lunedì 19 maggio 2008

La conversazione.

di Angela Molteni
“Perché realizzare un’opera, quando è così bello sognarla soltanto?” Pier Paolo Pasolini,
L’altra sera non mi andava di ascoltare la radio, mia compagna abituale, anche se RaiTre trasmetteva un concerto jazz niente male. Preferii dunque mettere nel lettore di Cd la Matthäus-Passion di Bach. Non era neppure terminato il doppio coro iniziale - quello che state ascoltando anche ora (Kommt ihr Töchter, helf mir klagen!) - quando la porta-finestra che dà sul terrazzo si spalancò improvvisamente soffiandomi addosso aria gelida. Da un paio di giorni Milano era spazzata da un vento inusuale e parecchio fastidioso, anche se ero consapevole di come un evento simile costituisse un autentico toccasana per disperdere lo smog perennemente stagnante sulla mia sfortunata città.
Stavo per avviarmi a chiudere quella improvvisa fonte di gelo pungente, quando una leggerissima pressione sulle spalle mi arrestò. Risuonò, leggera e pacata, una voce dalla grazia inconfondibile: «Ho saputo che avresti voluto chiedermi qualcosa… Dunque, eccomi: domanda, esplora, approfondisci… Purché anche tu, come quasi tutti nell’anno del famoso trentennale, non intenda esclusivamente indagare sulle pieghe, più o meno ignote, di quel 2 novembre a Ostia, pretendendo di conoscere da me, fi-nal-men-te, la verità. Purché tu eviti accuratamente, dunque, di squadernare le solite ipotesi: un complotto, un’ultima sceneggiatura interpretata da me medesimo, un sordido delitto commesso negli ambienti della prostituzione omosessuale… Fatevene una ragione, spioni da buco della serratura, curiosi della peggior specie, critici e commemoratori più o meno amici, più o meno ostili, più o meno istituzionali: sono uno scrittore!, se conosceste almeno un po’ le mie opere, evitereste di pronunciare e di scrivere crudeltà, o perlomeno fesserie mostruose riguardanti la mia persona e il mio pensiero; sareste in grado di soffermarvi su una mia poesia, su un mio romanzo, su un mio film, ne comprendereste i contenuti e i messaggi…»
Un’invettiva in piena regola… Beh, un po’ sbigottita lo ero. Anche se concordavo, parola per parola, su ciò che avevo appena udito. Da quando lui aveva iniziato a parlare, era come fossi diventata di marmo. In qualche frazione di secondo formulai alcune ipotesi: forse, fumare come un turco mi aveva totalmente obnubilato la mente; forse, si trattava dell’inizio della fine: in tal caso avrei avuto soltanto il tempo di precipitarmi al telefono e di chiamare un’ambulanza; forse, era tutta colpa dell’optalidon, preso per contrastare una persistente emicrania; forse… oh, insomma! non stavo vivendo altro che un brandello di realtà e lui, nientemeno che Lui, era proprio lì.
Riuscii - fu in verità uno sforzo titanico - a muovere il capo. E lo vidi. Non aveva aureola, né didascaliche ali angeliche. Come avevo immaginato. Insomma, era tal quale l’abbiamo conosciuto, nel Gobbo o nel Decameron. O, magari fugacemente, di persona, come accadde a me quando venne a trovare il cugino Nico alla Longanesi. So che stenterete a crederci, ma qui, ora, proprio davanti a me, non era in giacca e cravatta: portava pantaloni blu e una maglietta azzurra con il glorioso stemma della nazionale di calcio. Incredibile.
Gli sorrisi, gli tesi la mano; dal groppo che mi serrava la gola uscì soltanto, stentatamente, un timido «Benvenuto!». Banale, banalissimo… E io avevo osato sognare di riuscire a farlo parlare dei suoi scritti, dei suoi film, dell’origine delle sue opinioni politiche… Un saluto piccino piccino, da perfetta rincitrullita…
Ci volle un po’ prima che mi riprendessi. «Ebbene, è vero, da un bel po’ di tempo avrei desiderato rivolgerti alcune domande», esordii timidamente. «Avrei voluto, come si dice, intervistarti… anche se, per un’impresa tanto impegnativa, la mia professionalità fa acqua da tutte le parti. Sai, per una vita ho fatto soltanto la correttrice di bozze, fino a quando ci sono state le bozze naturalmente. Ora le corregge una macchina. Pazzesco. È la tecnologia, siamo quasi tutti cannibalizzati dalla tecnologia oramai, nonché dal capitalismo, dal neocapitalismo, dal postcapitalismo. Insomma», mi tremava un po’ la voce, mi veniva quasi da piangere, «da tutte le forme di capitalismo possibili, immaginabili e teorizzabili. Ma un’intervista, quella proprio ci terrei a fartela… Accomodati… ti offro un pinot».
Prima di sedersi scorse i libri che stavano in disordine su scaffali un po’ polverosi, notai una smorfia quando vide i suoi Meridiani. E udii una specie di borbottio: «… pressappochismo… dilettantismo… cialtroneria… Mah…». Compresi ciò che gli stava ribollendo in cuore, ma non me la sentii di entrare nel merito. In fondo anch’io, fatte le debite proporzioni, ero una curatrice… Adesso, da indagare, da approfondire vi era la cattedrale di idee, di concetti, di sensazioni, di immagini, di parole, di emozioni da lui eretta con le sue opere, con gli indimenticabili personaggi e situazioni dei suoi film, dei suoi romanzi. Vi erano dunque quei suoi gioielli inestimabili e basta.
«Dunque, alcune domande le ho già in mente… Se sei d’accordo, potremmo iniziare…». Pasolini fece un leggero cenno di assenso. Pensai alla prima domanda da porgli, probabilmente avrei corso il rischio di apparire di nuovo banale, dicevo a me stessa mentre la costruivo. Da poco era iniziato un nuovo anno, e il pensiero si soffermò ancora sulle feste appena trascorse. Così iniziai con: Che cosa pensi del Natale e a chi ti sentiresti di esprimere i tuoi auguri in occasione di tale festività?
