venerdì 25 aprile 2008

Il tabù della guerra civile.

Di che cosa parliamo se parliamo di guerra civile.
di ADRIANO SOFRI
CI SONO dispute che lacerano comunità intere attorno a una parola, a un nome. O piuttosto, comunità lacerate si trincerano ai bordi di una parola, di una frase. E' successo così per l' Italia del 1943-45 (e già per il Risorgimento), attorno all'espressione "Guerra civile".La storiografia dei reduci e dei sostenitori della Repubblica di Salò fece di quelle due parole la propria trincea. Si intitolava così una monumentale opera di Giorgio Pisanò. All'opposto, la storiografia fedele alla Resistenza le ha ripudiate fino a trasformarle in un tabù.Eppure nel corso stesso del '43-'45 partigiani e antifascisti di ogni ispirazione (soprattutto gli azionisti) avevano usato tranquillamente quella formula, e avevano continuato a farlo dopo. Lo fece anche Giorgio Bocca, nella Repubblica di Mussolini. Indro Montanelli ha appena ricordato di avere intitolato un suo libro Storia della guerra civile. E il primo titolo dei Ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio era stato Racconti della guerra civile. Fuori da un contesto in cui passava pressoché per ovvia, tramutata invece in uno slogan e in una bandiera, la «guerra civile» diventava impronunciabile dall’antifascismo, senza suonare come una concessione alla pretesa di un’assimilazione fra repubblichini e partigiani, quando non di una superiore moralità e patriottismo dei primi. (Un bando simile aveva colpito, per effetto della trasposizione politica, una delle parole più belle del mondo: nostalgia). Quando uno storico di riconosciuto scrupolo e preparazione, con un passato personale di militante partigiano, Claudio Pavone, decise di finirla con quel tabù verbale, era già il 1991. Pavone spiegava in un bel libro che l’Italia aveva conosciuto allora un intreccio fra guerre diverse, una patriottica per la liberazione dal nazifascismo, una di classe per la giustizia sociale, e una civile fra italiani contrapposti. Tre guerre in una: ma singolarmente il libro si intitolava Una guerra civile (col sottotitolo «Saggio storico sulla moralità della Resistenza»).Finora non mi ero capacitato abbastanza di quel titolo unilaterale, che lasciò sconcertati molti: troppa grazia, si dissero. Ora penso che Pavone avesse deciso che, senza sfondarla, quella porta non si sarebbe aperta. Che bisognava dare nell’occhio. Da allora, e ancora in questi giorni, la "guerra civile" non è più una bandiera di parte: quel libro l’ha ammainata, fin troppo forse, perché sospetto che qualcuno non vada oltre la lettura e la citazione del titolo di Pavone, il cui testo è invece tanto ricco e aperto quanto rigoroso.Ma ecco, rivenendo a questi giorni, succede che la formula di "guerra civile", appena masticata e mezzo digerita per il ‘43’45, ricompare a designare gli anni delle stragi e del terrorismo nelle parole del presidente della cosiddetta Commissione stragi, Pellegrino (una «guerra civile a bassa intensità») o l’intero dopoguerra italiano in quelle di Galli della Loggia (una «guerra civile strisciante», o una «guerra civile» senz’altro) e, in altri autorevoli studiosi, dilatata fino a descrivere l’intera storia del Novecento come una «guerra civile europea» o addirittura «mondiale». (Di una «guerra civile fredda» aveva parlato nel dopoguerra Carl Schmitt).Non bisogna dunque chiedersi perché l’accettazione o il ripudio di questa espressione possano diventare così decisivi? Chiedersi daccapo, a costo di una certa noia, che cosa significhi? All’inizio, traduce il classico bellum civile: fra Mario e Silla, ottimati e popolari, Pompeo e Cesare, fra una parte e l’altra della cittadinanza, fra milizie appartenenti a uno stesso territorio o allo stesso stato. La sua estensione è arrivata poi fino a farne un sinonimo del bellum omnium contra omnes, la guerra di tutti contro tutti. (Si può consultare la raccolta di saggi a cura di Gabriele Ranzato, Guerre fratricide, Bollati Boringhieri 1994; e le Prospettive sulla guerra civile di H.M.Enzensberger, Einaudi 1994). Ma la dilatazione, mi pare, svuota il concetto, lo fa coincidere con l’universale violenza. Bisogna che ci sia la guerra, che ci sia un territorio comune, che ci siano due belligeranti di forza almeno comparabile. Non si dovrebbe esagerare con le metafore. Anche la "Guerra fredda", se non si ceda a un ottimismo idealista, è più vicina alla pace che alla guerra. Lo è stata, almeno, a posteriori: dato che purtroppo la pace del nostro mondo non è l’assenza di guerre, ma della guerra.Guerra civile non è il semplice conflitto intestino o fra civili: il termine di confronto e di distinzione è la guerra per definizione, cioè la guerra fra gli Stati. C’è ormai una forte tendenza a cambiare anche il nome di Rivoluzione (compresa quella francese) in quello di guerra civile. E si osserva che «la rivoluzione presuppone la guerra civile»: più frequente mi sembra che la guerra civile abbia presupposto la guerra fra gli Stati. Alla guerra civile si accompagna l’idea di un orrore speciale, di una ferocia fratricida: almeno fino a che, in un filone del classismo rivoluzionario, emerse un’esaltazione del concetto di guerra civile. Ripudiando in nome dell’internazionalismo la guerra fra gli Stati, le si contrapponeva la guerra civile, che non era un altro nome della lotta di classe, ma lo sviluppo culminante e auspicato della lotta di classe in un conflitto generale armato. Anche il nazionalismo accoglieva la guerra nazionale contro la guerra degli Stati, imperiali, sovranazionali o vessatori delle minoranze nazionali: ma vedeva nella guerra civile l’evento più doloroso, il sinonimo del fratricidio, della guerra fra fratelli, figli della stessa madre — la nazione. Il comunismo bolscevico vide invece nella guerra civile un passaggio essenziale per la vittoria di una classe, internazionalmente fraterna, contro lo sciovinismo degli Stati e l’internazionalismo del Capitale.Questa differenza è in realtà attraversata da una gamma di variazioni, perché il nazionalismo democratico si oppone a un nazionalismo dinastico, o il nazionalismo federalista a uno centralista; e inoltre le aspirazioni più radicalmente democratiche sconfinano nella rivendicazione sociale, ecc. Ma, nonostante ciò, il contrasto fra le due idee di guerra civile, al punto che per una essa è la più penosa degenerazione della vita pubblica, per un’altra una tappa culminante dell’aspirazione rivoluzionaria, resta essenziale. Tanto più interessante è questa dicotomia in una storia italiana contrassegnata dal municipalismo e dalle contese intestine e fratricide: un comune contro il comune vicino, guelfi e ghibellini, neri e bianchi, appaiono come l’antica e protratta condanna della storia italiana. Così la guerra civile nell’Italia del ‘43’45 veniva vista come una ricaduta in quella storia fratricida: ciò che la sottraeva — agli occhi dei repubblichini — all’onta dell’asservimento alla potenza straniera tedesca, e al contrario la connotava come un’estrema fedeltà patriottica.All’opposto, il lungo rifiuto di riconoscerla come una guerra civile esprimeva l’intenzione (insieme un’aspirazione e un pregiudizio) di raffigurare un’Italia risorta contro la Germania, e di far coincidere con questa riscossa nazionale il riscatto politico morale dell’antifascismo contro il nazifascismo. Non un onore della fedeltà all’alleanza, ma il disonore dell’asservimento alla potenza tedesca e nazista gli antifascisti denunciavano nella Repubblica di Salò: e nella sua natura di fantoccio la finale dimostrazione di un’estraneità del popolo italiano al regime fascista. La reciproca parzialità di queste tesi — fissate, come in una gara di ruba bandiera, alla formula di guerra civile — non si supera, e per certi versi si complica, una volta che la storiografia antifascista abbia serenamente ammesso la proprietà (relativa, certo) della espressione di guerra civile. Perché, intenzioni e comportamenti personali a parte, l’aver militato dall’uno o dall’altro lato di quella guerra civile resta un discrimine. L’appello alla guerra civile, all’evocazione dell’antico e ricorrente fratricidio, alla tragedia ogni volta ripetuta della violenza intestina, non può sottrarre lo scontro al contesto storico e al suo contenuto particolare: all’esistenza di una parte giusta e di una ingiusta. C'è una storiografia (e soprattutto una memorialistica) saloina che rivendica la giustizia alla propria parte, all'opposto della storiografia e delle memorie della Resistenza antifascista. Fra queste posizioni non c'è conciliazione possibile: la Costituzione ne accolse una, in nome del popolo italiano, nel modo legittimo in cui un popolo può pronunciarsi. Le cose sono più complicate quando il giudizio, com'è necessario che avvenga una volta spente le passioni più acerbe e l'urgenza della lotta, distingue fra le parti e l'esperienza viva delle persone. La conciliazione, cioè il riconoscimento dei vincitori ai vinti, investe la loro sincerità e il loro valore, quando ci sono state sincerità e valore. Qui la memorialistica e la storia sembrano riconoscersi mutuamente una relativa sovranità. In realtà è difficile che la frontiera sia netta e pacificamente riconosciuta: succede che sia fitta di sconfinamenti e di