Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi che tornano su Roma, e che a noi altrove
ancorati a una luce d’altri tempi, sembrano portati da inutili venti,
tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.
Col sorriso confuso di chi la timidezza e l’acerbità sopporta con allegrezza,
vieni tra gli amici adulti e fieramente umile, ardentemente muto, siedi attento
alle nostre ironie, alle nostre passioni. Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,
vergognandoti quasi del tuo cuore festoso... Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,
ma perché esiste: per te, perché tu sia nuovo testimone, dolce-contento al quia...
Rimani tra noi, discreto per pochi minuti e, benché timido, parli, con i modi già acuti
dell’ilare, paterna e precoce saggezza. Esponi, orgoglioso, la tua debolezza
di adolescente, leso appena al ridicolo che ha la troppa umiltà in un mondo nemico...
Al giusto momento, ci lasci, ritorni alla segreta luce dei tuoi primi giorni:
alla luce che certo tu non puoi dire né, noi, ricordare, una luce d’aprile
in cui la coscienza con le sue gemme sfiora solo la vita, non la storia ancora.
Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,
o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi, ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,
se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi ormai siamo, vuoi che le perdute notti
del nostro tempo siano come la tua fantasia pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia
la parte di vita che noi abbiamo spesa disperati ragazzi in una patria offesa.
Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni - tra macerie, strade deserte e prigioni -
delle nostre figure per te ormai remote. Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,
tu, così puro, il male, così limpido l’odio, ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi
l’occhio ferito, parteggiando intero per chi lottava in nome del sentimento vero.
Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato da quell’avventura, in che cosa è mutato
lo spirito di questa povera nazione dove provi tra noi la tua prima passione;
sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa
trovino nel tuo dolce desiderio di vita... Vuoi sapere l’origine della tua pudica
voglia di sapere, s’essa ha già dato prova di tanta vita in noi, e adesso cova
già nuova vita in te, nei tuoi coetanei. Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,
da noi scoperta e da te trovata, grazia anch’essa, nella terra rinata.
Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.
La risposta, se c’è, è nella pura aria del crepuscolo, accesa sulle mura
del Vascello, lungo le palazzine assiepate nel cuore del sole che declina.
Le sere disperate per il troppo tepore che nei freddi autunni, dimenticato muore,
o, dimenticato, in nuove primavere torna improvviso - le disperate sere
in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi, o il fresco appuntamento con giovani modesti
come te, e felici, esci svelto di casa, mentre nel rione suona la sera invasa
dall’ultimo sole - penso a quel serio, candido ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.
Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere, se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.
Era un mattino in cui sognava ignara nei rósi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d’erba come cresciuto a stento era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiava esanime nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti, la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba del binario, attendeva il treno di Spilimbergo...
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta, dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella, nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta ch’era stata mia, la nuca giovinetta...
Ritornai indietro per la strada ardente sull’erba del marzo nel sole innocente;
la roggia tra il fango verde d’ortiche taceva a una pace di primavere antiche,
e i rinati radicchi da cui vaporava un odore spento e acuto di rugiada,
coprivano il dorso della vecchia scarpata grande come la terra nell’aria riscaldata.
Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna: liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana
pace del lavoro, nel parlante amore muti, tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,
vigne e casolari azzurri di solfato, - nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.
Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro, legati a quel dolore che ancora oscura il petto.
Ci togli questa luce che a te splende intera, ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera...
Noi invecchiati ora nient’altro diamo che doloroso amore alla tua lieta fame.
Anche la tua stessa pietà, che cosa dice se non che la vita solo in te è felice?
Perché, per fortuna, quel nostro passato, vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.
In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi di esso solo quanto può adesso valerti...
Nella tua nuova vita non è esistito mai fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai
perché vuoi sapere: esiste solamente in te come un crudele dolce fiore il presente.
Che tutto sia davvero rinato - e finito – sia tutto - è scritto nel tuo sorriso amico.
È vizio il ricordare, anche se è dovere; a quei morti mattini, a quelle morte sere
di dodici anni or sono, non sai se più rancore o nostalgia, leghi il nostro cuore...
L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza, voce che contraddice la vitale presenza!
Fosse, com’è in te, la spietata gioia di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!
Ciò che potevamo risponderti è perduto. Può parlarti - se, tu ragazzo, sai il muto
suo nuovo linguaggio di ragazzo - soltanto chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto...
Era ormai quasi estate, e i più bei colori ardevano nel mite, friulano sole.
Il grano già alto era una bandiera stesa sulla terra, e il vento la muoveva
fra le tenere luci, riapparse a ricolmare di festa antica l’aria tra i monti e il mare.
Tutti erano pieni di disperata gioia: sulla tiepida polvere delle vie ballatoi
e balconi tremavano di fazzoletti rossi e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi
bande di ragazzi andavano felici da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.
Mio fratello non c’era, e io non potevo urlare di dolore, era troppo breve
la strada verso il granaio perso nei campi, dove per un anno l’ingenua, eternamente giovane,
povera nostra mamma aveva atteso, e ora era lì che attendeva, sotto il tiepido sole...
Ma ha ragione la vita che è in te: la morte, ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.
Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo voler sapere col tuo cuore che si ingemma.
Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna sempre più tempo, allenta ogni legame
con la vita che, ancora, un’amara forza a vivere e capire invano ci conforta...
Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto.
pier paolo pasolini
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