«… sono contro questa festa stupida e irreligiosa. Tanti auguri ai fabbricanti di regali pagani! Tanti auguri ai carismatici industriali che producono strenne tutte uguali! Tanti auguri a chi morirà di rabbia negli ingorghi del traffico e magari cristianamente insulterà o accoltellerà chi abbia osato sorpassarlo o abbia osato dare una botta sul didietro della sua santa Seicento! Tanti auguri a chi crederà sul serio che l’orgasmo che l’agiterà - l’ansia di essere presente, di non mancare al rito, di non essere pari al suo dovere di consumatore - sia segno di festa e di gioia! Gli auguri veri voglio farli a quelli che sono in carcere, qualunque cosa abbiano fatto (eccettuati i soliti fascisti, quei pochi che ci sono); è vero che ci sono in libertà tanti disgraziati cioè tanti che hanno bisogno di auguri veri tutto l’anno (tutti noi, in fondo, perché siamo proprio delle povere creature brancolanti, con tutta la nostra sicurezza e il nostro sorriso presuntuoso). Ma scelgo i carcerati per ragioni polemiche, oltre che per una certa simpatia naturale dovuta al fatto che, sapendolo o non sapendolo, volendolo o non volendolo, essi restano gli unici veri contestatori della società. Sono tutti appartenenti alla classe dominata, e i loro giudici sono tutti appartenenti alla classe dominante». Tirai un sospiro di sollievo: la mia domanda, forse, era stata banale, ma l’immenso Poeta aveva risposto da par suo. Mi rinfrancai. L’intervista continuò per un pezzo, e di seguito potrete riflettere sulle risposte che via via quel Grande dava alle mie domande. Riflettere e gioirne, naturalmente... o almeno è ciò che mi auguro.
Quali sono state le tue sensazioni osservando il corteo di Maria Callas ripercorrere la storia di Medea nei paesaggi tanto suggestivi e affascinanti da te scelti per ambientarvi il film?
«Nel fondo di una di queste vallette sul greto del fiume - c’è intorno il grano - e file di pioppi e ulivi spinosi, argentei contro il rosa delle centinaia di cuspidi - cammina verso di me e si imprime violentemente nella mia retina, una piccola folla assurda. La luce - è vero - è quella dei sogni: l’ultima luce del sole a filo dell’orizzonte. Fra due o tre minuti il sole sarà scomparso, e sarà il grigio, la divina tetraggine soffusa di rosa. Ma ora il biondo della luce passa sull’erba, sul greto, sul grano e si specchia, accecante, contro il fondale della tebaide. Così, ciò che accade in questa luce è già di per sé poco credibile. La folla che avanza è composta da italiani, da turchi: chi lavora e chi è semplicemente curioso, e procede ai margini, di frodo, pronto a fuggire. Gli abbigliamenti sono i più variopinti e discordi. Vige la massima libertà in questa folla internazionale, nel vestire. Si tratta di nemmeno un centinaio di persone, di cui una trentina solo avanzano sul greto, mentre le altre sono per la valle - sugli alti cigli, sulle terrazzette, tra i folti delle piante. Contro il cielo del tramonto, con striscioni bianchi di nuvole, senza neanche un po’ di rosso, su un ciglione in fondo al greto, si profilano le figurine nere dei tecnici intorno a una macchina da presa: non sono dei nostri, ma di qualche televisione - che armeggiano come si fa nelle grandi occasioni. Quaggiù sul greto, a incidersi nella mia retina, davanti a tutti, ci sono degli operai turchi, che spingono un carro a forma di “V”, nero e grigio: e intorno ad essi coloro che hanno altri incarichi annessi al carro. Tutti animati da una grande buona volontà. Dietro, ecco un gruppo sparso e composto in un disordine corrusco ma nitido da pittore fiammingo. Al centro c’è una figura femminile. Essa è coperta fino all’altezza del seno da un velo bianco, dietro a cui si intravede appena il viso e la lunga capigliatura. Da sotto questo velo bianco, pende un mazzo di collane dorate, grossissime, che mandano un suono opaco, come i campanacci delle mandrie: penzolano, queste collane, su una “pazienza” azzurra listata d’argento - sembra vecchissima, di quelle conservate nelle teche dei musei, che a toccarle, si direbbe che debbano andare in polvere. Sotto la pazienza cade una grande sottana nera: che viene sostenuta per i lembi da due o tre persone, attente a tenerla alta fin sopra il ginocchio della donna che l’indossa. Essa procede così come una regina non vista. Dietro a lei, viene un altro gruppetto del seguito: e tra questo, la fedele cameriera, vestita di rosso e di verde, che tiene per il guinzaglio i due magici cagnolini, innocenti come due insetti, due farfalline al loro primo svolazzare qua e là, e insieme decrepiti, di una saggezza di re contadini.» Qualche giorno fa mi sono fermata a prendere un caffè in un bar del centro. A un tavolino accanto al mio erano sedute due persone, non ho potuto fare a meno di sentire la loro conversazione. Una di loro aveva appena assistito alla proiezione del film che Giuseppe Bertolucci ha dedicato recentemente a te e al tuo Salò e sosteneva: “Beh, attraverso questo lavoro di Bertolucci si riesce a capire meglio Salò, l’ultimo film girato da Pasolini…”. L’altro rispose rabbiosamente, quasi l’avesse punto una tarantola: “Ma daaai…, Salò…Pasolini…, quell’omosessuale che non aveva di meglio da fare che passare il proprio tempo a frequentare ambienti torbidi e squallidi!…”. Sono saltata sulla sedia. Ma, vilmente, mi è mancato il coraggio di aprir bocca, e me ne scuso ora con te. Sto invecchiando, ormai mi è chiaro. In altre stagioni della mia vita avrei avuto reazioni talmente vivaci da rendere inevitabile l’intervento della forza pubblica... Tu che cosa avresti detto a chi esprimeva, con un giudizio tanto sgradevole, non solo ostilità nei tuoi confronti, ma anche, più in generale, una sorta di intollerabile razzismo?