contrabbandi. Quando Roberto Vivarelli racconta la propria esperienza vissuta - l'idealismo fascista di suo padre e la sua morte in guerra, l'educazione infantile deamicisiana al culto dell'onore patriottico e del sacrificio di sé, l'arruolamento dell'adolescente in nome del coraggio e della coerenza - contribuisce alla comprensione reciproca. Quando, spinto da una fedeltà di uomo vecchio a se stesso ragazzo, fa trapassare la propria credenza di allora in un'affermazione oggettiva - il "tradimento" dell'alleanza sottoscritta con la Germania, il rinnegamento vile o opportunista della patria - e la constatazione di una affinità fra giovani generosi e militanti sulle sponde opposte, in una loro comune opposizione e superiorità morale sulla universale diserzione passività e pusillanimità: in questi casi la soglia fra memoria vissuta e giudizio storico viene abusivamente varcata. Memorie analoghe ce n'erano. Il caso è singolare perché si tratta di Vivarelli contro Vivarelli, per così dire. Per più di mezzo secolo - l'intera sua vita adulta - Vivarelli ha fatto professione militante (nel doppio senso, morale e del mestiere) del giudizio storico sulla Resistenza e l'antifascismo che ora, raccontando finalmente la propria adolescenza combattente, tende confusamente a incrinare. Se così è, la testimonianza di Vivarelli è quella di una sua personale conciliazione mancata (impossibile?), interessante, oltre che perché ogni vicenda umana lo è, perché forse rimanda alla collettiva conciliazione mancata o, peggio, parodiata per convenienza. Il resto è esercizio facoltativo: se Vivarelli abbia ceduto a una vanità senile - ci sono lunghe carriere di studiosi depositate nella penombra di volumi e volumi, che un opuscolo e una pagina di giornale investono per un momento con un lampeggiare di abbaglianti: perché invidiarglielo? - o se abbia atteso un clima culturale in cui esser stato fervente repubblichino sia diventato titolo da stampare nel biglietto da visita - malignità a parte, Vivarelli stesso lo ammette, pur sostenendo che una lettera al Ponte del '55 valesse già a regolare il conto, quando attribuisce al libro di Pavone di aver tratto da un'inconfessabilità non burocratica il suo antico passato - e se non sia imbarazzante l'oltranzismo col quale fino a ieri Vivarelli si è fatto sorvegliante dell'ortodossia antifascista nei suoi scritti e nelle cariche ricoperte negli Istituti di storia della Resistenza. (Non parlo solo delle polemiche con De Felice, ma di quelle accesamente e a volte rudemente rivolte contro le revisioni compiute da una storiografia proveniente da sinistra, come certi studi sulle stragi militari tedesche in Italia, o sui contrastanti sentimenti popolari nei confronti delle azioni partigiane, di cui proprio Mieli segnalò l'originalità). Tutto ciò appartiene a un di più della polemica pubblica, che va oltre il suo merito vero e magari anche le intenzioni dei protagonisti, com'era appena successo a d'Orsi. Con altra penna, che non sia della storia o della politica, si potrebbe forse interrogarsi sulla duplicità (non necessariamente doppiezza) di alcune vite: perfino quella del professor Marsiglia mi interessa più che non il lieto fine dello smascheramento. Ma qui la penna è prosaica. Qui, mi pare, la discussione con Vivarelli può lasciare il posto alla discussione con Paolo Mieli, vero autore del "caso". Prima vorrei però completare le osservazioni su quella espressione diventata così fatidica, e forse troppo, della guerra civile. In Lenin idee che esistevano da tempo, soprattutto quelle tratte dal gran repertorio della Rivoluzione francese e della Comune, furono rilegate in un'ingegneria sociale maniacale, da far servire all'insurrezione e alla presa del potere. Stalin sarà il volgarizzatore ulteriore di quella sistemazione, tradotta in manuali e in regolamenti di polizia, da far servire all'onnipotenza dell'Organizzazione. Per Lenin la guerra civile diventava un traguardo da agitare e, una volta realizzata la condizione, da perseguire inflessibilmente. La condizione della guerra civile, tramutata così per la prima volta in un fine, è l'esistenza della guerra: la guerra per definizione, la guerra fra gli Stati e fra gli Imperi. Trasformare la guerra imperialista in guerra civile: è qui l'intera lezione della competenza rivoluzionaria bolscevica. (E della sua "superiorità" sui Giacobini: che passano per campioni proverbiali di radicalità, e in realtà ebbero il cuore spaventato dalla propria vittoria finale. Lenin invece volle vincere). La vulgata comunista assegnava a Lenin il merito lungimirante di aver colto "scientificamente" la natura imperialista del conflitto fra le potenze esploso nel 1914, e di essersi sottratto alla bancarotta "socialpatriottica" della Seconda Internazionale, tenendo ferma la bandiera dell'Internazionalismo proletario. Ma in questo Lenin non era stato solo, né era qui il punto. In Italia un giudizio analogo - e perfino più intransigentemente ortodosso, secondo il carattere sorprendente di quel settario napoletano - venne da Amadeo Bordiga, cioè dal vero leader della sinistra marxista e dal vero fondatore del P.C.d'I. (poi efficacemente cancellato, e calunniato, dalla memoria comunista). Natura imperialistica della guerra, necessità del proletariato di non compromettersi in alcun modo con essa: di questo Bordiga era convinto e anticipò addirittura Lenin nel giudizio, mentre i più, e lo stesso giovane Gramsci, sentivano l'attrazione dell'interventismo democratico. Ma Bordiga pensava alla guerra mondiale come a una gigantesca tragedia per la lotta del proletariato, travolto nella carneficina dalla superstizione delle patrie: e che a quella bufera i comunisti veri dovessero resistere tenendo saldi i loro ideali e custodendone la bandiera in attesa del giorno in cui, passata la tempesta, si potesse riprendere il filo spezzato della lotta di classe e della sua organizzazione rivoluzionaria. Al contrario, Lenin. Dove Bordiga vedeva una tragedia e la necessità di testimoniare la verità in attesa di nuovi tempi, Lenin vedeva un'opportunità decisiva. La guerra c'era, ai rivoluzionari di trasformarla in guerra civile. Brest-Litovsk fu questo, e l'Ottobre del 1917 rispetto al Febbraio; e, fatalmente, la vera trasformazione dell'idea della Rivoluzione in quella della Guerra Civile, di una mobilitazione permanente della classe (cioè del Partito e dei suoi apparati polizieschi e militari) secondo i modi delle azioni di guerra, dell'economia di guerra, dei tribunali di guerra, della dittatura di guerra. La consacrazione feticista della guerra civile divenne il vero carattere del bolscevismo (e, poi, di altre colossali esperienze di comunismo asiatico): e, com'è noto, il suo oltranzismo classista - contro i kulaki, cioè i contadini ricchi e poveri, e i borghesi di ogni rango, e gli intellettuali ecc. - non gli impedì di includere un oltranzismo sciovinista, grande-russo, antisemita ecc. Mi scuso della pedanteria. Mi importava sottolineare il rovesciamento, inedito perlomeno con quella determinazione e su quella scala, della nozione di guerra civile in una idea positiva, un valore. E chiedermi se nell'irriducibile divergenza del nostro dopoguerra sull'uso di quella nozione per il '43-'45 avesse un peso anche la nuova tradizione che rendeva positiva la guerra civile. Per esempio, sull'aspirazione comunista rivoluzionaria a "completare" la Resistenza trasformando la guerra di Liberazione nazionale in guerra civile per l'avvento di una repubblica sovietista. Per l'ala radicale della Resistenza la guerra civile sarebbe stata piuttosto quella di classe, bandita dalla direzione togliattiana e trascinata poi variamente fino alla primavera del '48. Non tengo alla proprietà delle denominazioni quanto alla loro influenza sostanziale. Quella duplice e divergente nobilitazione della guerra civile, fascista-saloina e comunista-rivoluzionaria, si è protratta assai oltre. (Nello stesso nostro estremismo di sinistra degli anni '70 lo slogan sulla "guerra civile" tornò, con tanta altra rigatteria, ed ebbe una sua influenza sul tragico inganno della "lotta armata"). Di recente ne ho diffidato quando, quasi per inerzia, la guerra civile è stata evocata a spiegare (cioè: a non spiegare) la sanguinosa dissoluzione della Jugoslavia. Lì sono successe molte cose orribili, insieme o successivamente: anche una guerra fra Stati e nazioni, e soprattutto una guerra ai civili. Per un lunghissimo tempo in Bosnia si è svolta una guerra dello Stato e dell'esercito serbista contro i civili bosniaci. Descrivere l'assedio di Sarajevo con la categoria di guerra civile rischiava l'oltraggio alle vittime e al pudore. Oltretutto, affiancati al nome di guerra civile gli orrori prendono un senso atavico e pressoché metafisico. Succede che i crimini di guerra si pretendano inafferrabili, perché la guerra è per definizione madre di crimini e crimine essa stessa, e che gli orrori riempiano per definizione la guerra civile e ne siano quasi giustificati. Propongo di accorgersi che nel nostro mondo non esistono più - o esistono sempre meno, e più torbidamente - sia le guerre, che le guerre civili: esiste sempre più la guerra ai civili. Verrei ora alla discussione con Mieli: che ha bisogno però dello spazio di una prossima puntata.

