico. Ma Bordiga pensava alla guerra mondiale come a una gigantesca tragedia per la lotta del proletariato, travolto nella carneficina dalla superstizione delle patrie: e che a quella bufera i comunisti veri dovessero resistere tenendo saldi i loro ideali e custodendone la bandiera in attesa del giorno in cui, passata la tempesta, si potesse riprendere il filo spezzato della lotta di classe e della sua organizzazione rivoluzionaria. Al contrario, Lenin. Dove Bordiga vedeva una tragedia e la necessità di testimoniare la verità in attesa di nuovi tempi, Lenin vedeva un'opportunità decisiva. La guerra c'era, ai rivoluzionari di trasformarla in guerra civile. Brest-Litovsk fu questo, e l'Ottobre del 1917 rispetto al Febbraio; e, fatalmente, la vera trasformazione dell'idea della Rivoluzione in quella della Guerra Civile, di una mobilitazione permanente della classe (cioè del Partito e dei suoi apparati polizieschi e militari) secondo i modi delle azioni di guerra, dell'economia di guerra, dei tribunali di guerra, della dittatura di guerra. La consacrazione feticista della guerra civile divenne il vero carattere del bolscevismo (e, poi, di altre colossali esperienze di comunismo asiatico): e, com'è noto, il suo oltranzismo classista - contro i kulaki, cioè i contadini ricchi e poveri, e i borghesi di ogni rango, e gli intellettuali ecc. - non gli impedì di includere un oltranzismo sciovinista, grande-russo, antisemita ecc. Mi scuso della pedanteria. Mi importava sottolineare il rovesciamento, inedito perlomeno con quella determinazione e su quella scala, della nozione di guerra civile in una idea positiva, un valore. E chiedermi se nell'irriducibile divergenza del nostro dopoguerra sull'uso di quella nozione per il '43-'45 avesse un peso anche la nuova tradizione che rendeva positiva la guerra civile. Per esempio, sull'aspirazione comunista rivoluzionaria a "completare" la Resistenza trasformando la guerra di Liberazione nazionale in guerra civile per l'avvento di una repubblica sovietista. Per l'ala radicale della Resistenza la guerra civile sarebbe stata piuttosto quella di classe, bandita dalla direzione togliattiana e trascinata poi variamente fino alla primavera del '48. Non tengo alla proprietà delle denominazioni quanto alla loro influenza sostanziale. Quella duplice e divergente nobilitazione della guerra civile, fascista-saloina e comunista-rivoluzionaria, si è protratta assai oltre. (Nello stesso nostro estremismo di sinistra degli anni '70 lo slogan sulla "guerra civile" tornò, con tanta altra rigatteria, ed ebbe una sua influenza sul tragico inganno della "lotta armata"). Di recente ne ho diffidato quando, quasi per inerzia, la guerra civile è stata evocata a spiegare (cioè: a non spiegare) la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia. Lì sono successe molte cose orribili, insieme o successivamente: anche una guerra fra Stati e nazioni, e soprattutto una guerra ai civili. Per un lunghissimo tempo in Bosnia si è svolta una guerra dello Stato e dell'esercito serbista contro i civili bosniaci. Descrivere l'assedio di Sarajevo con la categoria di guerra civile rischiava l'oltraggio alle vittime e al pudore. Oltretutto, affiancati al nome di guerra civile gli orrori prendono un senso atavico e pressoché metafisico. Succede che i crimini di guerra si pretendano inafferrabili, perché la guerra è per definizione madre di crimini e crimine essa stessa, e che gli orrori riempiano per definizione la guerra civile e ne siano quasi giustificati. Propongo di accorgersi che nel nostro mondo non esistono più - o esistono sempre meno, e più torbidamente - sia le guerre, che le guerre civili: esiste sempre più la guerra ai civili. Verrei ora alla discussione con Mieli: che ha bisogno però dello spazio di una prossima puntata.

domenica 13 aprile 2008

Pasolini e la società

Delusione e "disperata vitalità" (1963-1975)


Ho dovuto decidere su quale anno fosse da porre come inizio della disperazione pasoliniana. La scelta è caduta sul 1963, a motivo di queste drammatiche espressioni:
"Facciano scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sarà lo stesso: una guerra in cui l'uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre."