«… lei è un uomo medio proprio nella sua accezione peggiore. Nota: coloro che usano l’espressione “squallido o torbido ambiente dove maturano eccetera”, si macchiano di una infinità di colpe, che in pieno neocapitalismo è poco definire tribali. Ne faccio un nudo e incompleto elenco. 1) Sono razzisti. Infatti essi si distinguono, direi, teologicamente, o meglio, antropologicamente, dai soggetti di cui si abbassano, costretti dalla necessità, a parlare: prostitute, omosessuali, ladri, truffatori eccetera. Costoro vengono distaccati, “separati” dalla coscienza e chiusi nel ghetto, appunto “dello squallido e torbido ambiente”. 2) Sono ricattatori. Infatti essi tappano la bocca a presunti appartenenti a quel ghetto, mettendoli a tacere attraverso l’allusione alle loro colpe che l’uomo medio condanna, e per cui essi non hanno diritto di cittadinanza nella società. Fanno, al livello borghese dell’indignazione morale (anche sincera!) ciò che un piccolo ricattatore può fare a una prostituta che ha un figlio, a un omosessuale che ha una madre o un impiego eccetera. 3) Sono ignoranti. Infatti essi ignorano tutto ciò che di scientifico (mettiamo sul piano più elementare, Freud) è stato scritto su coloro che essi relegano nello squallido ghetto, senz’altra spiegazione che una cieca ripugnanza fisica, un panico, un principio irremovibile: tutte cose perfettamente stupide appunto perché irrazionali e prive di ogni motivazione scientifica. 4) Sono primitivi. Infatti essi negli abitanti coatti dei loro ghetti vedono arcaicamente dei “capri espiatori”, sulle cui spalle riversare le colpe di tutta la società. … 5) Sono dei sanguinari. Infatti i “capri espiatori” si ammazzano. Ed essi, additando ai loro pari e alle autorità, direttamente o indirettamente, gli “squallidi o torbidi individui” così come essi li definiscono e li vogliono, ne fanno implicitamente (e talvolta esplicitamente) dei soggetti da linciaggio. Ho calcato un po’ le tinte. Ma le cose stanno sostanzialmente così». La tua critica alla stupidità delittuosa della televisione è nota: ne parli tra l’altro in uno scritto la cui lettura puoi ascoltare nella “copertina” di “Pagine corsare”, un omaggio che ho voluto farti, contenente citazioni, descrizioni, commenti di tue opere e che può essere letto su Internet (ti racconterò prima o poi cos’è quest’ultima diavoleria sulla quale, tra l’altro, pubblicherò questa intervista…). Vuoi parlare di qualcosa di brutto e sgradevole che ti è accaduto di vedere in Tv?
«una sera … stavo cenando in fretta, e i miei occhi non potevano non cadere sul “video” acceso, proprio davanti alla tavola … Ho realizzato solo dopo un po’ quello che stavo vedendo: due donne molto simili una all’altra, stavano facendo delle evoluzioni, d’una assoluta facilità, come due automi caricati a molle, che sanno fare solo quei due o tre gesti, capaci di dare una inalterabile e iterativa soddisfazione al bambino che li osserva. Due o tre mossucce idiote, incastonate in un ritmo, che voleva essere gioioso e invece era soltanto facile. A cosa alludevano quelle mossucce, quei colpetti di reni e quelle tiratine di collo? Non si capiva bene, ma certo a qualcosa di estremamente convenzionale comunque: a un’allegria collegiale e orgiastica, in cui la donna appariva come una scema, con dei pennacchi umilianti addosso, un vestituccio indecente che nascondeva e insieme metteva in risalto le rotondità del corpo, così come se le immagina, se le sogna, le vuole un vecchio commendatore sporcaccione e bigotto. Tutto ciò, che si presentava come leggero, era invece pesantemente volgare. La “disparità dei sessi” era sbandierata spudoratamente come una legge fatale e prepotente di un “sentimento comune”. … Finito il balletto (in cui era impegnato un altro mezzo centinaio di persone, ragazzi e ragazze intenti a movimenti che facevano arrossire per loro), ecco che si presentano su una ribalta luccicante e biancastra, come di plastica, due tipici uomini di mezza età italiani: uno piuttosto alto e stempiato, l’altro un bassetto tutto pepe. … Hanno cominciato a parlare e a muoversi. I vecchi clowns veneti del circo Banana o del circo Cragna certamente facevano meglio: comunque la tecnica era la stessa: il bassetto era il comico, e l’altro la spalla. Le sottolineature della situazione - il comico doveva risultare ingenuo e beffato, l’altro doveva risultare un dritto che beffa, in nome delle leggi normali della logica e del buonsenso - erano di una rozzezza da mettere a disagio. L’idea di essere costretti a obbedire alle regole di un gioco imposto da due persone così modeste e volgari (uscite dritte dalla “media”, come in un laboratorio) dava un senso di soffocamento e di ribellione. A questo punto è finita la mia cena, e me ne sono andato. … Nel novantacinque per cento dei casi non si vede alla televisione niente di più bello o di più brutto di così. Non è questione di bruttezza o di bellezza. È questione di volgarità. E la volgarità della televisione deriva dalla sua sottocultura. Non è neanche vero che la televisione modestamente sostituisca la “tombola” delle serate in famiglia. In ciò c’è solo una parte (del resto molto deprimente) di verità. Infatti la “tombola” delle vecchie sere, durate fino ad alcune decine di anni fa, aveva ancora una sua ragione culturale di essere. Era un infimo atto di cultura di una civiltà contadina, coi suoi forzati coprifuochi, la sua stasi, la sua povertà. La televisione non è questo: essa ha nella sua funzione culturale tutta la prepotenza del potere; del potere industriale; che vuole, e determina e condiziona una serata familiare che non ha nulla a che vedere con le serate familiari del mondo antico. In queste ultime infatti si celebrava una quotidiana cerimonia concreta, che aveva le sue radici particolaristiche in un piccolo mondo concluso: un fiumicello, una catena di colli, delle mura di cinta. Oggi il riferimento di quelle belle serate in famiglia davanti al video non è locale, concreto - modesto ma profondo - alla realtà di una piccola patria, ma alla realtà produttiva di una intera nazione, che altera il significato della famiglia, e ne fa non più un nucleo di innocenti conservatori, ma un nucleo di ansiosi consumatori». Puoi narrarmi qualcosa di particolare sulle tre figure emblematiche - Totò, Ninetto e il corvo - che hai così sapientemente descritto in quel capolavoro che è Uccellacci e uccellini?