domenica 13 aprile 2008

Pasolini e la società

Delusione e "disperata vitalità" (1963-1975)


Ho dovuto decidere su quale anno fosse da porre come inizio della disperazione pasoliniana. La scelta è caduta sul 1963, a motivo di queste drammatiche espressioni:
"Facciano scoppiare le atomiche o giungano alla completa industrializzazione del mondo, il risultato sarà lo stesso: una guerra in cui l'uomo sarà sconfitto e forse perduto per sempre."
"Si produrrà e si consumerà, ecco. E il mondo sarà esattamente come oggi la Televisione - questa degenerazione dei sensi umani - ce lo descrive, con stupenda, atroce ispirazione profetica."
Quanto sia oggettiva questa previsione senza luce di speranza e quanto invece derivi dalle ragioni poetiche particolari di lui, non posso, almeno per ora, nemmeno chiarirlo a me stesso. Quel "forse" di cui alla citazione n. 1, lascia intendere che una pur difficile via di salvezza è ancora possibile, purché si abbia il coraggio di mettersi in crisi e accettare umilmente il dolore (composto a volte di solitudine ed emarginazione) in vista della propria crescita umana e culturale.
Il 1964 è un anno speciale per il nostro, che a motivo del suo film sul Vangelo di Matteo, auspica, attraverso dibattiti in giro per l'Italia e il dialogo con i lettori della rivista «Vie Nuove», la necessità di un incontro democratico tra cattolici non clericali e marxisti non dogmatici. Figura di riferimento è naturalmente Papa Giovanni, che grazie alla sua cultura ha saputo avere uno sguardo non autoritario sul mondo e sugli uomini, che non vanno perciò distinti in assolutamente buoni o assolutamente cattivi.
Il marxismo, peraltro, può superare la necessità filosofica dell'ateismo, necessità che nasceva dal positivismo, ma che ora non ha più motivo d'essere perché la scienza ha superato lo stesso positivismo. Il marxismo non deve essere cristallizzato in un sistema fisso e dogmatico. Se così fosse, sarebbe la copia atea del dogmatismo clericale.
Tuttavia Pasolini è pessimista riguardo al futuro, perché ritiene che i dirigenti comunisti non si sono accorti in tempo della svolta neocapitalistica della borghesia, che tende a borghesizzare e disumanizzare il mondo, rendendo gli uomini degli automi. Gramsciana mente parlando, i neocapitalisti non sono classe dominante, ma qualcosa di peggio, cioè classe egemone, perché si pongono come centro culturale con la nuova lingua tecnocratica che uccide l'espressività in nome di una spietata strumentalità. Ce ne accorgiamo benissimo: tutto è merce, gli stessi individui sono merce da sfruttare. Questa disperazione però lascia spazio alla speranza che prima o poi, fosse anche nel corso di secoli, gli uomini ritrovino la loro libertà autentica che è nell'espressività, cioè nei sentimenti veri, non indotti dalla cultura di massa.
Per questo vede - alla metà degli anni '60 - l'alleanza tra cattolici progressisti e marxisti non dogmatici, come uno dei mezzi possibili per lottare contro il materialismo (in senso volgare) ateo, cinico e disumanizzante alla base del neocapitalismo, sintesi di tutto ciò che è condannato dal Vangelo.
Insistendo sul tema della crisi del marxismo, suscita le ire di suoi avversari intellettuali o semplici lettori, che lo accusano di essere un letterato decadente che non conosce nemmeno i primi elementi del marxismo. I toni usati da quegli avversari sono aspri e denigratori, l'ennesimo capitolo di una persecuzione, che è poi quella che lo ferisce di più giacché proviene da persone di sinistra.
A una ragazza che gli scrive su «Vie Nuove» di voler studiare all'università ma non avere i soldi per farlo, risponde:
"Puoi leggere, leggere, leggere, che è la cosa più bella che si possa fare in gioventù: e piano piano ti sentirai arricchire dentro, sentirai formarsi dentro di te quell'esperienza speciale che è la cultura."
Nel '66 prepara con Moravia una nuova serie della rivista «Nuovi Argomenti», finalizzata a chiarire la crisi del marxismo e prospettare le possibili soluzioni ad essa, cercando pure di rifondare la cultura marxista.
In una intervista di Oriana Fallaci, durante una visita a New York, dice che ha ancora delle speranze, ma che queste gli vengono ora non dall'Europa, bensì dagli Stati Uniti, dove si è accorto che gli uomini sono idealisti pur nel loro pragmatismo; inoltre la Nuova Sinistra americana, gli studenti politicamente impegnati per l'emancipazione dei neri, promettono bene: a suo parere, essi non sono né comunisti né anticomunisti, ma mistici della democrazia, vogliono portarla cioè sino alle estreme conseguenze.
Cominciando ad occuparsi del fenomeno "televisione", comprende che vengono accettati nel circuito televisivo solo gli imbecilli e gli ipocriti. La regola è dire fesserie o saper mentire. Se a dibattiti in TV sono invitati degli intellettuali, anche buoni come Moravia o Attilio Bertolucci, questi devono tacere, non dire ciò che realmente pensano, perché altrimenti verrebbero danneggiati nei loro interessi di letterati.
Nel '67, riguardo la Guerra dei Sei Giorni tra Israele e alcuni Stati arabi, il nostro è dalla parte di Israele, il cui Stato è minacciato dal fanatismo musulmano.
Il neocapitalismo minaccia il mondo della cultura. Pasolini, nel '68, ritira per protesta il suo romanzo Teorema dal Premio Strega, ormai dominato dalle clientele editoriali. Si batte insieme ad altri registi per l'autogestione della Mostra del Cinema di Venezia, ma il Governo interviene con la polizia. Ovviamente il potere, che è cinico ed egoista, ha paura di ogni tentativo di democrazia reale e diretta.
Contro gli studenti che a Roma si scontrano con la polizia, il primo marzo 1968, presso la Facoltà di Architettura dell'Università di Roma, scrive la famosa poesia Il PCI ai giovani!! che tante polemiche suscita in seno agli intellettuali di sinistra e al Movimento Studentesco: egli sostiene che gli studenti sono dei figli di papà, la loro è una finta rivoluzione, in realtà è la borghesia stessa che per auto perpetuarsi si punisce attraverso loro, che ormai appartengono al mondo del benessere consumistico: disprezzano la vera cultura, sono dei moralisti che aspirano al potere. Simpatizza invece per i poliziotti, essi sì figli di poveri, anche se resi "sicari" del mondo del potere. Insomma, una provocazione, con cui l'Autore dà ai giovani studenti contestatori un metaforico pugno nello stomaco, affinché nasca in loro una coscienza critica. Li invita infine ad occupare le fabbriche e le sedi del PCI.
Solo Moravia ammette di pensarla come lui ma di non averlo detto perché uno scrittore deve prendersi i suoi tempi e non scrivere a caldo, come invece è tenuto a fare un poeta.
Pasolini parla anche di quello che gli appare come "fascismo di sinistra", composto di taluni militanti e intellettuali marxisti (moralisti e borghesi) che creano un alone di terrore e ricatto intorno a chi non la pensa come loro, soprattutto nei confronti di intellettuali liberi da dogmi sia pur laici.
Gli spiriti liberi sono sempre perseguitati, perché non hanno accettato alcun potere: vedi il caso Braibanti, l'intellettuale omosessuale condannato per plagio, oppure, in campo cattolico, Padre Arpa, accusato di truffa, colui il quale ha difeso la Dolce Vita di Fellini contro le gerarchie ecclesiastiche.
La droga diventa fenomeno di massa e Pasolini osserva che chi si droga lo fa per mancanza di cultura, per riempire un vuoto esistenziale, per un generale senso di "paura del futuro". Comunque è contrario ad ogni forma di repressione: la tossicomania è da tollerare come la pornografia, anche se entrambe sono fenomeni negativi.
Nel 1969 il dodicenne viareggino Ermanno Lavorini viene rapito a scopo di estorsione da un gruppo di ragazzi monarchici, che lo uccidono; arrestati, depistano le indagini parlando di un giro di prostituzione maschile e segnalano, tra gli altri, Adolfo Meciani, che si suiciderà in carcere. Viene quindi scoperta l'infondatezza delle loro accuse e Pasolini se la prende con gli investigatori e i giornalisti, che per accontentare il gusto di linciaggio dell'italiano medio, hanno enfatizzato la figura di "mostro" del diverso di turno, capro espiatorio di una società repressa e repressiva, essa sì "mostruosa".
Quando viene scoperta la verità, è messo a tacere tutto sui giri di prostituzione viareggini, perché sono implicati, come in ogni altra città d'Italia, personaggi eminenti di ogni classe sociale, partito, fede.
In Sicilia, a Zafferana, Pasolini fa parte della giuria che assegna il Premio Brancati al libro di Michele Pantaleone Antimafia: un'occasione mancata, coraggiosa denuncia contro il potere mafioso. Il premio viene contestato dai giornali fascisti e ignorato da quelli di sinistra.
Prevede ormai l'imborghesimento di tutto il mondo, per cui il problema sarà sempre più quello di essere borghesi "buoni" e non borghesi "cattivi". I primi ovviamente sono socialisteggianti, amanti della cultura, contrari ad ogni forma di livellamento e di massificazione e di acculturazione. Anche il Terzo Mondo è destinato a diventare piccolo-borghese e industriale. Ciò che però resta indiscussa è l'impossibilità di una previsione certa sul futuro: quindi lui stesso ammette che ogni suo giudizio vale per il momento in cui lo dà.
