di ADRIANO SOFRI
CI SONO dispute che lacerano comunità intere attorno a una parola, a un nome. O piuttosto, comunità lacerate si trincerano ai bordi di una parola, di una frase. E' successo così per l' Italia del 1943-45 (e già per il Risorgimento), attorno all'espressione "Guerra civile".La storiografia dei reduci e dei sostenitori della Repubblica di Salò fece di quelle due parole la propria trincea. Si intitolava così una monumentale opera di Giorgio Pisanò. All'opposto, la storiografia fedele alla Resistenza le ha ripudiate fino a trasformarle in un tabù.Eppure nel corso stesso del '43-'45 partigiani e antifascisti di ogni ispirazione (soprattutto gli azionisti) avevano usato tranquillamente quella formula, e avevano continuato a farlo dopo. Lo fece anche Giorgio Bocca, nella Repubblica di Mussolini. Indro Montanelli ha appena ricordato di avere intitolato un suo libro Storia della guerra civile. E il primo titolo dei Ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio era stato Racconti della guerra civile. Fuori da un contesto in cui passava pressoché per ovvia, tramutata invece in uno slogan e in una bandiera, la «guerra civile» diventava impronunciabile dall’antifascismo, senza suonare come una concessione alla pretesa di un’assimilazione fra repubblichini e partigiani, quando non di una superiore moralità e patriottismo dei primi. (Un bando simile aveva colpito, per effetto della trasposizione politica, una delle parole più belle del mondo: nostalgia). Quando uno storico di riconosciuto scrupolo e preparazione, con un passato personale di militante partigiano, Claudio Pavone, decise di finirla con quel tabù verbale, era già il 1991. Pavone spiegava in un bel libro che l’Italia aveva conosciuto allora un intreccio fra guerre diverse, una patriottica per la liberazione dal nazifascismo, una di classe per la giustizia sociale, e una civile fra italiani contrapposti. Tre guerre in una: ma singolarmente il libro si intitolava Una guerra civile (col sottotitolo «Saggio storico sulla moralità della Resistenza»).Finora non mi ero capacitato abbastanza di quel titolo unilaterale, che lasciò sconcertati molti: troppa grazia, si dissero. Ora penso che Pavone avesse deciso che, senza sfondarla, quella porta non si sarebbe aperta. Che bisognava dare nell’occhio. Da allora, e ancora in questi giorni, la "guerra civile" non è più una bandiera di parte: quel libro l’ha ammainata, fin troppo forse, perché sospetto che qualcuno non vada oltre la lettura e la citazione del titolo di Pavone, il cui testo è invece tanto ricco e aperto quanto rigoroso.Ma ecco, rivenendo a questi giorni, succede che la formula di "guerra civile", appena masticata e mezzo digerita per il ‘43’45, ricompare a designare gli anni delle stragi e del terrorismo nelle parole del presidente della cosiddetta Commissione stragi, Pellegrino (una «guerra civile a bassa intensità») o l’intero dopoguerra italiano in quelle di Galli della Loggia (una «guerra civile strisciante», o una «guerra civile» senz’altro) e, in altri autorevoli studiosi, dilatata fino a descrivere l’intera storia del Novecento come una «guerra civile europea» o addirittura «mondiale». (Di una «guerra civile fredda» aveva parlato nel dopoguerra Carl Schmitt).Non bisogna dunque chiedersi perché l’accettazione o il ripudio di questa espressione possano diventare così decisivi? Chiedersi daccapo, a costo di una certa noia, che cosa significhi? All’inizio, traduce il classico bellum civile: fra Mario e Silla, ottimati e popolari, Pompeo e Cesare, fra una parte e l’altra della cittadinanza, fra milizie appartenenti a uno stesso territorio o allo stesso stato. La sua estensione è arrivata poi fino a farne un sinonimo del bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. (Si può consultare la raccolta di saggi a cura di Gabriele Ranzato, Guerre fratricide, Bollati Boringhieri 1994; e le Prospettive sulla guerra civile di H.M.Enzensberger, Einaudi 1994). Ma la dilatazione, mi pare, svuota il concetto, lo fa coincidere con l’universale violenza. Bisogna che ci sia la guerra, che ci sia un territorio comune, che ci siano due belligeranti di forza almeno comparabile. Non si dovrebbe esagerare con le metafore. Anche la "Guerra fredda", se non si ceda a un ottimismo idealista, è più vicina alla pace che alla guerra. Lo è stata, almeno, a posteriori: dato che purtroppo la pace del nostro mondo non è l’assenza di guerre, ma della guerra.Guerra civile non è il semplice conflitto intestino o fra civili: il termine di confronto e di distinzione è la guerra per definizione, cioè la guerra fra gli Stati. C’è