«Scelsi Totò per quello che era: un attore, un tipo inconfondibile che il pubblico già conosceva. Non volevo da lui che fosse altro se non quello che era. Povero Totò, spesso mi chiedeva con molta gentilezza, e quasi come un bambino, se non poteva fare un film più serio, e io ero costretto a ripetergli: “No, no, voglio soltanto che tu sia te stesso”. Totò, quello vero, era manipolato, artificioso, non era un personaggio ingenuo e genuino come il Franco Citti dell’Accattone. Era un attore costruito da lui stesso e dagli altri fino a diventare un tipo, ma io me ne servivo precisamente per questo, per il fatto che era un tipo. Era uno strano miscuglio di veracità napoletana credula e popolaresca, da una parte, e di clown dall’altra: era cioè riconoscibile, neorealistico e insieme assurdo e surreale. Conobbi Ninetto Davoli casualmente quando giravo La ricotta; era lì con un’intera banda di altri ragazzi a guardare noi che giravamo e lo notai subito, per i capelli ricci e per quel suo carattere che successivamente si sarebbe rivelato nel mio film. Quando pensai di fare Uccellacci e uccellini, mi vennero subito in mente lui e Totò, senza la minima esitazione. … il corvo è estremamente autobiografico: fra esso e me l’identificazione è pressoché totale. Il corvo mi ha dato molto da fare. … era un animale selvaggio, era matto e quasi fece diventare matti anche tutti noi. … Fra gli sketch comici che pensai di fare ve ne era uno in cui Totò e Ninetto dovevano essere i padroni di un corvo come quello, perché per me fu una battaglia tremenda, la più dura della mia vita. Generalmente la principale preoccupazione di un regista, in Italia, è il sole, perché il tempo a Roma è molto capriccioso. Dopo il tempo, però, la mia più grave preoccupazione era il corvo. Le sequenze in cui compare nel film riuscii a metterle insieme girandole molte volte e poi organizzando laboriosissimamente il montaggio, ma fu un’impresa formidabile … Quando ebbi finito Uccellacci e uccellini mi resi conto che l’ideologia vi aveva un posto molto maggiore di quanto non avessi preventivato. Cioè l’ideologia non era stata tutta assorbita dal racconto, dalla vicenda, non era stata trasformata in poesia, levità, grazia. Vedendo il film per la prima volta ebbi la netta sensazione che il lato ideologico era un po’ pesante, e cominciai a pentirmi di non aver fatto una cosa più leggera, più fiabesca, perfino un film picaresco, magari, che sarebbe potuto essere meno significativo dal punto di vista ideologico, ma più ambiguo e misterioso, più poetico. Ne fui sinceramente addolorato perché Totò e Ninetto erano una coppia così deliziosa, e di per sé così poetica; avevano un mucchio di possibilità, lo sentivo. Perciò pensai di fare un film che fosse fatto di favole, e una di queste favole fu La terra vista dalla luna». … che definirei un film decisamente surrealista…
«… non credo che il surrealismo sia una categoria ben definita. Se ci pensi un momento, quando diciamo surrealismo ci riferiamo a due cose diverse: da una parte pensiamo al Manifesto dei surrealisti, a Breton e Aragon, e poi c’è tutto il gruppo dei surrealisti francesi e la pittura surrealista, come quella di Dalí, per fare un nome, nonché i surrealisti del principio del secolo. Dall’altra parte c’è Kafka, ed è tutta un’altra faccenda. Non c’è paragone fra Aragon ed Eluard, o il loro predecessore Lautréamont, e Kafka, oppure fra la pittura surrealista e il primo cinema surrealista. Così, da un lato abbiamo il surrealismo come movimento culturale e ideologico francese del periodo fra le due guerre: ebbe un’importanza enorme, e mi spingerei fino a dire che tutta la poesia contemporanea viva, compresa quella prodotta dai poeti socialisti e comunisti, sgorga da quella fonte. Fu il surrealismo a produrre, ad esempio, la poesia della Resistenza, e anche la poesia posteriore “impegnata” ha vaghe origini surrealiste, anche se profondamente modificate, come è ovvio. Mentre il simbolismo, che era contemporaneo del surrealismo, sta alla base di tutta la poesia reazionaria che lo seguì; parte della quale molto bella, forse, ma ciò nondimeno reazionaria. Tutto l’ermetismo italiano, e la neo-avanguardia, hanno origini simboliste. … il surrealismo del mio film ha ben pochi rapporti con il surrealismo storico. È essenzialmente il surrealismo delle favole: ha origini quasi popolari, e non a caso la morale del film, “essere morti o vivi è la stessa cosa”, è presa dalla filosofia orientale; è una sorta di slogan della filosofia indiana». Nelle tue opere cinematografiche, specie in quelle della Trilogia della vita, che cosa ti ha spinto a rappresentare tanto realisticamente il sesso?…
«Ho una spiegazione, che mi fa comodo e mi sembra giusta, ed è questa. In un momento di profonda crisi culturale (gli ultimi anni Sessanta), che ha fatto (e fa) addirittura pensare alla fine della cultura - e che infatti si è ridotta, in concreto, allo scontro, a suo modo grandioso, di due sottoculture: quella della borghesia e quella della contestazione ad essa - mi è sembrato che la sola realtà preservata fosse quella del corpo. Cioè, in pratica, la cultura mi è sembrata ridursi a una cultura del passato popolare e umanistico - in cui, appunto, la realtà fisica era protagonista, in quanto del tutto appartenente ancora all’uomo. Era in tale realtà fisica - il proprio corpo - che l’uomo viveva la propria cultura. Ora, i borghesi, creatori di un nuovo tipo di civiltà, non potevano che giungere a derealizzare il corpo. Ci sono riusciti, infatti, e ne hanno fatto una maschera. I giovani altro non sono oggi che delle mostruose maschere “primitive” di una nuova specie di iniziazione - fintamente negativa - al rito consumistico… Dunque riassumendo: alla fine degli anni Sessanta l’Italia è passata all’epoca del Consumismo e della Sottocultura, perdendo così ogni realtà, la quale è sopravvissuta quasi unicamente nei corpi e precisamente nei corpi delle classi povere. Protagonista dei miei film è stata così la corporalità popolare. Non potevo - e proprio per ragioni stilistiche - non giungere alle estreme conseguenze di questo assunto. Il simbolo della realtà corporea è infatti il corpo nudo: e, in modo ancora più sintetico, il sesso. … Naturalmente al fatto che io scegliessi come protagonista dei miei ultimi film la realtà fisica del popolo, e la rappresentassi nella sua interezza, hanno contribuito anche altre ragioni, oltre a quella generale e profonda che ho detto. Per esempio, la ragione che i rapporti sessuali mi sono fonte di ispirazione anche proprio di per se stessi, perché in essi vedo un fascino impareggiabile, e la loro importanza nella vita mi pare così alta, assoluta, da valer la pena di dedicarci ben altro che un film. Tutto sommato il mio ultimo cinema è una confessione anche di questo, sia detto chiaramente. E, siccome ogni confessione è anche una sfida, contenuta nel mio ultimo cinema è anche una provocazione. Una provocazione su più fronti. Provocazione verso il pubblico piccolo-borghese e benpensante (che peraltro non si è lasciato affatto provocare, e ha semplicemente, e finalmente, riconosciuto nel cinema una sua realtà - naturale per il pubblico popolare, liberatoria per parte del pubblico borghese). Provocazione verso i critici, i quali, rimuovendo dai miei film il sesso, hanno rimosso il loro contenuto, e li hanno trovati dunque vuoti, non comprendendo che l’ideologia c’era, eccome, ed era proprio lì, nel cazzo enorme sullo schermo, sopra le loro teste che non volevano capire. Provocazione contro il moralismo gauchista, le cui Vestali si sono indignate e hanno gridato allo scandalo esattamente come le Vestali della tradizione (“Potere operaio” ha usato in proposito lo stesso linguaggio, anzi, le stesse parole, dei Pubblici Ministeri). Sì, non ho voluto fare del cinema politico d’intervento, non ho voluto fare neanche della politica romanzata. …» … e non credi che ciò abbia esercitato una influenza determinante per superare inibizioni di ogni tipo, inducendo molti tra gli spettatori dei tuoi film ad adottare una libertà sessuale senza più alcun freno?