All'estero, a Praga, il giovane Jan Palach si suicida dandosi fuoco come protesta contro l'oppressione sovietica in Cecoslovacchia. Pasolini dice che sul piano politico è stato un suicidio inutile e inopportuno in quanto strumentalizzato dalle forze reazionarie anti-comuniste; ma sul piano ideale, Jan ha fatto bene in quanto si è espresso col suo corpo come un eroe antico. E' ovvio che Pasolini è contrario alla politica violenta sovietica e critica inoltre la classe dirigente dell'URSS che ha deformato il mito comunista.
Assistendo per pochi minuti (di più non resiste) alle trasmissioni televisive come il Festival di Sanremo o Canzonissima, si accorge dell'involgarimento della società del benessere, la cui massa vive su un piano sottoculturale.
Invita l'organizzazione per la difesa del patrimonio artistico e paesaggistico nazionale «Italia Nostra», a far propri certi metodi di contestazione studentesca, per convincere gli uomini politici ad occuparsi una buona volta dei monumenti italiani, che invece sembrano destinati alla deturpazione. Chi non sente l'urgenza del "problema della bellezza" ed è utilitarista, è come se non amasse realmente la vita, la sua continuità.
Scomparsa la speranza in una rivoluzione comunista, a lui non resta che sorridere (con un male accettato umorismo) di cose che in passato lo avrebbero fatto arrabbiare e lottare (come l'involgarimento delle masse); si rifugia quindi nell'utopia, che gli permette di sopravvivere. I suoi messaggi morali o politici non hanno un contenuto fisso, ma sono "a canone sospeso", cioè riempibili, da parte dei destinatari, di significati diversi nel tempo e nello spazio. Essere rivoluzionari a parole o senza tener conto delle condizioni obiettive della società, significherebbe fare il gioco della controrivoluzione.
A chi lo accusa di misoginia, risponde che il suo difetto è semmai quello di rappresentare la donna solo nel suo lato angelico e di vedere in lei una esclusa come è anche lui stesso. Del resto, non è in grado di disprezzare nessuno completamente, etichettarlo con un giudizio definitivo, perché vede in ogni persona (e cosa e animale) un profondo sacro mistero. Per questo si scandalizza sempre più per l'assenza di senso del sacro nei suoi contemporanei.
Nel 1970 non è ancora evidente la trasformazione corporale degli operai e dei contadini, che ai suoi occhi appaiono ancora innocenti nel fisico, anche se parlano come gli studenti contestatari borghesi, cioè dicono frasi moralistiche, ricattatorie e terroristiche. La povertà costringe chi ne è vittima ad essere buono, anche se si tratta di un "picciotto" della mafia, che in quanto povero non ha alternative; del resto, gli stessi vertici della società che lo esclude a una vita onesta, sono collusi con i capi-mafia.
Società neocapitalistica e società comunista sono interscambiabili, ormai, in quanto distruggono con prepotente tecnicismo i valori e i monumenti tradizionali del mondo. Il passato, anche se crudele, rendeva più felici, con i suoi valori di semplicità e povertà.
Considera i carcerati non fascisti i veri contestatari della società del benessere: essi sì poveri e appartenenti alla classe dominata, mentre i giudici fanno parte della classe dominante. Non c'è ancora il Pasolini (quasi) totalmente pessimista del '75, che vede il male sia negli sfruttati che negli sfruttatori, il male come desiderio di possedere e distruggere.
Teme nel mondo una reazione di destra, favorita anche da certi estremismi di sinistra, che sono una forma di sottocultura borghese.
Disprezza il revival spiritualista, attraverso il quale giovani e meno giovani contestano apparentemente la società del benessere, mentre in realtà, con la loro sottocultura, fanno il gioco della reazione di destra.
Ai suoi occhi il connubio tra neoavanguardia e contestazione giovanile appare un "monstrum" fatto di moralismo, ricatto e terrorismo.
Nel luglio '70 alcuni rivoltosi democristiani e missini di Reggio Calabria provocano disordini perché come capoluogo della regione è stata scelta la città di Catanzaro: Pasolini, col solito acume, smaschera l'irrealtà di questo problema, che non ha alcuna attinenza con i reali bisogni della popolazione.
In Italia il popolo aspira a diventare piccolo-borghese, consumando i beni imposti dalla società del benessere e, quel che è peggio, abiurando ai propri valori tradizionali dialettali. Solo i napoletani resistono, ma la loro resistenza è votata al fallimento, perché è fatale che il mondo diventi totalmente industrializzato e involga rito per mezzo della cultura di massa. Moriranno i napoletani autentici e fedeli a se stessi e saranno sostituiti da altro tipo di cittadini, obbedienti al Potere neocapitalistico.
Nel '71 collabora, tacitando parte della sua coscienza, con alcuni militanti di «Lotta continua», a un anno dalla strage della Banca dell'Agricoltura di Milano; avverte i suoi nuovi amici che il pericolo maggiore per l'estrema sinistra è il moralismo. Presta anche il suo nome come direttore del giornale «Lotta continua» e verrà denunciato per reati di opinione.
Nel '72 osserva che la falsa liberalizzazione sessuale è giunta anche nell'Italia centro-meridionale. I ragazzi non si iniziano più tra loro e con le prostitute, ma vengono istruiti dalle ragazze secondo i valori del benessere piccolo-borghese neocapitalistico. Avere la fidanzata diventa un obbligo sociale, quindi spesso la si ha non per amore ma per farsi invidiare da chi non ce l'ha e per non passare per incapace o diverso.
L'eccesso sessuale, non associato ad interessi culturali, determina nevrosi nelle nuove generazioni. Il corpo della donna viene più che nel passato, strumentalizzato, ridotto a merce in televisione o sui giornali, e nei quartieri popolari una ragazzina fa l'amore anche con dieci ragazzi al giorno. Chi è diverso viene tollerato purché resti nel suo ghetto mentale e fisico: la permissività è la peggiore delle forme di repressione.
Tra il '73 e il '75 intensifica la sua attività di polemista nei confronti di società e mondo politico, affermandosi come il "Pasolini corsaro".
Accusa la magistratura di parzialità nelle indagini e nei processi. Quando ci sono per un crimine politico due piste, una che porta all'estremismo rosso, l'altra a quello nero, i magistrati italiani preferiscono, per tacita solidarietà di classe dominante, seguire la pista rossa. Gli appare chiaro che le azioni violente e delittuose dei fascisti sono dettate e calcolate nel cuore delle istituzioni, con freddo machiavellismo.
Occupandosi del fenomeno dei "capelloni" ricorda che nei primi tempi in cui comparvero, cioè ancor prima della contestazione del '68, poteva essere un fenomeno tutto sommato positivo, di silenziosa e anarchica protesta contro la società del benessere. In seguito capelloni sono diventati tutti, così che non si distinguono più militanti di destra da militanti di sinistra e c'è sempre il pericolo concreto, nelle manifestazioni comuniste o estremiste di sinistra, della presenza di agenti provocatori fascisti per nulla diversi nell'abbigliamento e nella fisionomia dai veri militanti.
Capelloni possono anche essere ormai dei piccolo o medio borghesi che testimoniano la loro moderna integrazione nella società del benessere.
Prevede che la Chiesa pagherà con la estinzione il suo pragmatico accordo col potere neocapitalistico, che la usa come usa anche i fascisti tradizionali, cioè per lotte storicamente ritardate. In effetti il nuovo Potere è del tutto irreligioso e non sa che farsene dei valori clerico-fascisti. Esso vuole una società di consumatori e basta.
Quindi la reazione di destra, nei primi anni '70, secondo lui ha due aspetti: 1) una lotta reazionaria contingente per l'affermazione del clerico-fascismo; 2) l'effettiva nuova e definitiva rivoluzione neocapitalistica in nome dell'edonismo consumistico e della cultura di massa (vengono così distrutti i valori popolari e umanistici); quindi in politica e in economia, il nuovo fascismo tecnocratico.
Nel '73 si ha un breve periodo di austerity, a causa della crisi petrolifera: Pasolini si illude che l'Italia potrebbe tornare indietro, seguire la via del "progresso" e non più dello "sviluppo", ma presto capisce che la società consumistica è irreversibile.
"Progresso" è per lui ciò che vorrebbero i lavoratori e gli intellettuali di sinistra, cioè un mondo a misura d'uomo, che rispetti tutti i valori culturali che rendono la vita basata non solo sull'utile ma anche sul bello. "Sviluppo" è invece l'industrializzazione totale del mondo, voluta dai cinici produttori di beni superflui e dagli inconsapevoli, ma non meno trionfanti, consumatori. Lo "sviluppo" è sempre di destra, anche se viene accettato pure dalla sinistra. Il "progresso" infatti resta un ideale astratto, perché tutti quanti vivono esistenzialmente come consumatori.
Ormai la repressione neocapitalistica l'ha avuta vinta sulle menti della massa dei giovani sottoproletari. Mentre prima erano fieri di avere una propria identità popolare e disprezzavano i "figli di papà", cioè gli studenti borghesi, adesso invece vogliono essere all'altezza di questi ultimi, e non riuscendovi (perché non hanno abbastanza denaro), diventano infelici e nevrotici, o spietati criminali. Prima possedevano, pur nell'ignoranza, il mistero della realtà; adesso vivono nella Irrealtà. Nessun potere mai in passato era riuscito ad attuare un simile genocidio di valori.