ormai una forte tendenza a cambiare anche il nome di Rivoluzione (compresa quella francese) in quello di guerra civile. E si osserva che «la rivoluzione presuppone la guerra civile»: più frequente mi sembra che la guerra civile abbia presupposto la guerra fra gli Stati. Alla guerra civile si accompagna l’idea di un orrore speciale, di una ferocia fratricida: almeno fino a che, in un filone del classismo rivoluzionario, emerse un’esaltazione del concetto di guerra civile. Ripudiando in nome dell’internazionalismo la guerra fra gli Stati, le si contrapponeva la guerra civile, che non era un altro nome della lotta di classe, ma lo sviluppo culminante e auspicato della lotta di classe in un conflitto generale armato. Anche il nazionalismo accoglieva la guerra nazionale contro la guerra degli Stati, imperiali, sovranazionali o vessatori delle minoranze nazionali: ma vedeva nella guerra civile l’evento più doloroso, il sinonimo del fratricidio, della guerra fra fratelli, figli della stessa madre — la nazione. Il comunismo bolscevico vide invece nella guerra civile un passaggio essenziale per la vittoria di una classe, internazionalmente fraterna, contro lo sciovinismo degli Stati e l’internazionalismo del Capitale.Questa differenza è in realtà attraversata da una gamma di variazioni, perché il nazionalismo democratico si oppone a un nazionalismo dinastico, o il nazionalismo federalista a uno centralista; e inoltre le aspirazioni più radicalmente democratiche sconfinano nella rivendicazione sociale, ecc. Ma, nonostante ciò, il contrasto fra le due idee di guerra civile, al punto che per una essa è la più penosa degenerazione della vita pubblica, per un’altra una tappa culminante dell’aspirazione rivoluzionaria, resta essenziale. Tanto più interessante è questa dicotomia in una storia italiana contrassegnata dal municipalismo e dalle contese intestine e fratricide: un comune contro il comune vicino, guelfi e ghibellini, neri e bianchi, appaiono come l’antica e protratta condanna della storia italiana. Così la guerra civile nell’Italia del ‘43’45 veniva vista come una ricaduta in quella storia fratricida: ciò che la sottraeva — agli occhi dei repubblichini — all’onta dell’asservimento alla potenza straniera tedesca, e al contrario la connotava come un’estrema fedeltà patriottica.All’opposto, il lungo rifiuto di riconoscerla come una guerra civile esprimeva l’intenzione (insieme un’aspirazione e un pregiudizio) di raffigurare un’Italia risorta contro la Germania, e di far coincidere con questa riscossa nazionale il riscatto politico morale dell’antifascismo contro il nazifascismo. Non un onore della fedeltà all’alleanza, ma il disonore dell’asservimento alla potenza tedesca e nazista gli antifascisti denunciavano nella Repubblica di Salò: e nella sua natura di fantoccio la finale dimostrazione di un’estraneità del popolo italiano al regime fascista. La reciproca parzialità di queste tesi — fissate, come in una gara di ruba bandiera, alla formula di guerra civile — non si supera, e per certi versi si complica, una volta che la storiografia antifascista abbia serenamente ammesso la proprietà (relativa, certo) della espressione di guerra civile. Perché, intenzioni e comportamenti personali a parte, l’aver militato dall’uno o dall’altro lato di quella guerra civile resta un discrimine. L’appello alla guerra civile, all’evocazione dell’antico e ricorrente fratricidio, alla tragedia ogni volta ripetuta della violenza intestina, non può sottrarre lo scontro al contesto storico e al suo contenuto particolare: all’esistenza di una parte giusta e di una ingiusta. C'è una storiografia (e soprattutto una memorialistica) saloina che rivendica la giustizia alla propria parte, all'opposto della storiografia e delle memorie della Resistenza antifascista. Fra queste posizioni non c'è conciliazione possibile: la Costituzione ne accolse una, in nome del popolo italiano, nel modo legittimo in cui un popolo può pronunciarsi. Le cose sono più complicate quando il giudizio, com'è necessario che avvenga una volta spente le passioni più acerbe e l'urgenza della lotta, distingue fra le parti e l'esperienza viva delle persone. La conciliazione, cioè il riconoscimento dei vincitori ai vinti, investe la loro sincerità e il loro valore, quando ci sono state sincerità e valore. Qui la memorialistica e la storia sembrano riconoscersi mutuamente una relativa sovranità. In realtà è difficile che la frontiera sia netta e pacificamente riconosciuta: succede che sia fitta di sconfinamenti e di contrabbandi. Quando Roberto Vivarelli racconta la propria esperienza