«… mi pento dell’influenza liberalizzatrice che i miei film eventualmente possano aver avuto nel costume sessuale della società italiana. Essi hanno contribuito, infatti, in pratica, a una falsa liberalizzazione, voluta in realtà dal nuovo potere riformatore permissivo, che è poi il potere più fascista che la storia ricordi. Nessun potere ha avuto infatti tanta possibilità e capacità di creare modelli umani e di imporli come questo che non ha volto e nome. Nel campo del sesso, per esempio, il modello che tale potere crea e impone consiste in una moderata libertà sessuale che includa il consumo di tutto il superfluo considerato necessario a una coppia moderna. Venuti in possesso della libertà sessuale per concessione, e non per essersela guadagnata, i giovani - borghesi, e soprattutto proletari e sottoproletari - se tali distinzioni sono ancora possibili - l’hanno ben presto e fatalmente trasformata in obbligo. L’obbligo di adoperare la libertà concessa: anzi, d’approfittare fino in fondo della libertà concessa, per non parere degli “incapaci” o dei “diversi”: il più tremendo degli obblighi. L’ansia conformistica di essere sessualmente liberi, trasforma i giovani in miseri erotomani nevrotici, eternamente insoddisfatti (appunto perché la loro libertà sessuale è ricevuta, non conquistata) e perciò infelici. Così l’ultimo luogo in cui abitava la realtà, cioè il corpo, ossia il corpo popolare, è anch’esso scomparso. Nel proprio corpo i giovani del popolo vivono la stessa dissociazione avvilente, piena di false dignità e di orgogli stupidamente feriti, che i giovani della borghesia. Se volessi continuare con film come Il Decameron non potrei più farlo, perché non troverei più in Italia - specie nei giovani - quella realtà fisica (il cui vessillo è il sesso con la sua gioia) che di quei film è il contenuto». Ti sei sempre dichiarato marxista, e hai precisato che lo sei diventato condividendo le teorie scientifiche marxiste successivamente alla tua adesione al Partito comunista italiano. Non è stato questo un percorso un po’ anomalo per un intellettuale?
«… occorre rettificare la frase dicendo che prima ho militato coi comunisti e poi ho aderito al marxismo. … l’Italia si trovava … in una posizione alquanto anomala nel quadro dell’Europa occidentale. Mentre il mondo contadino è del tutto scomparso nei maggiori Paesi industriali, come la Francia e l’Inghilterra (lì non si può più parlare di una classe contadina nel senso classico del termine), in Italia esso sopravvive ancora, pur avendo subìto un declino negli ultimi anni. Nell’immediato dopoguerra i contadini vivevano ancora in un mondo loro proprio, come uno o due secoli fa. Mia madre, ai suoi tempi, doveva ancora andare a letto a lume di candela. Il mio rapporto col mondo contadino è diretto, immediato: quasi tutti noi italiani abbiamo almeno un nonno contadino nel senso letterale della parola. Ora, quei comunisti friulani erano contadini, e ciò ha avuto molta importanza. Forse, se si fosse trattato di comunisti appartenenti alla classe operaia urbana, il fattore classe sarebbe stato troppo forte per i miei gusti, e vi avrei resistito; ma non ho potuto farlo nei confronti dei comunisti contadini, che sono poi quelli che fanno le rivoluzioni. … Ecco il punto principale: una volta che ebbi deciso di schierarmi a fianco di questi comunisti contadini, il resto fu facile. Col tempo, lessi i testi e diventai marxista» Come definiresti, come consideri e qual è la tua posizione politica nei confronti delle diverse classi sociali in Italia e dei rispettivi interessi e valori?