Cosa può salvare l'Italia dal diventare un Paese completamente nazista, se è vero che questi giovani cominciano a somigliare alle SS di Hitler? Una opposizione di sinistra efficace, una nazione onesta dentro la nazione disonesta. E inoltre una opposizione (culturale) alla cultura di massa. Velleitariamente Pasolini parla ancora di rivoluzione comunista, ma sotto sotto è consapevole che ci si dovrà sempre più accontentare del "potere meno peggio" dato dal compromesso storico tra democristiani e comunisti: la socialdemocrazia. Quanto a sé come persona, lui resta legato al mondo antico preborghese e preindustriale: per questo viaggia spesso nel Terzo mondo, dove ha ancora la possibilità di incontrare sguardi di autentica simpatia e felicità, pur nella miseria (ma è fatale che ogni uomo appartenga al tipo di cultura in cui si è formato; e la sua esperienza decisiva è stata tra i contadini friulani: non può abiurare a tale formazione).
Vede di buon occhio il movimento dei radicali, che stanno promuovendo nel '74 una serie di referendum per tentare di riportare una legalità democratica in Italia e per valorizzare i diritti civili, tra i quali spiccano divorzio e aborto. Su quest'ultimo, come vedremo più in là, Pasolini ha delle riserve.
La vittoria dei radicali sul divorzio è prevista dal nostro (più lungimirante evidentemente sia dei democristiani sia della Chiesa sia degli stessi comunisti). I potenti al governo e alla opposizione non si sono accorti che la gente è mutata antropologicamente e non è più attaccata ai valori tradizionali di Patria Chiesa Famiglia, bensì a quelli del benessere superfluo. E' il Potere consumistico che ha voluto la vittoria del divorzio, perché ciò rientra nel suo progetto di una dittatura che vuole ridurre tutti a edonisti di bassa lega.
La Chiesa sta scomparendo come figura istituzionale morale: resta solo un potere finanziario alleato dei potenti di turno. Paolo VI è consapevole di ciò, della fine della religione, ma non ha altro rimedio da consigliare che quello irrazionale della preghiera. Invece, secondo Pasolini, la Chiesa dovrebbe rinunciare al potere e diventare guida dell'opposizione a questo tipo di società disumana che è la società dei consumi superflui. Dovrebbe ritornare alle origini, al tempo della predicazione di Cristo e dei suoi discepoli. Dovrebbe rinunciare alla sua cultura assolutista e abbracciare la cultura libera e antiautoritaria, in continuo divenire, contraddittoria, collettiva e scandalosa. Dovrebbe rifiutare il Concordato tra Stato e Chiesa. Ma è chiaro che non farà nessuna di queste cose per non perdere soldi e potere. C'è chi, all'interno della Chiesa, cerca di porsi realmente questi problemi e dare analoghe soluzioni, come Dom Giovanni Franzoni, che viene sospeso dal Vaticano a divinis.
Continuano intanto le "stragi di Stato": in esse lui vede una "strategia della tensione", voluta dai potenti, prima in funzione anticomunista (per combattere contro il pericolo di una vittoria della contestazione del '68) poi in funzione antifascista, per darsi una verginità di antifascismo che non ha più senso storico, in quanto il fascismo tradizionale è del tutto superato e chi spera in una dittatura di tipo mussoliniano o è uno stupido ingenuo o è in malafede, come appunto questi governanti di centro-destra, che sono i reali nuovi fascisti. I giovani estremisti di destra e di sinistra sono solo le pedine di un gioco diretto dal nuovo fascismo tecnocratico.
Rimprovera se stesso e gli altri intellettuali di sinistra di non aver dialogato con i giovani neofascisti, la cui scelta ideologica è stata dettata dalla disperazione: se fosse stato fatto il tentativo di farli ragionare, forse alcuni di loro non sarebbero diventati fascisti.
Per le sue idee scomode a tutti (tranne evidentemente a Pannella e ai radicali, il cui realismo fondato però su ideali intransigenti, spaventa il Potere) viene criticato da tanti anche di sinistra, come Maurizio Ferrara, che lo accusa di estetismo, di rimpiangere una "età dell'oro", ed anche Italo Calvino, che pensa a un rimpianto pasoliniano dell'«Italietta» piccolo-borghese: Pasolini è offeso perché Calvino dovrebbe sapere che il suo rimpianto è rivolto alla Resistenza e alle speranze di una repubblica nazional-popolare, l'esatto contrario dell'«Italietta».
Precisa che la sua disperazione non è mai totale, perché altrimenti cesserebbe anche di parlare, di occuparsi dei problemi del mondo.
Il 14 novembre 1974 esce sul «Corriere della Sera» il famoso articolo di Pasolini sul "romanzo delle stragi". Dice di sapere i nomi dei responsabili e dei mandanti politici delle stragi, ma non può farli perché manca di prove e indizi. Chi, anche se fa parte dell'opposizione, ha prove e indizi non li fa certo i nomi perché è compromesso col potere.
Il 1975, l'ultimo anno di vita, lo vede battagliare su più fronti:
1) sua prima meditazione metafisica, determinata dagli interessi semiologici che lo avevano già convinto che la Realtà è Linguaggio (adesso approda ad una sorta di concezione spinoziana del divino: Dio sarebbe la Realtà che parla con se stessa);
2) riflessione sul consumismo (egli non è contrario al consumismo come viene vissuto nelle altre nazioni, dove le brutture della cultura di massa sono compensate da una reale qualità della vita data da istituzioni forti e opere pubbliche necessarie - scuole, ospedali ecc. - decenti; è contrario al consumismo italiano, che fa circolare beni superflui senza aver prima risolto il problema dei beni necessari);
3) lotta contro l'intolleranza reale (mascherata dalla finta tolleranza) che colpisce gli omosessuali: l'omosessualità è un rapporto sessuale come tutti gli altri, che non degrada chi lo compie, anzi lo fa diventare più fraterno rispetto agli altri uomini e consapevole della costitutiva bisessualità di ogni essere sessuato;
4) polemizza con i giornalisti, da cui ritiene di essere perseguitato perché è un artista che si può permettere, al contrario della gran massa dei giornalisti italiani, di fare anche del giornalismo indipendente: non potendogli perdonare questa insubordinazione, lo accusano di essere un vizioso;
5) l'aborto: lo ritiene un omicidio, perché il feto ha una volontà di crescere e nascere; l'aborto va prevenuto informando la popolazione su una sessualità alternativa al coito e sui metodi anticoncezionali: è chiaro per lui poi, come dice il Pci, che l'aborto va legalizzato in determinati casi e responsabilmente, e non in ogni caso e trionfalmente come vorrebbe il Potere consumistico, che enfatizza il coito tra maschio e femmina per motivi di produzione e consumo di beni superflui: chi fa l'amore consuma maggiormente questi beni (una coppia non può, ad esempio, non possedere un'auto);
6) propone un (metaforico, ma possibilmente anche concreto) Processo penale ai governanti democristiani rei di non aver compreso e tanto meno lottato contro il nuovo Potere consumistico: essi sono rimasti mentalmente all'epoca del clerico-fascismo e nei fatti hanno rovinato l'Italia deturpandola sia paesaggisticamente che antropologicamente, perpetuando la solita politica mafioso-clientelare;
7) dà alcune lezioni di pedagogia a un ipotetico ragazzo napoletano di nome Gennariello, al quale consiglia la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile; gli ricorda che è il possesso culturale del mondo che dà la felicità;
8) contro la criminalità di massa (ritiene che tutti i giovani siano dei criminaloidi, potenziali carnefici tipo i massacratori del Circeo, senza un conflitto interiore tra bene e male, perché la loro colpa viene prima ed è nell'aver scelto di non avere alcuna pietà) propone due soluzioni "assurde": a) abolire immediatamente la scuola media dell'obbligo (che insegna a diventare dei presuntuosi ignoranti ipocriti piccolo borghesi); b) abolire immediatamente la televisione (che toglie i valori della tradizione popolare sostituendoli con falsi modelli consumistici che rendono i giovani nevrotici, infelici e appunto criminali, perché molti non hanno i soldi per essere all'altezza dei "figli di papà", da loro invidiati). Nel suo gergo abolire sta per riformare radicalmente, perché la scuola dell'obbligo dovrebbe insegnare ai ragazzi la scuola guida e il galateo stradale, oltre a come risolvere i problemi burocratici e rispettare il paesaggio... dovrebbe insegnare una sessualità completa ma non nevrotica e dare la possibilità di molte libere letture commentate; la televisione sarebbe meglio che diventasse pluralista, con programmi concorrenziali gestiti dagli stessi partiti politici (si tratterebbe di portare alla luce del sole la sotterranea lottizzazione della Rai): lo spettatore potrà confrontare criticamente i vari programmi e farsi una idea propria;
9) prepara il testo di un intervento al Congresso del Partito radicale, ma non fa in tempo a leggerlo (verrà letto a Firenze due giorni dopo la sua morte): ribadendo di essere sempre un marxista che vota Pci, ha speranze sia nel Pci che nei radicali; avverte il pericolo di una falsa realizzazione dei diritti civili, falsa perché intollerante verso ogni reale alterità; suggerisce per questo ai radicali di valorizzare tutte le forme, alterne e subalterne, di cultura; li esorta a restare sempre se stessi, eternamente contrari e irriconoscibili, a identificarsi col diverso, a scandalizzare;
10) rilascia, il giorno prima di essere ucciso, la sua ultima intervista, a Furio Colombo, nella quale dice che ormai gli sfruttati vogliono stare al posto dei padroni, tutti sono ormai vittime e carnefici a causa dello stesso sistema di educazione al possedere e al distruggere; però dice anche di sperare in un ritorno futuro della autentica mentalità rivoluzionaria di chi vuole lottare contro i padroni senza prenderne il posto; una delle sue ultime frasi dà il titolo all'intervista: "Siamo tutti in pericolo."