"Si produrrà e si consumerà, ecco. E il mondo sarà esattamente come oggi la Televisione - questa degenerazione dei sensi umani - ce lo descrive, con stupenda, atroce ispirazione profetica."
Quanto sia oggettiva questa previsione senza luce di speranza e quanto invece derivi dalle ragioni poetiche particolari di lui, non posso, almeno per ora, nemmeno chiarirlo a me stesso. Quel "forse" di cui alla citazione n. 1, lascia intendere che una pur difficile via di salvezza è ancora possibile, purché si abbia il coraggio di mettersi in crisi e accettare umilmente il dolore (composto a volte di solitudine ed emarginazione) in vista della propria crescita umana e culturale.
Il 1964 è un anno speciale per il nostro, che a motivo del suo film sul Vangelo di Matteo, auspica, attraverso dibattiti in giro per l'Italia e il dialogo con i lettori della rivista «Vie Nuove», la necessità di un incontro democratico tra cattolici non clericali e marxisti non dogmatici. Figura di riferimento è naturalmente Papa Giovanni, che grazie alla sua cultura ha saputo avere uno sguardo non autoritario sul mondo e sugli uomini, che non vanno perciò distinti in assolutamente buoni o assolutamente cattivi.
Il marxismo, peraltro, può superare la necessità filosofica dell'ateismo, necessità che nasceva dal positivismo, ma che ora non ha più motivo d'essere perché la scienza ha superato lo stesso positivismo. Il marxismo non deve essere cristallizzato in un sistema fisso e dogmatico. Se così fosse, sarebbe la copia atea del dogmatismo clericale.
Tuttavia Pasolini è pessimista riguardo al futuro, perché ritiene che i dirigenti comunisti non si sono accorti in tempo della svolta neocapitalistica della borghesia, che tende a borghesizzare e disumanizzare il mondo, rendendo gli uomini degli automi. Gramsciana mente parlando, i neocapitalisti non sono classe dominante, ma qualcosa di peggio, cioè classe egemone, perché si pongono come centro culturale con la nuova lingua tecnocratica che uccide l'espressività in nome di una spietata strumentalità. Ce ne accorgiamo benissimo: tutto è merce, gli stessi individui sono merce da sfruttare. Questa disperazione però lascia spazio alla speranza che prima o poi, fosse anche nel corso di secoli, gli uomini ritrovino la loro libertà autentica che è nell'espressività, cioè nei sentimenti veri, non indotti dalla cultura di massa.
Per questo vede - alla metà degli anni '60 - l'alleanza tra cattolici progressisti e marxisti non dogmatici, come uno dei mezzi possibili per lottare contro il materialismo (in senso volgare) ateo, cinico e disumanizzante alla base del neocapitalismo, sintesi di tutto ciò che è condannato dal Vangelo.
Insistendo sul tema della crisi del marxismo, suscita le ire di suoi avversari intellettuali o semplici lettori, che lo accusano di essere un letterato decadente che non conosce nemmeno i primi elementi del marxismo. I toni usati da quegli avversari sono aspri e denigratori, l'ennesimo capitolo di una persecuzione, che è poi quella che lo ferisce di più giacché proviene da persone di sinistra.
A una ragazza che gli scrive su «Vie Nuove» di voler studiare all'università ma non avere i soldi per farlo, risponde:
"Puoi leggere, leggere, leggere, che è la cosa più bella che si possa fare in gioventù: e piano piano ti sentirai arricchire dentro, sentirai formarsi dentro di te quell'esperienza speciale che è la cultura."
Nel '66 prepara con Moravia una nuova serie della rivista «Nuovi Argomenti», finalizzata a chiarire la crisi del marxismo e prospettare le possibili soluzioni ad essa, cercando pure di rifondare la cultura marxista.