«Sociologicamente, la mia posizione non è molto convenzionale, e in realtà non è neppure definibile. Ha una base emozionale che probabilmente nasce dalla fanciullezza e dal conflitto con mio padre e con l’insieme della società piccolo-borghese. Il mio odio per la borghesia non è documentabile né passibile di discussione. C’è e basta. Non è però una condanna moralistica; è una condanna totale e senza indulgenze, ma è basata sulla passione, non sul moralismo. … Quanto all’altra classe popolare, la classe operaia, ho avuto con essa un rapporto molto difficile, inizialmente romantico, populista e umanitario. Quando si nasce nella piccola borghesia, si pensa che l’intero mondo sia uguale all’ambiente in cui si vive. Non appena giunsi a vedere un altro tipo di mondo, naturalmente il mio fu messo in crisi. Quando mi accorsi che i contadini friulani esistevano e che la loro psicologia, educazione, mentalità, anima, sessualità erano del tutto diverse, il mio mondo si infranse; non potevo più amare l’élite borghese e contemporaneamente odiare la borghesia; nacque un nuovo modo di sentire, quello di partecipare dall’esterno, anche se la cosa era autentica e convalidata dall’amore genuino che portavo ai lavoratori, e particolarmente ai contadini. Non ho mai conosciuto da vicino la classe operaia perché nelle città in cui ho abitato da bambino e da ragazzo conoscevo solo quelli che venivano a scuola con me, che erano tutti di famiglia borghese. Poi andai a Casarsa, dove conobbi dei contadini, ma non degli operai. Da lì venni direttamente a Roma, che non è una città operaia. … quando vi giunsi, qui l’industria non esisteva. … fondamentalmente Roma è una città burocratica, amministrativa e turistica, quasi una città coloniale. Ciò che trovai qui, e che risultò essere un’esperienza estremamente vitale dal punto di vista sociologico, fu il contatto con il sottoproletariato romano. Per la prima volta mi gettai in un mondo socialmente del tutto diverso da quello cui ero abituato, che mi costrinse a essere obiettivo nei suoi confronti, mi costrinse a farne una diagnosi marxista. … Così, mentre in principio avevo usato il dialetto per ragioni soggettive, come linguaggio puramente poetico, quando venni a Roma, al contrario, presi a usare il dialetto del sottoproletariato locale in maniera oggettiva, per arrivare alla descrizione più esatta possibile del mondo che avevo di fronte». Hai dedicato una delle più significative raccolte di poesie ad Antonio Gramsci. Come consideri questo nostro grande intellettuale e quando l’hai “incontrato” per la prima volta?…
«… spesso ho parlato delle mie letture di autori marxisti, il più importante di tutti, anche dello stesso Marx, è stato Gramsci. Naturalmente, Marx mi è riuscito piuttosto difficile alla lettura, e a parte questo l’ho trovato alquanto distante da me per varie ragioni. Mentre, invece, le idee di Gramsci coincidevano con le mie; mi conquistarono immediatamente, e la sua fu un’influenza formativa fondamentale per me. Lo lessi per la prima volta nel periodo 1948-49». … e puoi definire Gramsci un populista?
«No, non credo che si possa. Anche se vorrei dire, prima di tutto, che non annetto alcun significato peggiorativo alla parola “populista”. La adoperano i moralisti marxisti, insieme con il termine “umanitarismo”, per condannare i tipi di marxismo diversi dal loro. … Per me, populismo e umanitarismo sono due fatti storici reali: tutti gli intellettuali marxisti hanno radici borghesi; l’impulso a diventare marxista può solo essere di tipo populista o umanitario, per cui questo fattore si trova inevitabilmente in tutti i marxisti borghesi, compreso Gramsci. Io non lo giudico un fattore negativo; rientra semplicemente nell’inevitabile transizione dalla classe borghese in cui si è nati e si è stati plasmati all’adozione di una diversa ideologia, l’ideologia di una diversa classe sociale». Molte persone si sono chieste, soprattutto dopo aver visto il tuo Vangelo secondo Matteo, se sei una persona religiosa, anzi, cattolica… forse anche perché sei nato e vissuto in Italia, un Paese i cui abitanti e coloro che li governano non riescono, più o meno consapevolmente, a fare salde distinzioni tra Stato e Chiesa. Ancora oggi, in questo senso, vengono tenuti in vita una serie di equivoci e si devono purtroppo registrare insopportabili oltre che inammissibili ingerenze…
«Può darsi che a provocare questo malinteso siano i due film che ho girato sul tema del Vangelo e intorno alla figura di Cristo. Questi due film, Sopralluoghi in Palestina e Il Vangelo secondo Matteo, successivi alla Ricotta, … mediometraggio su una ricostruzione cinematografica della Passione, hanno forse ingannato un pubblico superficiale. Voglio supporre … che i dubbi riguardo al mio ateismo e alla mia “laicità” poggino su altro che su dei titoli... E in questo caso occorrerebbe che giustificassi la scelta di tali argomenti, che dicessi quel che ho voluto fare e quel che mi aspettavo che vi si riconoscesse... Vorrei tuttavia cominciare col rassicurare coloro che possono trovare materia di scandalo nella mia visione del mondo. La mia formazione religiosa è per così dire inesistente. Mio padre non credeva in Dio. Certo andava a messa la domenica, ma era solo per rispetto verso un’istituzione che garantiva l’ordine costituito. Praticava esteriormente, per le tante ragioni che spingono un uomo di destra a far battezzare i figli, a farli cresimare, a sposarli dinanzi al prete... La famiglia era “religiosa”, ma senza bigotteria. Mia madre aveva le tradizioni religiose della maggior parte dei contadini. La sua fede era continuazione della sua poesia o, come dicono i teologi, una religione naturale. Non sono stato quindi sottomesso ad alcuna pressione religiosa, né sono stato condizionato da alcuna educazione cattolica. Le uniche occasioni per marinare la scuola di cui abbia goduto, me le son concesse ai danni del catechismo. L’insegnamento del catechismo non lo potevo soffrire. Il collegio religioso mi appariva come il peggiore degli ergastoli. Gli studi secondari li ho fatti al Liceo Galvani di Bologna: un liceo la cui tradizione laica ha non poco contribuito a fare di me un miscredente nel significato più letterale del termine. Cosa aggiungere per scoraggiare questi imbarazzanti inquisitori? Non mi piace il cattolicesimo in quanto istituzione, non per ateismo militante, ma perché la mia religione, o meglio il mio spirito religioso - che non ha nulla a che vedere con un’appartenenza fondata sul battesimo - ne viene offeso. Rimane poi questo cripto-cristianesimo, che mi imputano i più aggressivi, quasi fosse una tara vergognosa. Dirò per rispondere loro che difficilmente un occidentale può non essere cristianizzato, se non un cristiano convinto. A maggior ragione un italiano. Per quanto riguarda poi la visione religiosa che possiamo avere del mondo - tu come me -, facciamo a meno dell’idealismo cristiano. Io sono propenso a un certo misticismo, a una contemplazione mistica del mondo, beninteso. Ma questo è dovuto a una sorta di venerazione che mi viene dall’infanzia, d’irresistibile bisogno di ammirare la natura e gli uomini, di riconoscere la profondità là dove altri scorgono soltanto l’apparenza esanime, meccanica, delle cose». Oggettivamente, dunque, quali sono state le tue motivazioni nella scelta di fare un’opera cinematografica sul Vangelo e sulla figura di Cristo?