vissuta - l'idealismo fascista di suo padre e la sua morte in guerra, l'educazione infantile deamicisiana al culto dell'onore patriottico e del sacrificio di sé, l'arruolamento dell'adolescente in nome del coraggio e della coerenza - contribuisce alla comprensione reciproca. Quando, spinto da una fedeltà di uomo vecchio a se stesso ragazzo, fa trapassare la propria credenza di allora in un'affermazione oggettiva - il "tradimento" dell'alleanza sottoscritta con la Germania, il rinnegamento vile o opportunista della patria - e la constatazione di una affinità fra giovani generosi e militanti sulle sponde opposte, in una loro comune opposizione e superiorità morale sulla universale diserzione passività e pusillanimità: in questi casi la soglia fra memoria vissuta e giudizio storico viene abusivamente varcata. Memorie analoghe ce n'erano. Il caso è singolare perché si tratta di Vivarelli contro Vivarelli, per così dire. Per più di mezzo secolo - l'intera sua vita adulta - Vivarelli ha fatto professione militante (nel doppio senso, morale e del mestiere) del giudizio storico sulla Resistenza e l'antifascismo che ora, raccontando finalmente la propria adolescenza combattente, tende confusamente a incrinare. Se così è, la testimonianza di Vivarelli è quella di una sua personale conciliazione mancata (impossibile?), interessante, oltre che perché ogni vicenda umana lo è, perché forse rimanda alla collettiva conciliazione mancata o, peggio, parodiata per convenienza. Il resto è esercizio facoltativo: se Vivarelli abbia ceduto a una vanità senile - ci sono lunghe carriere di studiosi depositate nella penombra di volumi e volumi, che un opuscolo e una pagina di giornale investono per un momento con un lampeggiare di abbaglianti: perché invidiarglielo? - o se abbia atteso un clima culturale in cui esser stato fervente repubblichino sia diventato titolo da stampare nel biglietto da visita - malignità a parte, Vivarelli stesso lo ammette, pur sostenendo che una lettera al Ponte del '55 valesse già a regolare il conto, quando attribuisce al libro di Pavone di aver tratto da un'inconfessabilità non burocratica il suo antico passato - e se non sia imbarazzante l'oltranzismo col quale fino a ieri Vivarelli si è fatto sorvegliante dell'ortodossia antifascista nei suoi scritti e nelle cariche ricoperte negli Istituti di storia della Resistenza. (Non parlo solo delle polemiche con De Felice, ma di quelle accesamente e a volte rudemente rivolte contro le revisioni compiute da una storiografia proveniente da sinistra, come certi studi sulle stragi militari tedesche in Italia, o sui contrastanti sentimenti popolari nei confronti delle azioni partigiane, di cui proprio Mieli segnalò l'originalità). Tutto ciò appartiene a un di più della polemica pubblica, che va oltre il suo merito vero e magari anche le intenzioni dei protagonisti, com'era appena successo a d'Orsi. Con altra penna, che non sia della storia o della politica, si potrebbe forse interrogarsi sulla duplicità (non necessariamente doppiezza) di alcune vite: perfino quella del professor Marsiglia mi interessa più che non il lieto fine dello smascheramento. Ma qui la penna è prosaica. Qui, mi pare, la discussione con Vivarelli può lasciare il posto alla discussione con Paolo Mieli, vero autore del "caso". Prima vorrei però completare le osservazioni su quella espressione diventata così fatidica, e forse troppo, della guerra civile. In Lenin idee che esistevano da tempo, soprattutto quelle tratte dal gran repertorio della Rivoluzione francese e della Comune, furono rilegate in un'ingegneria sociale maniacale, da far servire all'insurrezione e alla presa del potere. Stalin sarà il volgarizzatore ulteriore di quella sistemazione, tradotta in manuali e in regolamenti di polizia, da far servire all'onnipotenza dell'Organizzazione. Per Lenin la guerra civile diventava un traguardo da agitare e, una volta realizzata la condizione, da perseguire inflessibilmente. La condizione della guerra civile, tramutata così per la prima volta in un fine, è l'esistenza della guerra: la guerra per definizione, la guerra fra gli Stati e fra gli Imperi. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile: è qui l'intera lezione della competenza rivoluzionaria bolscevica. (E della sua "superiorità" sui Giacobini: che passano per campioni proverbiali di radicalità, e in realtà ebbero il cuore spaventato dalla propria vittoria finale. Lenin invece volle vincere). La vulgata comunista assegnava a Lenin il merito lungimirante di aver colto "scientificamente" la natura imperialista del conflitto fra le potenze esploso nel 1914, e di essersi sottratto alla bancarotta "socialpatriottica" della Seconda Internazionale, tenendo ferma la bandiera dell'Internazionalismo proletario. Ma in questo Lenin non era stato solo, né era qui il punto. In Italia un giudizio analogo - e perfino più intransigentemente ortodosso, secondo il carattere sorprendente di quel settario napoletano - venne da Amadeo Bordiga, cioè dal vero leader della sinistra marxista e dal vero fondatore del P.C.d'I. (poi efficacemente cancellato, e calunniato, dalla memoria comunista). Natura imperialistica della guerra, necessità del proletariato di non compromettersi in alcun modo con essa: di questo Bordiga era convinto e anticipò addirittura Lenin nel giudizio, mentre i più, e lo stesso giovane Gramsci, sentivano l'attrazione dell'interventismo democratico. Ma Bordiga pensava alla guerra mondiale come a una gigantesca tragedia per la lotta del proletariato, travolto nella carneficina dalla superstizione delle patrie: e che a quella bufera i comunisti veri dovessero resistere tenendo saldi i loro ideali e custodendone la bandiera in attesa del giorno in cui, passata la tempesta, si potesse riprendere il filo spezzato della lotta di classe e della sua organizzazione rivoluzionaria. Al contrario, Lenin. Dove Bordiga vedeva una tragedia e la necessità di testimoniare la verità in attesa di nuovi tempi, Lenin vedeva un'opportunità decisiva. La guerra c'era, ai rivoluzionari di trasformarla in guerra civile. Brest-Litovsk fu questo, e l'Ottobre del 1917 rispetto al Febbraio; e, fatalmente, la vera trasformazione dell'idea della Rivoluzione in quella della Guerra Civile, di una mobilitazione permanente della classe (cioè del Partito e dei suoi apparati polizieschi e militari) secondo i modi delle azioni di guerra, dell'economia di guerra, dei tribunali di guerra, della dittatura di guerra. La consacrazione feticista della guerra civile divenne il vero carattere del bolscevismo (e, poi, di altre colossali esperienze di comunismo asiatico): e, com'è noto, il suo oltranzismo classista - contro i kulaki, cioè i contadini ricchi e poveri, e i borghesi di ogni rango, e gli intellettuali ecc. - non gli impedì di includere un oltranzismo sciovinista, grande-russo, antisemita ecc. Mi scuso della pedanteria. Mi importava sottolineare il rovesciamento, inedito perlomeno con quella determinazione e su quella scala, della nozione di guerra civile in una idea positiva, un valore. E chiedermi se nell'irriducibile divergenza del nostro dopoguerra sull'uso di quella nozione per il '43-'45 avesse un peso anche la nuova tradizione che rendeva positiva la guerra civile. Per esempio, sull'aspirazione comunista rivoluzionaria a "completare" la Resistenza trasformando la guerra di Liberazione nazionale in guerra civile per l'avvento di una repubblica sovietista. Per l'ala radicale della Resistenza la guerra civile sarebbe stata piuttosto quella di classe, bandita dalla direzione togliattiana e trascinata poi variamente fino alla primavera del '48. Non tengo alla proprietà delle denominazioni quanto alla loro influenza sostanziale. Quella duplice e divergente nobilitazione della guerra civile, fascista-saloina e comunista-rivoluzionaria, si è protratta assai oltre. (Nello stesso nostro estremismo di sinistra degli anni '70 lo slogan sulla "guerra civile" tornò, con tanta altra rigatteria, ed ebbe una sua influenza sul tragico inganno della "lotta armata"). Di recente ne ho diffidato quando, quasi per inerzia, la guerra civile è stata evocata a spiegare (cioè: a non spiegare) la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia. Lì sono successe molte cose orribili, insieme o successivamente: anche una guerra fra Stati e nazioni, e soprattutto una guerra ai civili. Per un lunghissimo tempo in Bosnia si è svolta una guerra dello Stato e dell'esercito serbista contro i civili bosniaci. Descrivere l'assedio di Sarajevo con la categoria di guerra civile rischiava l'oltraggio alle vittime e al pudore. Oltretutto, affiancati al nome di guerra civile gli orrori prendono un senso atavico e pressoché metafisico. Succede che i crimini di guerra si pretendano inafferrabili, perché la guerra è per definizione madre di crimini e crimine essa stessa, e che gli orrori riempiano per definizione la guerra civile e ne siano quasi giustificati. Propongo di accorgersi che nel nostro mondo non esistono più - o esistono sempre meno, e più torbidamente - sia le guerre, che le guerre civili: esiste sempre più la guerra ai civili. Verrei ora alla discussione con Mieli: che ha bisogno però dello spazio di una prossima puntata.