In una intervista di Oriana Fallaci, durante una visita a New York, dice che ha ancora delle speranze, ma che queste gli vengono ora non dall'Europa, bensì dagli Stati Uniti, dove si è accorto che gli uomini sono idealisti pur nel loro pragmatismo; inoltre la Nuova Sinistra americana, gli studenti politicamente impegnati per l'emancipazione dei neri, promettono bene: a suo parere, essi non sono né comunisti né anticomunisti, ma mistici della democrazia, vogliono portarla cioè sino alle estreme conseguenze.
Cominciando ad occuparsi del fenomeno "televisione", comprende che vengono accettati nel circuito televisivo solo gli imbecilli e gli ipocriti. La regola è dire fesserie o saper mentire. Se a dibattiti in TV sono invitati degli intellettuali, anche buoni come Moravia o Attilio Bertolucci, questi devono tacere, non dire ciò che realmente pensano, perché altrimenti verrebbero danneggiati nei loro interessi di letterati.
Nel '67, riguardo la Guerra dei Sei Giorni tra Israele e alcuni Stati arabi, il nostro è dalla parte di Israele, il cui Stato è minacciato dal fanatismo musulmano.
Il neocapitalismo minaccia il mondo della cultura. Pasolini, nel '68, ritira per protesta il suo romanzo Teorema dal Premio Strega, ormai dominato dalle clientele editoriali. Si batte insieme ad altri registi per l'autogestione della Mostra del Cinema di Venezia, ma il Governo interviene con la polizia. Ovviamente il potere, che è cinico ed egoista, ha paura di ogni tentativo di democrazia reale e diretta.
Contro gli studenti che a Roma si scontrano con la polizia, il primo marzo 1968, presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, scrive la famosa poesia Il PCI ai giovani!! che tante polemiche suscita in seno agli intellettuali di sinistra e al Movimento Studentesco: egli sostiene che gli studenti sono dei figli di papà, la loro è una finta rivoluzione, in realtà è la borghesia stessa che per auto perpetuarsi si punisce attraverso loro, che ormai appartengono al mondo del benessere consumistico: disprezzano la vera cultura, sono dei moralisti che aspirano al potere. Simpatizza invece per i poliziotti, essi sì figli di poveri, anche se resi "sicari" del mondo del potere. Insomma, una provocazione, con cui l'Autore dà ai giovani studenti contestatori un metaforico pugno nello stomaco, affinché nasca in loro una coscienza critica. Li invita infine ad occupare le fabbriche e le sedi del PCI.
Solo Moravia ammette di pensarla come lui ma di non averlo detto perché uno scrittore deve prendersi i suoi tempi e non scrivere a caldo, come invece è tenuto a fare un poeta.
Pasolini parla anche di quello che gli appare come "fascismo di sinistra", composto di taluni militanti e intellettuali marxisti (moralisti e borghesi) che creano un alone di terrore e ricatto intorno a chi non la pensa come loro, soprattutto nei confronti di intellettuali liberi da dogmi sia pur laici.
Gli spiriti liberi sono sempre perseguitati, perché non hanno accettato alcun potere: vedi il caso Braibanti, l'intellettuale omosessuale condannato per plagio, oppure, in campo cattolico, Padre Arpa, accusato di truffa, colui il quale ha difeso la Dolce Vita di Fellini contro le gerarchie ecclesiastiche.
La droga diventa fenomeno di massa e Pasolini osserva che chi si droga lo fa per mancanza di cultura, per riempire un vuoto esistenziale, per un generale senso di "paura del futuro". Comunque è contrario ad ogni forma di repressione: la tossicomania è da tollerare come la pornografia, anche se entrambe sono fenomeni negativi.
Nel 1969 il dodicenne viareggino Ermanno Lavorini viene rapito a scopo di estorsione da un gruppo di ragazzi monarchici, che lo uccidono; arrestati, depistano le indagini parlando di un giro di prostituzione maschile e segnalano, tra gli altri, Adolfo Meciani, che si suiciderà in carcere. Viene quindi scoperta l'infondatezza delle loro accuse e Pasolini se la prende con gli investigatori e i giornalisti, che per accontentare il gusto di linciaggio dell'italiano medio, hanno enfatizzato la figura di "mostro" del diverso di turno, capro espiatorio di una società repressa e repressiva, essa sì "mostruosa".