«Taluni hanno visto in questo film l’opera di un militante cristiano, il che mi risulta del tutto incomprensibile. Sebbene la mia visione del mondo sia religiosa, non credo alla divinità di Cristo. Il Vangelo non lascia alcun dubbio: per quanto riguarda, poi, il contenuto del testo, il messaggio tende a introdurre nella narrazione una trascendenza divina... Per conto mio, mi dispiace, ma non ci credo. Dall’esterno il mio film offre materia di reminiscenze ai cattolici ancora capaci di interessarsi alla vita di Cristo. Ma a guardarci meglio, questa mia ricostruzione non è per niente conforme all’immagine tradizionale che se ne fa la maggior parte dei cristiani. Ho fatto un film in cui si esprime, attraverso un personaggio, l’intera mia nostalgia del mitico, dell’epico e del sacro. … In realtà avrei potuto rifare la storia di Cristo prestandogli l’abito e le azioni di un agitatore politico e sociale, e avrei avuto - forse - il nihil obstat dei marxisti ufficiali. Ciò che non ho fatto, perché è contrario alla mia natura profonda dissacrare sia le cose che la gente. Tendo invece a risacralizzarle il più possibile. Ho preso le mosse da questa riflessione fondamentale e che ritengo giusta: la storia di Cristo è fatta di due millenni di interpretazione cristiana. Tra la realtà storica e me si è creato lo spessore del mito. …» … Ebbi all’improvviso un’acuta, dolorosa sensazione di freddo. Battevo i denti… Mi ero rannicchiata sul divano ad ascoltare Bach, avevo preso sonno e il vento aveva trasformato la stanza in una cella frigorifera. Il Cd era terminato senza che avessi avuto il piacere di ascoltare quella musica divina… E lui dov’era? Nella condizione sgangherata in cui mi trovavo, sia pure a fatica riuscii a rintracciare un barlume di coscienza. E mi fu chiaro finalmente ciò che era accaduto… Anche se - e me ne accorsi soltanto ore dopo - un mistero non riuscii a scioglierlo: sul tavolo erano rimasti un bicchiere, vuoto, accanto a una bottiglia stappata e mezza vuota di pinot bianco.
A.M. 6 gennaio 2006

Nota - Pasolini ha realmente scritto tutto ciò che dice in risposta alle domande che gli sono state poste in questa onirica intervista (cfr. Pier Paolo Pasolini. Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Mondadori, Milano 1999, pp. 261, 263, 1167, 1227, 1260, 1272, 1278, 1293-98, 1347, 1357-58, 1421-27).

sabato 17 maggio 2008

A un ragazzo.


Così nuovo alla luce di questi mesi nuovi che tornano su Roma, e che a noi altrove
ancorati a una luce d’altri tempi, sembrano portati da inutili venti,
tu, con fresco pudore, e ingenuamente senza pietà, scopri per te, per noi, la tua presenza.
Col sorriso confuso di chi la timidezza e l’acerbità sopporta con allegrezza,
vieni tra gli amici adulti e fieramente umile, ardentemente muto, siedi attento
alle nostre ironie, alle nostre passioni. Ad imitarci, e a esserci lontano, ti disponi,
vergognandoti quasi del tuo cuore festoso... Ti piace, questo mondo! Non forse perché è nuovo,
ma perché esiste: per te, perché tu sia nuovo testimone, dolce-contento al quia...
Rimani tra noi, discreto per pochi minuti e, benché timido, parli, con i modi già acuti
dell’ilare, paterna e precoce saggezza. Esponi, orgoglioso, la tua debolezza
di adolescente, leso appena al ridicolo che ha la troppa umiltà in un mondo nemico...
Al giusto momento, ci lasci, ritorni alla segreta luce dei tuoi primi giorni:
alla luce che certo tu non puoi dire né, noi, ricordare, una luce d’aprile
in cui la coscienza con le sue gemme sfiora solo la vita, non la storia ancora.
Tu vuoi SAPERE, da noi: anche se non chiedi o chiedi tacendo, già appartato e in piedi,
o tenti qualche domanda, gli occhi vergognosi, ben sentendo in cuore ch’è vano ciò che osi,
se di noi vuoi sapere ciò che noi ai tuoi occhi ormai siamo, vuoi che le perdute notti
del nostro tempo siano come la tua fantasia pretende, che eroica, com’è eroica essa, sia
la parte di vita che noi abbiamo spesa disperati ragazzi in una patria offesa.
Vuoi sapere le mute paure e le immature azioni - tra macerie, strade deserte e prigioni -
delle nostre figure per te ormai remote. Vuoi sapere, e il viso infantile ti si infuoca,
tu, così puro, il male, così limpido l’odio, ch’è nei riaccesi ricordi su cui inchiodi
l’occhio ferito, parteggiando intero per chi lottava in nome del sentimento vero.
Vuoi sapere che cosa abbiamo ricavato da quell’avventura, in che cosa è mutato
lo spirito di questa povera nazione dove provi tra noi la tua prima passione;
sperando che ogni atto che ti preesiste, Chiesa e Stato, Ricchezza e Povertà, intesa
trovino nel tuo dolce desiderio di vita... Vuoi sapere l’origine della tua pudica
voglia di sapere, s’essa ha già dato prova di tanta vita in noi, e adesso cova
già nuova vita in te, nei tuoi coetanei. Vuoi sapere cos’è l’oscura libertà,
da noi scoperta e da te trovata, grazia anch’essa, nella terra rinata.
Vuoi SAPERE. Non hai domanda su un oggetto su cui non c’è risposta: che trema solo in petto.
La risposta, se c’è, è nella pura aria del crepuscolo, accesa sulle mura
del Vascello, lungo le palazzine assiepate nel cuore del sole che declina.
Le sere disperate per il troppo tepore che nei freddi autunni, dimenticato muore,
o, dimenticato, in nuove primavere torna improvviso - le disperate sere
in cui, tu, felice pei tuoi abiti freschi, o il fresco appuntamento con giovani modesti
come te, e felici, esci svelto di casa, mentre nel rione suona la sera invasa
dall’ultimo sole - penso a quel serio, candido ragazzo, il cui silenzio è nella tua domanda.
Certo soltanto lui ti potrebbe rispondere, se fu in lui, com’è in te, pura speranza il mondo.
Era un mattino in cui sognava ignara nei rósi orizzonti una luce di mare:
ogni filo d’erba come cresciuto a stento era un filo di quello splendore opaco e immenso.
Venivamo in silenzio per il nascosto argine lungo la ferrovia, leggeri e ancora caldi
del nostro ultimo sonno in comune nel nudo granaio tra i campi ch’era il nostro rifugio.
In fondo Casarsa biancheggiava esanime nel terrore dell’ultimo proclama di Graziani;
e, colpita dal sole contro l’ombra dei monti, la stazione era vuota: oltre i radi tronchi
dei gelsi e gli sterpi, solo sopra l’erba del binario, attendeva il treno di Spilimbergo...