domenica 6 aprile 2008

Recessione o depressione?

Siamo al Big One?


di Mike Whitney


Lunedì i mercati asiatici sono stati dominati dal timore di una recessione statunitense, e il corso delle azioni è precipitato. Gli indici hanno incalzato gli operatori in quella che è diventata la peggiore giornata borsistica dal 2001. Il Bombay Sensitive Index indiano ha perso 1.408 punti (fermandosi a 17.605), lo Shanghai Composite cinese ha ceduto 266 punti, cioè il 5,5% (calando a 23.818), e il Nikkei giapponese è sceso di 535 punti (attestandosi a 13.325 punti). Il salasso si è ripetuto in tutto il continente ed è arrivato in Europa, dove i titoli sono precipitati di oltre il 4% a metà giornata, "avviandosi verso quello che poteva diventare il peggior crollo in un solo giorno da oltre quattro anni e mezzo".Le vendite massicce indicano chiaramente che gli investitori non credono i tagli del FED ai tassi e il "pacchetto d'incentivi" da 150 miliardi di dollari del presidente Bush sufficienti a rianimare la moribonda economia o a dare respiro a un consumatore americano sovraindebitato. Dopo il netto ribasso di lunedì, le possibilità di evitare una profonda e prolungata recessione sono ridottissime o nulle. Nouriel Roubini, docente di scienze economiche, aveva delineato uno scenario simile circa un mese fa:"Gli Stati Uniti sono definitivamente entrati in una grave e dolorosa recessione. Non ci si domanda più se l'economia subirà una caduta morbida o violenta; ci si domanda piuttosto quanto sarà violenta la caduta dovuta alla recessione. I fattori che rendono quest'ultima inevitabile sono: la peggiore (e diventerà ancora più grave) recessione mobiliare mai registrata nel paese, la disastrosa situazione di liquidità e credito dei mercati finanziari (che si sta dimostrando molto più seria di quanto non lo fosse all'inizio dell'estate), gli elevati prezzi del petrolio e della benzina, la contrazione delle spese in conto capitale del settore aziendale, la crisi del mercato del lavoro (dove vengono creati meno posti e il tasso di disoccupazione sta rapidamente crescendo), la situazione dei consumatori americani (con pochi risparmi, oberati di debiti e senza potere d'acquisto) che, a causa del crollo dei prezzi nel settore immobiliare, non sono più in grado di usare le proprie case come fonte di moneta per spendere più di quanto guadagnano. Negli USA il consumo privato supera il 70% del PIL; il fatto che i consumatori stiano adesso limitando e tagliando le spese mostra chiaramente che la recessione è in arrivo. Oltre alla recessione, negli USA si delineano adesso seri rischi di una crisi finanziaria dell'intero sistema. Le perdite finanziarie si stanno allargando dai subprime ai prime e ai mutui prime, al credito al consumo (carte di credito, finanziamenti auto, prestiti agli studenti), ai finanziamenti per immobili commerciali, ai mutui con capitale di prestito, alle acquisizioni con capitale di prestito riportate/ristrutturate/cancellate, e, ben presto, ai livelli d'inadempienza sulle obbligazioni societarie, con un ulteriore giro di enormi perdite nei crediti per swap inadempienti. Il totale di tutte questi passivi finanziari potrebbe superare il trilione di dollari, innescando così massicce perdite nel credito e una crisi sistematica del settore finanziario" ( Nouriel Roubini Global EconoMonitor).I periodi di stagnazione che si sono susseguiti negli ultimi decenni hanno lasciato i lavoratori americani a mal partito e incapaci di continuare a contribuire per il 25% al consumo globale. Il ridursi del credito e l'impossibilità di un risparmio personale hanno aggravato il problema. I consumatori americani sono fuori gioco. Ciò significa che la domanda aggregata cadrà drammaticamente, provocando maggiore disoccupazione, minore espansione del capitale e una più marcata riduzione dell'attività commerciale. Si tratta dei primi segni di una spirale deflazionistica che spazzerà via trilioni di dollari di capitalizzazione di mercato nel settore immobiliare, azionario e obbligazionario. Anche il prezzo dell'oro e del petrolio scenderà sensibilmente (come abbiamo constatato nei risultati di lunedì).La crisi attuale non è imputabile alle normali forze di mercato, ma alla politica di fissazione dei prezzi praticata dalla Federal Reserve e all'ingegneria finanziaria delle principali banche d'investimento. Se le attività della Banca centrale fossero state sufficientemente regolamentate, evitando così di tenere per oltre 31 mesi (sotto Greenspan) il tasso d'interesse al di sotto del tasso d'inflazione, il mercato immobiliare non sarebbe stato sommerso da trilioni di dollari in crediti a basso interesse, che hanno dato il via a un'ondata di acquisti immobiliari speculativi e alla più grande bolla speculativa della storia statunitense. Nonostante le sue inconsistenti giustificazioni, nessuno più dubita del ruolo giocato da Greenspan nel distruggere l'economia americana. Nella sua edizione di sabato, persino l'editorialista di estrema destra del Wall Street Journal ammette la responsabilità di Greenspan. Ecco cosa dice: "Durante il solito caos quotidiano del mercato, e per evitare un crollo, può essere utile fare un passo indietro e riflettere su come siamo arrivati a questo punto. Col senno di poi, tutti possono vedere che l'economia americana è cresciuta su un'enorme bolla creditizia che adesso è scoppiata. Il nostro personale punto di vista, che avevamo già espresso sin dal 2003, è che la bolla è imputabile soprattutto alla Riserva federale, che ha mantenuto i tassi d'interesse reali troppo bassi e troppo a lungo. In questo modo ha creato un sussidio al credito e una perturbazione dei prezzi sul mercato a termine".I bassi tassi d'interesse di Greenspan hanno stimolato rischiose speculazioni sfociate in bolle speculative su titoli da incubo. La politica del "denaro economico" della FED ha generato una domanda artificiale di abitazioni che ha fatto salire i prezzi a livelli insostenibili. Adesso possiamo aspettarci un crollo del mercato immobiliare come non si è mai visto in questo paese dopo gli anni '30. È l'inevitabile sbocco dell'ingannevole prosperità dei "bassi interessi" voluta da Greenspan. Greenspan non è l'unico responsabile del disastro attuale. I mercati finanziari sono stati ridisegnati in modo tale da favorire tutti i tipi di corruzione. Il nuovo modello, la "finanza strutturata", permette di mascherare con rating fraudolenti attività prive di valore e di venderle a investitori inconsapevoli. Un tempo affermazioni di questo tipo sarebbero state accantonate come deliri di un maniaco delle cospirazioni, ma adesso possiamo trovare accuse simili persino sul Wall Street Journal e alla CNBC. Il Wall Street Journal spiega come il deficit di 800 miliardi di dollari delle partite correnti abbia creato un circolo che ha riportato il denaro di nuovo negli USA:"Il flusso di capitale e il sussidio al credito, a loro volta, sono diventati un incentivo per i funzionari più furbi delle società di credito ipotecario e delle banche d'investimento che, in un certo senso, hanno creato un nuovo sistema finanziario (crediti subprime, SIV, CDO, eccetera) estremamente efficiente e hanno trasferito soldi in nuovi settori. Ma grazie ai bassi tassi d'interesse e alla carica di entusiasmo, la follia del credito si è sparsa dappertutto"."Carica di entusiasmo"? È forse un eufemismo per "insaziabile ingordigia"?Il Wall Street Journal ammette che era stato creato un nuovo mercato del "debito strutturato" per infiocchettare dubbi crediti subprime (di richiedenti "non documentabili" "non collateralizzati" o "con credito negativo") e rivenderli, come se si trattasse di preziosi gioielli, a fondi d'investimento speculativo, società di assicurazione, o banche estere. Il WSJ dichiara che questo era il modo in cui "i funzionari più furbi" "sfruttavano" le opportunità offerte dai munifici "flussi di capitale".Ma si trattava di "furbi" o di "criminali"?Per fortuna, la risposta è arrivata questa settimana in un succedersi d'interventi di Jim Cramer, guru degli insider di mercato e dei titoli, sulle onde della televisione. Nell'ultima apparizione ha spiegato in dettaglio il suo coinvolgimento nella creazione e vendita dei "prodotti strutturati", che non erano mai stati testati a fondo in un mercato in crisi. Nessuno sapeva fino a che punto sarebbero andati male. Cramer ha ammesso che la spinta a rifilare questa spazzatura agl'investitori creduloni era semplicemente l'ingordigia. Ecco cosa ha detto:"E' TUTTA UNA QUESTIONE DI COMMISSIONI""Le commissioni sui prodotti strutturati sono talmente grandi che vale la pena di occuparsene" (nota: "occuparsene" significa rifilarle al compratore). È tutto una questione di commissioni: quelle sui prodotti strutturati sono GIGANTESCHE. Avrei potuto far fortuna "RIFILANDO QUESTA CARTA STRACCIA" ma avevo una certa coscienza, che cosa sensazionale! Avevamo l'abitudine di fissare regole per la gente, ma all'epoca di Reagan decisero che era un male. Così non abbiamo più imposto regole a nessuno. E le commissioni sui prodotti strutturati sono così gigantesche (pausa). Prima di tutto il compratore non ha la minima idea di che cosa si tratti, dato che è un prodotto inventato. In secondo luogo l'idea è che il compratore è veramente stupido; come dicevamo a proposito delle banche tedesche "I banchieri tedeschi sono proprio dei ragazzoni. Rifilategli qualsiasi cosa". E gli australiani 'STUPIDI', e i Florida Fund (ha ha ) "Sono così stupidi che possiamo rifilargli un B3 (livello spazzatura). Poi dobbiamo solo ridere e ridere dei compratori e affibbiare loro le commissioni... Ed è quello che è accaduto... Ricordatevi che è tutta una questione di commissioni, di quanti soldi potete fare raggirando stupidi compratori. Ho visto la stessa cosa in tutta la mia vita; voi stupidi compratori". Leggete tutta la confessione suhttp://www.cnbc.com/id/22706231 http:// Trilioni di dollari in investimenti strutturati (CDO, MBS e ASCP) hanno adesso bloccato il sistema economico globale e stanno facendo precipitare a capofitto il mondo in una recessione/depressione. La confessione di Cramer è una candida ammissione dell'intento criminale di frodare il pubblico vendendogli prodotti che gente all'interno del sistema finanziario SAPEVA essere falsamente sopravvalutati grazie ai loro rating. Li hanno venduti semplicemente per rimpinguare il proprio conto in banca e perché non esiste più un'agenzia all'interno del governo statunitense che stronchi le attività illecite. BOICOTTARE I PRODOTTI FINANZIARI STATUNITENSI ? Mentre il mercato azionario continua la sua inesorabile caduta, le banche centrali estere e gl'investitori debbono riconsiderare la situazione attuale e perseguire in modo aggressivo alternative legali. Bisognerebbe iniziare un boicottaggio di tutti i prodotti finanziari statunitensi fino a quando non sarà stato negoziato un equo accordo per le centinaia di miliardi di perdite dovute alla truffa della "finanza strutturata". È il miglior modo di proteggere gl'interessi del proprio paese e dei propri clienti.La deregolamentazione ha distrutto la credibilità dei mercati USA. Non c'è errore possibile: siamo nel selvaggio Far West. I titoli vengono presentati in modo ingannevole, i rating non hanno nessun valore, ed esiste una chiara intenzione di truffare. Ciò significa che la guida del sistema economico mondiale non è più in buone mani. C'è bisogno di un cambiamento radicale. Mentre lo "scenario da incubo" della recessione globale continua a svilupparsi, abbiamo bisogno che appaiano nuovi leader in Europa e in Asia e colmino il vuoto. Mike Whitney