Quando viene scoperta la verità, è messo a tacere tutto sui giri di prostituzione viareggini, perché sono implicati, come in ogni altra città d'Italia, personaggi eminenti di ogni classe sociale, partito, fede.
In Sicilia, a Zafferana, Pasolini fa parte della giuria che assegna il Premio Brancati al libro di Michele Pantaleone Antimafia: un'occasione mancata, coraggiosa denuncia contro il potere mafioso. Il premio viene contestato dai giornali fascisti e ignorato da quelli di sinistra.
Prevede ormai l'imborghesimento di tutto il mondo, per cui il problema sarà sempre più quello di essere borghesi "buoni" e non borghesi "cattivi". I primi ovviamente sono socialisteggianti, amanti della cultura, contrari ad ogni forma di livellamento e di massificazione e di acculturazione. Anche il Terzo Mondo è destinato a diventare piccolo-borghese e industriale. Ciò che però resta indiscussa è l'impossibilità di una previsione certa sul futuro: quindi lui stesso ammette che ogni suo giudizio vale per il momento in cui lo dà.
All'estero, a Praga, il giovane Jan Palach si suicida dandosi fuoco come protesta contro l'oppressione sovietica in Cecoslovacchia. Pasolini dice che sul piano politico è stato un suicidio inutile e inopportuno in quanto strumentalizzato dalle forze reazionarie anti-comuniste; ma sul piano ideale, Jan ha fatto bene in quanto si è espresso col suo corpo come un eroe antico. E' ovvio che Pasolini è contrario alla politica violenta sovietica e critica inoltre la classe dirigente dell'URSS che ha deformato il mito comunista.
Assistendo per pochi minuti (di più non resiste) alle trasmissioni televisive come il Festival di Sanremo o Canzonissima, si accorge dell'involgarimento della società del benessere, la cui massa vive su un piano sottoculturale.
Invita l'organizzazione per la difesa del patrimonio artistico e paesaggistico nazionale «Italia Nostra», a far propri certi metodi di contestazione studentesca, per convincere gli uomini politici ad occuparsi una buona volta dei monumenti italiani, che invece sembrano destinati alla deturpazione. Chi non sente l'urgenza del "problema della bellezza" ed è utilitarista, è come se non amasse realmente la vita, la sua continuità.
Scomparsa la speranza in una rivoluzione comunista, a lui non resta che sorridere (con un male accettato umorismo) di cose che in passato lo avrebbero fatto arrabbiare e lottare (come l'involgarimento delle masse); si rifugia quindi nell'utopia, che gli permette di sopravvivere. I suoi messaggi morali o politici non hanno un contenuto fisso, ma sono "a canone sospeso", cioè riempibili, da parte dei destinatari, di significati diversi nel tempo e nello spazio. Essere rivoluzionari a parole o senza tener conto delle condizioni obiettive della società, significherebbe fare il gioco della controrivoluzione.
A chi lo accusa di misoginia, risponde che il suo difetto è semmai quello di rappresentare la donna solo nel suo lato angelico e di vedere in lei una esclusa come è anche lui stesso. Del resto, non è in grado di disprezzare nessuno completamente, etichettarlo con un giudizio definitivo, perché vede in ogni persona (e cosa e animale) un profondo sacro mistero. Per questo si scandalizza sempre più per l'assenza di senso del sacro nei suoi contemporanei.
Nel 1970 non è ancora evidente la trasformazione corporale degli operai e dei contadini, che ai suoi occhi appaiono ancora innocenti nel fisico, anche se parlano come gli studenti contestatari borghesi, cioè dicono frasi moralistiche, ricattatorie e terroristiche. La povertà costringe chi ne è vittima ad essere buono, anche se si tratta di un "picciotto" della mafia, che in quanto povero non ha alternative; del resto, gli stessi vertici della società che lo esclude a una vita onesta, sono collusi con i capi-mafia.
Società neocapitalistica e società comunista sono interscambiabili, ormai, in quanto distruggono con prepotente tecnicismo i valori e i monumenti tradizionali del mondo. Il passato, anche se crudele, rendeva più felici, con i suoi valori di semplicità e povertà.