L’ho visto allontanarsi con la sua valigetta, dove dentro un libro di Montale era stretta
tra pochi panni, la sua rivoltella, nel bianco colore dell’aria e della terra.
Le spalle un po’ strette dentro la giacchetta ch’era stata mia, la nuca giovinetta...
Ritornai indietro per la strada ardente sull’erba del marzo nel sole innocente;
la roggia tra il fango verde d’ortiche taceva a una pace di primavere antiche,
e i rinati radicchi da cui vaporava un odore spento e acuto di rugiada,
coprivano il dorso della vecchia scarpata grande come la terra nell’aria riscaldata.
Poi svoltava il sentiero in cuore alla campagna: liberi nell’umile ordine, folli nella cristiana
pace del lavoro, nel parlante amore muti, tacevano gelseti, macchie d’alni e sambuchi,
vigne e casolari azzurri di solfato, - nel vecchio mezzogiorno del vivido creato.
Chiedendo di sapere tu ci vuoi indietro, legati a quel dolore che ancora oscura il petto.
Ci togli questa luce che a te splende intera, ch’è della nuova gioventù ogni nuova sera...
Noi invecchiati ora nient’altro diamo che doloroso amore alla tua lieta fame.
Anche la tua stessa pietà, che cosa dice se non che la vita solo in te è felice?
Perché, per fortuna, quel nostro passato, vero, ma come un sogno, è nel tuo cuore grato.
In realtà non esiste, ne sei libero e cerchi di esso solo quanto può adesso valerti...
Nella tua nuova vita non è esistito mai fascismo o antifascismo: nulla, di ciò che sai
perché vuoi sapere: esiste solamente in te come un crudele dolce fiore il presente.
Che tutto sia davvero rinato - e finito – sia tutto - è scritto nel tuo sorriso amico.
È vizio il ricordare, anche se è dovere; a quei morti mattini, a quelle morte sere
di dodici anni or sono, non sai se più rancore o nostalgia, leghi il nostro cuore...
L’ombra che ci invecchia fosse astratta coscienza, voce che contraddice la vitale presenza!
Fosse, com’è in te, la spietata gioia di sapere, non l’amarezza di sapere ch’è in noi!
Ciò che potevamo risponderti è perduto. Può parlarti - se, tu ragazzo, sai il muto
suo nuovo linguaggio di ragazzo - soltanto chi è rimasto laggiù, nella luce del pianto...
Era ormai quasi estate, e i più bei colori ardevano nel mite, friulano sole.
Il grano già alto era una bandiera stesa sulla terra, e il vento la muoveva
fra le tenere luci, riapparse a ricolmare di festa antica l’aria tra i monti e il mare.
Tutti erano pieni di disperata gioia: sulla tiepida polvere delle vie ballatoi
e balconi tremavano di fazzoletti rossi e stracci tricolori; pei sentieri, pei fossi
bande di ragazzi andavano felici da un paese all’altro, nel nuovo mondo usciti.
Mio fratello non c’era, e io non potevo urlare di dolore, era troppo breve
la strada verso il granaio perso nei campi, dove per un anno l’ingenua, eternamente giovane,
povera nostra mamma aveva atteso, e ora era lì che attendeva, sotto il tiepido sole...
Ma ha ragione la vita che è in te: la morte, ch’è nel tuo coetaneo e in noi, ha torto.
Noi dovremmo chiedere, come fai tu, dovremmo voler sapere col tuo cuore che si ingemma.
Ma l’ombra che è ormai dentro di noi guadagna sempre più tempo, allenta ogni legame
con la vita che, ancora, un’amara forza a vivere e capire invano ci conforta...
Ah, ciò che tu vuoi sapere, giovinetto, finirà non chiesto, si perderà non detto.
pier paolo pasolini

Il fascismo, ora.

di Pier Paolo Pasolini
"L’Italia sta marcendo in un benessere che è egoismo, stupidità, incultura, pettegolezzo, moralismo, coazione, conformismo: prestarsi in qualche modo a contribuire a questa marcescenza è, ora, il fascismo. Essere laici, liberali, non significa nulla, quando manca quella forza morale che riesca a vincere la tentazione di essere partecipi a un mondo che apparentemente funziona, con le sue leggi allettanti e crudeli. Non occorre essere forti per affrontare il fascismo nelle sue forme pazzesche e ridicole: occorre essere fortissimi per affrontare il fascismo come normalità, come codificazione, direi allegra, mondana, socialmente eletta, del fondo brutalmente egoista di una società. [...] Non esiste solo il potere che si esercita nelle decisioni, ma anche un potere meno visibile che consiste nel fatto che certe decisioni non sono neanche proposte, perché difficili da gestire o perché metterebbero in questione interessi molto stabili.
La grande differenza tra i valori proclamati e i valori reali della società, l’omologazione, fanno pensare veramente a una società totalitaria. Quello che importerà nel futuro sarà il comportamento della più grande forza mai conosciuta: la massa omologata dei consumatori, la stragrande maggioranza degli esseri umani, non più l’ingegno delle élites culturali o l’attività dei politici.
L'identikit di questo volto ancora bianco del nuovo Potere attribuisce vagamente ad esso dei tratti "moderati", dovuti alla tolleranza e a una ideologia edonistica perfettamente autosufficiente; ma anche dei tratti feroci e sostanzialmente repressivi: la tolleranza è infatti falsa, perché in realtà nessun uomo ha mai dovuto essere tanto normale e conformista come il consumatore; e quanto all'edonismo, esso nasconde evidentemente una decisione a preordinare tutto con una spietatezza che la storia non ha mai conosciuto. Dunque questo nuovo Potere non ancora rappresentato da nessuno e dovuto a una «mutazione» della classe dominante, è in realtà - se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia - una forma "totale" di fascismo. Ma questo Potere ha anche "omologato" culturalmente l’Italia: si tratta dunque di un’omologazione repressiva, pur se ottenuta attraverso l'imposizione dell'edonismo e della joie de vivre.
Una visione apocalittica, certamente, la mia. Ma se accanto ad essa e all’angoscia che la produce, non vi fosse in me anche un elemento di ottimismo, il pensiero cioè che esiste la possibilità di lottare contro tutto questo, semplicemente non sarei qui, tra voi, a parlare".