giovedì 3 aprile 2008

Il tradimento dei chierici, ovvero i sofisti della modernità.

Nel 1927 appariva il libro del filosofo francese Julien Benda La trahison des clercs (tradotto in Italia solo nel 1976!), in cui sosteneva che gli intellettuali hanno tradito la loro vocazione alla ricerca pura e disinteressata per gettarsi nel fiume delle polemiche politico-sociali, abbandonando la loro funzione di guide spassionate dell’umanità, capaci di stare al di fuori e al di sopra della mischia e delle turbolenze contingenti. Oggi si potrebbe ancora parlare di “tradimento dei chierici”, ossia degli intellettuali, ma con riferimento a un’altra e - secondo noi - più grave deviazione dalla loro missione culturale e spirituale: la diserzione dal loro impegno naturale di fornire dei punti di riferimento etici, estetici ed esistenziali per farsi “cattivi maestri” di un sapere sofistico e nichilista, dove tutto è uguale a tutto e dove l’uomo non riesce a scorgere alcun orizzonte di senso. Senza voler sopravvalutare la loro funzione in seno alla società (ma come non essere tentati di farlo? Platone ci parla ancora, a ventiquattro secoli di distanza, con forza prorompente), non possiamo non notare che coloro i quali dovrebbero costituire le guide ideali della società si sono auto-retrocessi al ruolo di spettatori o, al massimo, di testimoni di una crisi sempre più profonda e non priva di autocompiacimento. Si direbbe che, nel caos dei punti di vista soggettivi e nel senso di sgretolamento che è l’inevitabile conseguenza di una prolungata idolatria dell’esistente - volta a volta la scienza, la storia, il comunismo, il capitalismo, la tecnologia - gli intellettuali altro non sappiano fare che unire le loro voci spaventate, tremebonde e assai poco virili al coro di gemiti, imprecazioni, deliri e spacconate che la modernità ha prodotto e continua a produrre, in una specie di frenetico cupio dissolvi.
Ci piace citare a questo proposito un passo del bel romanzo di Vintila Horia, La settima lettera (Milano, Edizioni del Borghese, 1965, traduzione di Orsola Nemi), in cui Socrate si rivolge al giovane discepolo Platone, lamentando la decadenza morale della città di Atene e individuandone con lucida semplicità le cause: “Sai che cosa penso? Che la decadenza della nostra città viene dai cattivi medici che hanno avuto in cura le giovani anime, e che i tuoi colleghi sono quello che sono, ubriaconi, traditori, profanatori degli déi, perché ignorano tutto della saggezza, e i sofisti, loro maestri, fabbricando imitazioni e omonimi di esseri reali, li hanno spinti verso la ignoranza, e dunque verso la presente cattiveria. E a questo, amico mio, non v’è rimedio.”
A noi, invece, piace pensare e credere che vi sia ancora un possibile rimedio: sferzare a sangue, se occorre, i sofisti; scacciare il coro dei cattivi maestri che seminano dubbio, angoscia e paura; rincuorare le giovani anime con un messaggio positivo di speranza, amore e fede nella bellezza, nella bontà e nella verità. I giovani ‘esistenzialisti’ parigini degli anni ‘50, che hanno fatto scuola in tutto il mondo, erano i portatori di un mondo decadente e desideroso di auto-distruzione, il mondo descritto dal loro maestro Sartre nel suo romanzo La nausea: dove tutto è nauseante, l’esistenza stessa non desta altro che disgusto e repulsione. Che brutta cosa essere al mondo, era il messaggio da essi raccolto e volonterosamente trasmesso; che maledizione, la libertà. E Heidegger, maestro - in un certo senso - di Sartre, non aveva forse insegnato che l’unica certezza data all’essere umano è il suo essere-per-la-morte? Quanto smarrimento, quanta confusione sono stati seminati dai chierici, sotto le apparenze di una cultura spregiudicata e anticonformista, insofferente dei valori tradizionali ma totalmente incapace di elaborarne di nuovi!
La verità è che, specialmente oggi, nulla vi è di più piattamente conformistico di questa arte d’avanguardia, che odia e detesta l’estetica del bello e del naturale (l’art brut); di questa poesia che sa cantare solo il male di vivere (Montale, Pavese); di questa filosofia che esalta solo la rivolta il furore (Nietzsche, Camus); di questa musica che vuol buttare nel cestino un’intera civiltà musicale (dodecafonia); di questa scienza o pseudo-scienza che, nell’uomo, non vede altro che un animale (Darwin) in preda a pulsioni selvagge e inconfessabili (Freud); di questa cultura, in una parola, che esalta solo l’azione, la tecnica, il profitto e deride tutto ciò che è ascolto, disinteresse, contemplazione. Siamo caduti veramente in basso: sguazziamo come rane nello stagno, scambiando l’acqua fangosa per il limpido cielo sopra di noi. Ci siamo reclusi volontariamente nella più buia e maleodorante delle cantine, benché abbiamo a disposizione uno splendido palazzo circondato da un magnifico parco verdeggiante, ove risuona il canto d’innumerevoli uccelli. L’uomo - è questa una grande verità - finisce per diventare quello che pensa di essere. Se si guarda allo specchio e si vede come un lupo feroce per i suoi simili (Hobbes), o come un profeta di giustizia senza amore e senza misericordia (Marx), o come una scimmia evoluta a caso e destinata a sparire per caso (Darwin) o, ancora, come un grande organo sessuale in perenne eccitazione e sconvolto da desideri vergognosi d’incesto e parricidio (Freud), tale finirà per diventare. Se invece pensa a se stesso come a una persona, sostanza spirituale fatta di socialità e individualità originariamente unite (Rosmini), a un essere singolo, unico e irripetibile e perciò sommamente prezioso (Kierkegaard), che opera non per la sua propria gloria, ma a maggior gloria di Dio (Bach) e che al Cielo aspira a ritornare dopo essersi purificato con una vita generosa e volta al bene (Platone, Agostino, Tommaso d’Aquino, Dante), allora tenderà a diventare tutto questo.
L’uomo è quello che mangia, dice il materialista; sì, ma l’uomo non si nutre solo di alimenti sensibili: egli ha anche fame di qualcos’altro, ha fame di spiritualità: e, se riesce a nutrirsi di buoni cibi spirituali, può conquistare la salute dell’anima; ma dipende solo da lui.