Considera i carcerati non fascisti i veri contestatari della società del benessere: essi sì poveri e appartenenti alla classe dominata, mentre i giudici fanno parte della classe dominante. Non c'è ancora il Pasolini (quasi) totalmente pessimista del '75, che vede il male sia negli sfruttati che negli sfruttatori, il male come desiderio di possedere e distruggere.
Teme nel mondo una reazione di destra, favorita anche da certi estremismi di sinistra, che sono una forma di sottocultura borghese.
Disprezza il revival spiritualista, attraverso il quale giovani e meno giovani contestano apparentemente la società del benessere, mentre in realtà, con la loro sottocultura, fanno il gioco della reazione di destra.
Ai suoi occhi il connubio tra neoavanguardia e contestazione giovanile appare un "monstrum" fatto di moralismo, ricatto e terrorismo.
Nel luglio '70 alcuni rivoltosi democristiani e missini di Reggio Calabria provocano disordini perché come capoluogo della regione è stata scelta la città di Catanzaro: Pasolini, col solito acume, smaschera l'irrealtà di questo problema, che non ha alcuna attinenza con i reali bisogni della popolazione.
In Italia il popolo aspira a diventare piccolo-borghese, consumando i beni imposti dalla società del benessere e, quel che è peggio, abiurando ai propri valori tradizionali dialettali. Solo i napoletani resistono, ma la loro resistenza è votata al fallimento, perché è fatale che il mondo diventi totalmente industrializzato e involga rito per mezzo della cultura di massa. Moriranno i napoletani autentici e fedeli a se stessi e saranno sostituiti da altro tipo di cittadini, obbedienti al Potere neocapitalistico.
Nel '71 collabora, tacitando parte della sua coscienza, con alcuni militanti di «Lotta continua», a un anno dalla strage della Banca dell'Agricoltura di Milano; avverte i suoi nuovi amici che il pericolo maggiore per l'estrema sinistra è il moralismo. Presta anche il suo nome come direttore del giornale «Lotta continua» e verrà denunciato per reati di opinione.
Nel '72 osserva che la falsa liberalizzazione sessuale è giunta anche nell'Italia centro-meridionale. I ragazzi non si iniziano più tra loro e con le prostitute, ma vengono istruiti dalle ragazze secondo i valori del benessere piccolo-borghese neocapitalistico. Avere la fidanzata diventa un obbligo sociale, quindi spesso la si ha non per amore ma per farsi invidiare da chi non ce l'ha e per non passare per incapace o diverso.
L'eccesso sessuale, non associato ad interessi culturali, determina nevrosi nelle nuove generazioni. Il corpo della donna viene più che nel passato, strumentalizzato, ridotto a merce in televisione o sui giornali, e nei quartieri popolari una ragazzina fa l'amore anche con dieci ragazzi al giorno. Chi è diverso viene tollerato purché resti nel suo ghetto mentale e fisico: la permissività è la peggiore delle forme di repressione.
Tra il '73 e il '75 intensifica la sua attività di polemista nei confronti di società e mondo politico, affermandosi come il "Pasolini corsaro".
Accusa la magistratura di parzialità nelle indagini e nei processi. Quando ci sono per un crimine politico due piste, una che porta all'estremismo rosso, l'altra a quello nero, i magistrati italiani preferiscono, per tacita solidarietà di classe dominante, seguire la pista rossa. Gli appare chiaro che le azioni violente e delittuose dei fascisti sono dettate e calcolate nel cuore delle istituzioni, con freddo machiavellismo.
Occupandosi del fenomeno dei "capelloni" ricorda che nei primi tempi in cui comparvero, cioè ancor prima della contestazione del '68, poteva essere un fenomeno tutto sommato positivo, di silenziosa e anarchica protesta contro la società del benessere. In seguito capelloni sono diventati tutti, così che non si distinguono più militanti di destra da militanti di sinistra e c'è sempre il pericolo concreto, nelle manifestazioni comuniste o estremiste di sinistra, della presenza di agenti provocatori fascisti per nulla diversi nell'abbigliamento e nella fisionomia dai veri militanti.
Capelloni possono anche essere ormai dei piccolo o medio borghesi che testimoniano la loro moderna integrazione nella società del benessere.
Prevede che la Chiesa pagherà con la estinzione il suo pragmatico accordo col potere neocapitalistico, che la usa come usa anche i fascisti tradizionali, cioè per lotte storicamente ritardate. In effetti il nuovo Potere è del tutto irreligioso e non sa che farsene dei valori clerico-fascisti. Esso vuole una società di consumatori e basta.
Quindi la reazione di destra, nei primi anni '70, secondo lui ha due aspetti: 1) una lotta reazionaria contingente per l'affermazione del clerico-fascismo; 2) l'effettiva nuova e definitiva rivoluzione neocapitalistica in nome dell'edonismo consumistico e della cultura di massa (vengono così distrutti i valori popolari e umanistici); quindi in politica e in economia, il nuovo fascismo tecnocratico.
Nel '73 si ha un breve periodo di austerity, a causa della crisi petrolifera: Pasolini si illude che l'Italia potrebbe tornare indietro, seguire la via del "progresso" e non più dello "sviluppo", ma presto capisce che la società consumistica è irreversibile.
"Progresso" è per lui ciò che vorrebbero i lavoratori e gli intellettuali di sinistra, cioè un mondo a misura d'uomo, che rispetti tutti i valori culturali che rendono la vita basata non solo sull'utile ma anche sul bello. "Sviluppo" è invece l'industrializzazione totale del mondo, voluta dai cinici produttori di beni superflui e dagli inconsapevoli, ma non meno trionfanti, consumatori. Lo "sviluppo" è sempre di destra, anche se viene accettato pure dalla sinistra. Il "progresso" infatti resta un ideale astratto, perché tutti quanti vivono esistenzialmente come consumatori.
Ormai la repressione neocapitalistica l'ha avuta vinta sulle menti della massa dei giovani sottoproletari. Mentre prima erano fieri di avere una propria identità popolare e disprezzavano i "figli di papà", cioè gli studenti borghesi, adesso invece vogliono essere all'altezza di questi ultimi, e non riuscendovi (perché non hanno abbastanza denaro), diventano infelici e nevrotici, o spietati criminali. Prima possedevano, pur nell'ignoranza, il mistero della realtà; adesso vivono nella Irrealtà. Nessun potere mai in passato era riuscito ad attuare un simile genocidio di valori.
Cosa può salvare l'Italia dal diventare un Paese completamente nazista, se è vero che questi giovani cominciano a somigliare alle SS di Hitler? Una opposizione di sinistra efficace, una nazione onesta dentro la nazione disonesta. E inoltre una opposizione (culturale) alla cultura di massa. Velleitariamente Pasolini parla ancora di rivoluzione comunista, ma sotto sotto è consapevole che ci si dovrà sempre più accontentare del "potere meno peggio" dato dal compromesso storico tra democristiani e comunisti: la socialdemocrazia. Quanto a sé come persona, lui resta legato al mondo antico preborghese e preindustriale: per questo viaggia spesso nel Terzo mondo, dove ha ancora la possibilità di incontrare sguardi di autentica simpatia e felicità, pur nella miseria (ma è fatale che ogni uomo appartenga al tipo di cultura in cui si è formato; e la sua esperienza decisiva è stata tra i contadini friulani: non può abiurare a tale formazione).
Vede di buon occhio il movimento dei radicali, che stanno promuovendo nel '74 una serie di referendum per tentare di riportare una legalità democratica in Italia e per valorizzare i diritti civili, tra i quali spiccano divorzio e aborto. Su quest'ultimo, come vedremo più in là, Pasolini ha delle riserve.
La vittoria dei radicali sul divorzio è prevista dal nostro (più lungimirante evidentemente sia dei democristiani sia della Chiesa sia degli stessi comunisti). I potenti al governo e alla opposizione non si sono accorti che la gente è mutata antropologicamente e non è più attaccata ai valori tradizionali di Patria Chiesa Famiglia, bensì a quelli del benessere superfluo. E' il Potere consumistico che ha voluto la vittoria del divorzio, perché ciò rientra nel suo progetto di una dittatura che vuole ridurre tutti a edonisti di bassa lega.