Ecco perché vivere all’insegna della Bruttezza (che Elsa Morante descriveva come il grande peccato della modernità), nelle brutte città rumorose e inquinate, nei brutti palazzi di acciaio e cemento che sono altrettante torri di Babele, circondati da odori sgradevoli, da rumori incessanti e cacofonici, istupiditi da uno stile di vita consumistico che rasenta il masochismo (le torture della moda, della cosmesi, della chirurgia estetica), abbrutiti da una vita sedentaria e in buona parte consumata davanti alla TV o allo schermo del computer, esasperati dalla ripetitività e dagli ‘effetti collaterali’ dello sviluppo, imprigionati dal conformismo, sovreccitati dalla pornografia, manipolati da una politica demagogica, assuefatti a dosi sempre più massicce di violenza…, ecco perché tutto questo significa retrocedere, giorno per giorno, dalla condizione di persone a quella di cose, di oggetti utili come consumatori, contribuenti, utenti, elettori, spettatori, tutto tranne che soggetti di libere scelte, con una propria individualità e una propria dignità insopprimibile.
È questo un discorso troppo generico, troppo velleitario, troppo rozzo nel suo rifiuto di eleganti giri di parole per descrivere la presente degradazione dell’essere umano? Può darsi: ma sta di fatto che il re è nudo, è in mutande, e da un bel pezzo: e siamo stanchi di sentire i nostri chierici-sofisti che servilmente ripetono: “Ma come è bello il vestito nuovo dell’imperatore! Ma come è sfarzoso, ma come gli sta bene!”. Basta, signori chierici; basta. Ne abbiamo udite fin troppe di sciocchezze e di piaggerie, in questi ultimi anni. Voi, maestri di menzogna e di compromesso: voi, che avete inventato espressioni repellenti come lo sviluppo sostenibile per poter continuare a devastare e inquinare la terra senza sensi di colpa, o come peace-keeping per la democrazia, per poter scatenare sporche guerre di puro dominio, camuffandole da nobili crociate del Bene contro il Male! Basta, signori chierici: così non va. Ci aspettavamo qualche cosa di meglio da voi. In fondo, siete una parte della classe dirigente (la parte più nobile e attenta ai valori dello spirito, vi vorrebbe dire). E che razza di classe dirigente è quella che, invece di dirigere, si mette a rimorchio di tutte le mode, di tutte le follie, di tutte le viltà, di tutte le menzogne?
Quante menzogne avete detto finora, signori chierici. Ad esempio, che la tecnica è solo un mezzo e che basta usarla bene perché tutto vada a posto. Andatelo a dire ai bambini di Hiroshima, andatelo a dire ai bambini di Chernobyl, che la tecnica è solo un mezzo. Voi sapete di mentire, signori chierici: sapete che la tecnica, quando supera una certa soglia di potenza e quando viene messa sul mercato a disposizione di tutti, ma proprio di tutti, ci strappa le redini e ci trascina là dove lei vuole: cioè verso una sua potenza sempre maggiore, senza limiti, all’infinito… E la cosa più triste è che tutte queste menzogne le dite per il più sordido dei motivi: l’interesse. Sì, perché dicendo queste menzogne voi ci guadagnate. Vi pagano bene, e vi chiamano anche in televisione a pontificare, ad affollare i salotti del piccolo schermo, dove schiere di tuttologi impettiti a tanto il chilo blaterano e dissertano di tutto un po’, ma - alla fine - di una cosa sola: evviva la moda del momento, i gusti del momento, gli umori del momento, i potenti del momento! E domani, quando il vento sarà cambiato (il vento dell’audience, per esempio), ecco sarete lì di nuovo, a dire esattamente il contrario di quel che dicevate oggi; e a dire - ecco l’impudenza, ecco il peccato che non vi verrà perdonato - che voi lo avevate sempre detto che le cose stanno così: e vi chiamerete a testimoni l’uno dell’altro, l’uno a coprire la menzogna spudorata dell’altro. Senza pudore, senza dignità, senza senso della decenza e del ridicolo: bandiere al vento, buone per tutte le stagioni, purché vi paghino bene, vi stampino i vostri libri, vi offrano prestigiose carriere universitarie, o politiche, o… d’altro genere.
Quando la nave è in pericolo, sballottata dai marosi, i passeggeri tremano e guardano il capitano, smarriti. Guardano il timoniere, guardano i marinai: da loro si aspettano qualche motivo di speranza. Ma oggi non è più così: il capitano è un mercenario, che ha già abbandonato la nave di soppiatto per mettere in salvo la sua preziosa pelle (vedi l’emblematico Lord Jim di Joseph Conrad); il timoniere è un incapace e un ubriacone, i marinai si contendono ferocemente le scialuppe di salvataggio: hanno altro da fare, che preoccuparsi della salvezza dei passeggeri! E allora? E allora bisogna che i passeggeri ritrovino un soprassalto di dignità e di coraggio, prendano il timone nelle loro mani, traccino la rotta con le loro forze. Forse non tutto è perduto; forse, sbarazzatisi di un equipaggio di vili parassiti, sapranno evitare gli scogli a fior d’acqua, pur non essendo degli esperti di navi e di navigazione. Forse si accorgeranno che guidare la nave non è poi cosa impossibile, anche senza goniometro e senza carte nautiche: con un po’ di buon senso e con molto coraggio, tenendosi al largo dalle secche e lasciandosi guidare dall’istinto di sopravvivenza, che raramente fallisce, ce la faranno. Se non altro, ci avranno provato: ora come ora, stipati sul ponte come un gregge di pecore condotte al macello, non hanno la benché minima probabilità di cavarsela.
Coraggio, facciamo un tentativo da uomini. Se affonderemo sugli scogli, almeno periremo con onore. Altrimenti, c’è perfino il rischio di scoprire che, nella navigazione della vita umana, è giusto e doveroso tracciare da sé la propria rotta, guardando il sole e le stelle, respirando l’aria libera e il salmastro del mare, dritto incontro alla meravigliosa avventura cui siamo chiamati a collaborare: ma da uomini liberi, non da servi drogati e smidollati dalle graziose catene d’oro.

di Francesco Lamendola