La Chiesa sta scomparendo come figura istituzionale morale: resta solo un potere finanziario alleato dei potenti di turno. Paolo VI è consapevole di ciò, della fine della religione, ma non ha altro rimedio da consigliare che quello irrazionale della preghiera. Invece, secondo Pasolini, la Chiesa dovrebbe rinunciare al potere e diventare guida dell'opposizione a questo tipo di società disumana che è la società dei consumi superflui. Dovrebbe ritornare alle origini, al tempo della predicazione di Cristo e dei suoi discepoli. Dovrebbe rinunciare alla sua cultura assolutista e abbracciare la cultura libera e antiautoritaria, in continuo divenire, contraddittoria, collettiva e scandalosa. Dovrebbe rifiutare il Concordato tra Stato e Chiesa. Ma è chiaro che non farà nessuna di queste cose per non perdere soldi e potere. C'è chi, all'interno della Chiesa, cerca di porsi realmente questi problemi e dare analoghe soluzioni, come Dom Giovanni Franzoni, che viene sospeso dal Vaticano a divinis.
Continuano intanto le "stragi di Stato": in esse lui vede una "strategia della tensione", voluta dai potenti, prima in funzione anticomunista (per combattere contro il pericolo di una vittoria della contestazione del '68) poi in funzione antifascista, per darsi una verginità di antifascismo che non ha più senso storico, in quanto il fascismo tradizionale è del tutto superato e chi spera in una dittatura di tipo mussoliniano o è uno stupido ingenuo o è in malafede, come appunto questi governanti di centro-destra, che sono i reali nuovi fascisti. I giovani estremisti di destra e di sinistra sono solo le pedine di un gioco diretto dal nuovo fascismo tecnocratico.
Rimprovera se stesso e gli altri intellettuali di sinistra di non aver dialogato con i giovani neofascisti, la cui scelta ideologica è stata dettata dalla disperazione: se fosse stato fatto il tentativo di farli ragionare, forse alcuni di loro non sarebbero diventati fascisti.
Per le sue idee scomode a tutti (tranne evidentemente a Pannella e ai radicali, il cui realismo fondato però su ideali intransigenti, spaventa il Potere) viene criticato da tanti anche di sinistra, come Maurizio Ferrara, che lo accusa di estetismo, di rimpiangere una "età dell'oro", ed anche Italo Calvino, che pensa a un rimpianto pasoliniano dell'«Italietta» piccolo-borghese: Pasolini è offeso perché Calvino dovrebbe sapere che il suo rimpianto è rivolto alla Resistenza e alle speranze di una repubblica nazional-popolare, l'esatto contrario dell'«Italietta».
Precisa che la sua disperazione non è mai totale, perché altrimenti cesserebbe anche di parlare, di occuparsi dei problemi del mondo.
Il 14 novembre 1974 esce sul «Corriere della Sera» il famoso articolo di Pasolini sul "romanzo delle stragi". Dice di sapere i nomi dei responsabili e dei mandanti politici delle stragi, ma non può farli perché manca di prove e indizi. Chi, anche se fa parte dell'opposizione, ha prove e indizi non li fa certo i nomi perché è compromesso col potere.
Il 1975, l'ultimo anno di vita, lo vede battagliare su più fronti:
1) sua prima meditazione metafisica, determinata dagli interessi semiologici che lo avevano già convinto che la Realtà è Linguaggio (adesso approda ad una sorta di concezione spinoziana del divino: Dio sarebbe la Realtà che parla con se stessa);
2) riflessione sul consumismo (egli non è contrario al consumismo come viene vissuto nelle altre nazioni, dove le brutture della cultura di massa sono compensate da una reale qualità della vita data da istituzioni forti e opere pubbliche necessarie - scuole, ospedali ecc. - decenti; è contrario al consumismo italiano, che fa circolare beni superflui senza aver prima risolto il problema dei beni necessari);
3) lotta contro l'intolleranza reale (mascherata dalla finta tolleranza) che colpisce gli omosessuali: l'omosessualità è un rapporto sessuale come tutti gli altri, che non degrada chi lo compie, anzi lo fa diventare più fraterno rispetto agli altri uomini e consapevole della costitutiva bisessualità di ogni essere sessuato;
4) polemizza con i giornalisti, da cui ritiene di essere perseguitato perché è un artista che si può permettere, al contrario della gran massa dei giornalisti italiani, di fare anche del giornalismo indipendente: non potendogli perdonare questa insubordinazione, lo accusano di essere un vizioso;
5) l'aborto: lo ritiene un omicidio, perché il feto ha una volontà di crescere e nascere; l'aborto va prevenuto informando la popolazione su una sessualità alternativa al coito e sui metodi anticoncezionali: è chiaro per lui poi, come dice il Pci, che l'aborto va legalizzato in determinati casi e responsabilmente, e non in ogni caso e trionfalmente come vorrebbe il Potere consumistico, che enfatizza il coito tra maschio e femmina per motivi di produzione e consumo di beni superflui: chi fa l'amore consuma maggiormente questi beni (una coppia non può, ad esempio, non possedere un'auto);
6) propone un (metaforico, ma possibilmente anche concreto) Processo penale ai governanti democristiani rei di non aver compreso e tanto meno lottato contro il nuovo Potere consumistico: essi sono rimasti mentalmente all'epoca del clerico-fascismo e nei fatti hanno rovinato l'Italia deturpandola sia paesaggisticamente che antropologicamente, perpetuando la solita politica mafioso-clientelare;
7) dà alcune lezioni di pedagogia a un ipotetico ragazzo napoletano di nome Gennariello, al quale consiglia la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile; gli ricorda che è il possesso culturale del mondo che dà la felicità;
8) contro la criminalità di massa (ritiene che tutti i giovani siano dei criminaloidi, potenziali carnefici tipo i massacratori del Circeo, senza un conflitto interiore tra bene e male, perché la loro colpa viene prima ed è nell'aver scelto di non avere alcuna pietà) propone due soluzioni "assurde": a) abolire immediatamente la scuola media dell'obbligo (che insegna a diventare dei presuntuosi ignoranti ipocriti piccolo borghesi); b) abolire immediatamente la televisione (che toglie i valori della tradizione popolare sostituendoli con falsi modelli consumistici che rendono i giovani nevrotici, infelici e appunto criminali, perché molti non hanno i soldi per essere all'altezza dei "figli di papà", da loro invidiati). Nel suo gergo abolire sta per riformare radicalmente, perché la scuola dell'obbligo dovrebbe insegnare ai ragazzi la scuola guida e il galateo stradale, oltre a come risolvere i problemi burocratici e rispettare il paesaggio... dovrebbe insegnare una sessualità completa ma non nevrotica e dare la possibilità di molte libere letture commentate; la televisione sarebbe meglio che diventasse pluralista, con programmi concorrenziali gestiti dagli stessi partiti politici (si tratterebbe di portare alla luce del sole la sotterranea lottizzazione della Rai): lo spettatore potrà confrontare criticamente i vari programmi e farsi una idea propria;
9) prepara il testo di un intervento al Congresso del Partito radicale, ma non fa in tempo a leggerlo (verrà letto a Firenze due giorni dopo la sua morte): ribadendo di essere sempre un marxista che vota Pci, ha speranze sia nel Pci che nei radicali; avverte il pericolo di una falsa realizzazione dei diritti civili, falsa perché intollerante verso ogni reale alterità; suggerisce per questo ai radicali di valorizzare tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura; li esorta a restare sempre se stessi, eternamente contrari e irriconoscibili, a identificarsi col diverso, a scandalizzare;
10) rilascia, il giorno prima di essere ucciso, la sua ultima intervista, a Furio Colombo, nella quale dice che ormai gli sfruttati vogliono stare al posto dei padroni, tutti sono ormai vittime e carnefici a causa dello stesso sistema di educazione al possedere e al distruggere; però dice anche di sperare in un ritorno futuro della autentica mentalità rivoluzionaria di chi vuole lottare contro i padroni senza prenderne il posto; una delle sue ultime frasi dà il titolo all'intervista: "Siamo tutti in pericolo."